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Alessio Paiano: s’inceppa tutto il discorrere

 

 

Ospito qui -in anteprima- alcuni estratti da Punti di fuga di Alessio Paiano, pubblicato da Arcipelago Itaca, insieme alla postfazione di Andrea Donaera.

 

da CRONACHE CITTADINE (UNA VISIONE) o la solitudine di un poema impossibile

 

Scena: Basilica di San Marco, interno 

III.

Accanto a te si raggruma un volto,

la forma decifrata della morte,

non più tassello ma lacrima scura

sul volto raggelato della madre;

 

e quegli occhi che ruotano a rovescio

rifanno tracce di strade celesti,

le vie di traballanti carovane

che hanno seguito le rive del mosaico.

 

V.

La scena dell’Apocalisse dice:

dal tuo grembo, madre, partorirai un re,

e ai piedi giungeranno sette teste

alate a divorarti il pube e il figlio.

 

Per mille duecento sessanta giorni

vagherai al suono di una triste voce;

visioni di serafini eccitati

chiederanno il perdono dei peccati.

 

Cronaca III dei conquistatori

 

Per tre giorni passavamo gli abitanti a fil di spada, uccidendoli tutti, alcuni di noi presi dalla fame infilavano i bambini negli spiedi e li divoravano dopo averli arrostiti

Il giorno dopo percorremmo tutte le stradine appiccando il fuoco a ogni casa, tagliavamo i seni alle donne che rifiutavano di essere vendute e col sangue alle ginocchia ringraziavamo colui che lo volle, la folla cadeva a terra come un frutto marcio

Gli uomini lontani non volendo che alcuno toccasse i loro beni presero a trangugiare le loro monete, alcuni le nascosero in bocca dietro le gengive, e allora quando qualcuno dei nostri li colpiva con un pugno sul collo, questi sputavano dalla bocca monete d’oro

 

da PUNTO DI FUGA (GEDÄCHTNIS)

 

IV.

– Tu scrivi e inventi una contromisura

che ti destituisca, le coordinate

di una decifratura da ricomporre

in caratteri, scribacchi un passato

espulso nel fiato, un esorcismo

 

– scrivi e s’inceppa tutto il discorrere

nel punto di fuga, il tra tra

 

– una sezione trasversale

il filo rosso della memoria,

come cavalcare la spina dorsale

del tempo, e tu sprofondi di punto in punto…

 

 

Fare finta, farsi male: finalmente abbiamo un tutorial poetico

di Andrea Donaera

 

Se nell’esordio L’estate di Gaia (Musicaos, 2019) la poesia di Alessio Paiano emergeva come un canto gustosamente sguaiato tinto da un elegante polemismo nei confronti del “fare poesia” post-novecentesco, in questo nuovo libro troviamo solo pochi reperti di quel mood: in Punti di fuga c’è il ridimensionamento di chi si è già schiarito la voce con rumorosissimi colpi di tosse, e dunque può finalmente dire la sua – anche perché, nel panorama poetico circostante (nel mondo in cui tutto è “I-qualcosa”, tutto è un “Io”, anche gli oggetti), scrivere corrisponde fondamentalmente a un prendere la parola, ritagliarsi uno spazio di alcune pagine brossurate, e intervenire – a dire «Io», insomma, anche senza dirlo, anche nascondendosi dietro l’ormai raggrinzito (ma tutto sommato in forma) dito della scrittura in versi.

Punti di fuga, però, letto nel suo complesso, è molto più di un intervento, va ben oltre la partecipazione allo spazio letterario: è un progetto di scrittura, che per compiersi decide di affidarsi al medium poetico. Sembra poco: ma chi segue un po’ la poesia degli ultimi anni sa bene che non lo è affatto. Tra vaghe “raccolte poetiche” e nebulosi testi poematici dal tema incerto basati su rarefatte intuizioni, quello che compie Paiano è un esperimento sostanzialmente eccezionale – una eccezione.

La prima sezione accoglie chi legge facendolo cadere in un tranello. Sembra a tratti di sentire il Paiano dell’esordio, con la pretesa legittima di realizzare un poema impossibile, con il tentativo (che ci si trascina ormai dagli anni Sessanta del secolo scorso) di ridimensionare il famoso “Io” che ossessiona chi studia poesia e poi prova a scriverne. Eppure qualcosa scricchiola splendidamente: la lingua ora è liscia, le immagini tasselli di un tempio/basilica abbacinante mai (troppo) lisergico o intangibile – anzi, il tono si fa addirittura gustosamente epico (e dal piglio straniante e civile) nella riscrittura di gesta medievali provenienti da fonti riguardanti le Crociate e la Reconquista.

E infatti le sezioni successive aprono a un pianeta letterario differente, dove l’autore sembra togliersi la giacca, arrotolarsi le maniche della camicia, lanciare via la carta ingiallita adatta al “poemare impossibile”: e si getta a capofitto nel gorgo del linguaggio, abbrancandosi al più affidabile (e trasversale) poeta del secolo scorso, Giorgio Caproni – anche se il Caproni più intangibile, quello di Res Amissa.

Qui, dopo solo una ventina di pagine, facciamo una scoperta raggelante e preziosa. Paiano non è un poeta. È di più. È uno che scrive con il progetto di fare (a noi, a sé stesso, a nessuno) del male. Ce lo dice. E lo fa così: «Tu scrivi e inventi una contromisura / che ti destituisca, le coordinate / di una decifratura da ricomporre / in caratteri, scribacchi un passato / espulso nel fiato, un esorcismo».

Paiano fa «abbozzi», «tentativi». In queste prime sezioni siamo con l’io poetico a Venezia: luogo letterario di morti celebri, nascite preziose, vite impossibili. E la persona che osserva il circostante in questi versi è sdrucita dai luoghi e dalla Storia che gli invade il cervello, creando smottamenti semantici e lessicali. La poesia non può fare altro che non compiersi (abbozzarsi) – nel tentativo (impossibile?) di compiersi.

Ed ecco che questo tentare e abbozzare assume un procedere già caro alla storia della poesia: il fluire, esile e tortuoso – quel fluire che genera una mimetizzazione mai invecchiata (nonostante la sua illustre genealogia resa finanche scolastica da Ungaretti), cioè quella con i fiumi.

La sezione Memoriale del fiume è uno sbattere placido e tormentato di versi tra le sponde di acque andaluse: l’Andalusia si conforma come archetipo di un meridione socialmente strattonato dal potere, e meravigliosamente sfigurato da una luce perennemente giallastra di sole o di pietra. Emerge, da lontano, la provenienza dell’autore, cioè quel meridione italiano, spento e appassito nel cuore e incartato in una confezione luminescente. Quel sud sintetizzato nel verso: «nessuna antica voglia o nostalgia del male» – e che sembra geneticamente e geologicamente connesso con la distantissima placca sudamericana (già nelle scritture di uno dei più noti autori salentini, Vittorio Bodini, questa visione era tematizzata e alimentata).

Si fluisce, nel testo: come «un tassello sconnesso / che dimenticato ha percorso le piste fluviali» si esonda per andare a finire in un altro fiume, verso il Po torinese, in una delle sezioni meglio riuscite dell’opera, Le cose perdute. Torna il soggetto-tassello, che va a comporre e comporsi, guardandosi ancora in una a-patica (ma non inerme) seconda persona dal sapore di Perec, racchiudendo una serie di versi che forse sintetizzano tantissimo della poetica più profonda di questo Paiano fluido: «Ti sommergi in questo tuo trapassato: / il corpo ti fa peso verticale, / sei tu l’antico relitto sul fondo / che sparge la sua storia nelle pieghe / di un foglio corallino, / e allora andiamo».

La svolta all’interno della raccolta, però, arriva imprevista e paradossale nella sezione Periferie. Imprevista perché il fluire si interrompe brusco, si fa ticchettio di tasti e picchiettio di schermi, si fa nevrosi tutta contemporanea. Paradossale perché avviene nell’aggancio più deliberato con l’opera d’esordio, quella che in qualche modo sembrava archiviata, quella dove il digitale veniva trattato come cigno nero che coglie di sorpresa il reale scardinando le precarie esistenze dei soggetti che provano a popolare un pianeta terra che sembra abitabile soltanto se si compiono un susseguirsi di restrizioni – e allora si esonda, ci si fa ulteriori, ci si immerge in quell’inedito Grande Altro lacaniano rappresentato dalla possibilità di sdoppiarsi in uno spazio intangibile eppure esperibile. E vengono alla mente le parole di Teresa Ciabatti: «l’immaginazione è una forma di esperienza» – quello che Paiano sembra urlarci in un poetare che, se avessimo voglia e coraggio di non giocare a far finta di essere critici letterari, potremmo definire frutto di una “poetica #nofilters”: «I corpi che ammassati sullo schermo / producono gesti ossessivi / annunciano una nuova umanità / che cerca la sua lingua e non ci sa parlare / e noi non sappiamo cosa dire loro».

Finora si è evitato di delineare uno degli aspetti che rende l’opera che avete tra le mani qualcosa di poderoso nel novero scomposto e disordinato della poesia circostante: la questione tecnica – o formale, o stilistica… insomma, l’howness, come Paiano ottiene le immagini che vanno a comporre i suoi tasselli fluidi che, per comodità, chiamiamo poesia. E si procederà con questa strategia del silenzio attorno a tale argomento, perché non è possibile fare altro: la scrittura di questo autore è mossa da un carburante tecnico-stilistico che lascia sbigottiti, tanto che bisognerebbe parlarne troppo, occupando lo spazio di un saggio. C’è una robustezza compositiva che è evidentemente frutto di un training intenso – prova che abbiamo davanti un’opera costruita con lo stesso impegno con cui si realizzano certi romanzi. E ogni testo emana una eccellente consapevolezza dei mezzi della tradizione poetica, proveniente in modo chiaro dal magistero (accademico o privato) a cui moltissimi millennial (ah, sì, Paiano è un classe ’92, va soltanto verso i trenta) hanno oramai facile accesso – ma pochissimi sono capaci di capitalizzare i gorghi argomentativi nei quali ci si ritrova inghiottiti quando si studia letteratura all’Università. Insomma, Punti di fuga si staglia tra i vari libri di poesia di questo periodo anche per questo meccanismo di revisione, assimilazione e personalizzazione del sapere tecnico afferente alla scrittura in versi, dove anche eventuali parentesi di epigonismo avvengono seguendo il percorso di una scelta coerente con il discorso di scrittura messo in moto.

La questione stilistica però a un certo punto finisce per esplodere, sparpagliando in un altro idioma la lingua poetica presente finora nel testo: avviene nella sezione Hydrus, scritta in dialetto salentino, acme vertiginoso di questo Punti di fuga – opera che, arrivati a questa altezza, fa sentire chi legge come una sorta di ennesimo Pinocchio, un individuo post-umano stavolta tutto anima e niente corpo che è costretto a inseguire un destino testuale tessuto dall’autore.

Il dialetto qui esiste come unica possibilità: l’esaurimento di un discorso – interiore del poeta, non solo quello esteriore della poesia – che però non vuole o non può avere fine («tutto è bene quello che non finisce mai», recita in una celebre scena laforghiana quel Carmelo Bene che in tutto questo libro aleggia come soggetto fantasmatico, sfuggito da un inconscio tutto estetico e che salta tra i rami delle poesie come quel folle di san Giuseppe Desa da Copertino). Allucinante e allucinogena, questa sezione deflagra in un’atmosfera come è accaduto poche altre volte in tutta la poesia pugliese fino a oggi.

Quest’ultima sentenza è uno sbilanciarsi consapevole e, per chi scrive, tutt’altro che eccessivo. Basta con questo andarci cauti, non siamo più ciechi, vediamo benissimo che la poesia di questo territorio non ha mai assistito a versi che in nuce hanno il germe della commozione più cruda come: «Riccujimune, stasira ede tutta na malesciàna,/ la via ne mmoscia nu filaru de croci: / mbascia la capu, ca sti rami suntu ugne de macàra, / te chiedine cose ca te fannu chiangìre».

Il libro – che a questo punto ha ormai assunto la forma di una cerimonia – si conclude con una sezione di prose, La natura del dolore, presentata dall’autore come un «tentativo» (di nuovo) di ri-scrittura, stavolta del De Rerum Natura lucreziano – classico riportato da alcuni anni nell’alto dei cieli della poesia italiana grazie alla formidabile ricognizione critica divulgata da Milo De Angelis. Ma in questa porzione di libro avviene altro, non c’è connessione con il lavoro di De Angelis, e l’opera di Lucrezio è un espediente, un tessuto su cui poggiare uno sciorinamento poetico che non ha bisogno di versificarsi nel suo gelo concentrico lessicale e concettuale.

È uno scrivere che è figlio bastardo di poesia e filosofia, dove si svela l’ossessione che ha mosso l’autore dalla prima parola all’ultima: il «tentativo» (ovviamente) di scrivere (di) «cose impossibili».

Seguiamo il fluire in questo fiume di significanti che a ogni respiro significano qualcosa di enorme e impossibile, perché «se noi vogliamo capire cosa sia l’identità dobbiamo andare alle fondamenta, poiché la natura del dolore è tutta nelle fondamenta, / e allora andiamo», e allora scendiamo, e ci scontriamo contro un flusso che si fa uragano, e Paiano è un Mago di Oz, e ci dice: «non esiste un destino ma solo cose che devono accadere, e l’unica cosa da fare è accettare che qualcosa si stacchi con dolore, e quel momento non può essere rimosso perché irrisolvibile, e quando non possiamo risolvere una cosa essa non si dimentica, e allora tutte quelle cose che ricordiamo perfettamente sono irrisolvibili».

E capiamo.

Capiamo che questo era, alla fine, tutto un libro del dolore.

È un ricordare che fluisce, irrisolvibile, in un comporsi tesserina dopo tesserina in un mosaico luminoso e nero, dalle chiese veneziane alle acque andaluse, dalle luci di ogni sud immaginabile agli antri delle macàre: dalle guerre sante, dalle terre saccheggiate e conquistate.

Fino alle guerre di un io contro un altro (magari nella stessa persona).

Fino alle terre inermi dove ci sediamo a leggere – e a tentare un abbozzo di comprensione, un punto di fuga. Qualcosa del genere.

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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