L’Anno del Fuoco Segreto: Su Monomeri e Futuro
La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI.
di Gabriele Merlini
«E comunque, se ti interessa, lascia perdere e ascolta me.»
Vicino al materasso la lampadina ha la silhouette della befana e il telefono trasparente, nel caso provi a inclinarlo, emette ancora quello strano rumore di oggetti che scoppiano per inattese pressioni dei polpastrelli. «Sono tutto orecchi» ripete il giovanotto dal capo opposto del ricevitore quando, come da tradizione, il tono della sua voce si fa dogmatico e condiscendente. Fuori dalla finestra è settembre, l’estate che finisce: tempo di ballare, o almeno così sottolinea la TV in quel servizio patinato sulla bella stagione appena conclusa. In modo del tutto tradizionale lei si misura in una veloce apnea e un sorriso a nessuno prima di riproporre la solita giustificazione che già puzza di soffitta. «Beh» è quanto sibila alla specchiera che andrebbe fissata meglio, «in ogni caso non avevo niente di speciale da dirti. Tutto qui.»
«Ah. Tutto qui?»
«Sì. Tutto qui.»
Dal pianerottolo il suono di un rutto. «Solo boh. Mi sembra tutta una grande montatura. Alcune volte. Non trovi?»
Lei trova. Il giovanotto dal capo opposto del ricevitore solleva l’accendino agli occhi scuri come stesse vedendolo per la prima volta, dopodiché allontana dal petto il portacenere con le piramidi egizie. Gratta il ginocchio, ci pensa un altro po’ e tossisce tra le pieghe del calzino appiccicoso. «Sia come sia» va avanti la ragazzina nel momento in cui per innato senso del decoro viene abortito uno sbadiglio, «pensavo ti avrebbe fatto piacere riassumermi la chiacchierata per rinfrescarla anche a te stesso» e il braccio viene teso allo scaffale di legno scuro. Annuisce al flacone di crema idratante, si aggiusta un sopracciglio, incrocia sulle coperte le gambe che restano grissini, quindi torna ad aspettare il segno.
I
D’altronde, a differenza del giovanotto al capo opposto del ricevitore all’estero per un complesso sistema di corsi di lingua destinati a studenti neodiplomati, come al solito lei è in Italia ad ammuffire dentro quell’insulso pigiama a cuoricini e questo la spinge a domande scomode. I capelli colore del miele legati dietro la nuca da una coppia di elastici sfilacciati mentre, oltre il vetro della finestra ogivale, ancora presta la minuziosa, patologica attenzione alle nuvole nere della contadinella timorosa sorpresa dal diluvio in mezzo a un prato. A strane linee elettriche, al buffo pulviscolo, al suono musicale del vento. «Ok. Va bene. Te l’ho già detto» dice lui riannodando il filo della discussione. «Quella matta mi ha proposto un incontro non formale quando tornerò da voi, ché secondo lei sarebbe saggio da parte mia affrontare con serietà il tema del lavoro e…niente. Tutto qui.»
Altra minima pausa scenica.
«Quella matta?»
«Già. Quella matta. Ci sei?»
Assaporando il gusto osceno della terminologia, lei c’è.
«Voglio dire. Die Mutter disporrebbe di una considerevole somma di denaro da investire e troverebbe saggio se riuscissi a inventarmi qualcosa di sensato per il futuro sfruttando, come puoi immaginare, il lascito del nonno.»
«Interessante. Quale nonno?»
«Quello morto il mese scorso, se ricordi.»
«Interessante.»
«Non essere cinica.»
«Pardon» allorché la vista riprende a smarrirsi nella semioscurità della stanza da letto e ricomincia a borbottarle la pancia. «Questa fissazione di chiunque per il futuro» ripete lui quando verifica l’ora sulla sveglia, ridacchia allo zaino, tortura il piede martoriato dai lividi. I genitori che rientreranno nel breve da una cena e per un istante nella ragazzina si fa spazio il pensiero che ogni cosa nata morirà, separata si unirà e comparsa scomparirà. Tra i pomelli alla fine del materasso, attorno la figura del suo corpo disteso sono sempre le nove di sera e la successiva domanda è inaggirabile in quella scatola cranica così geometricamente, armonicamente, eternamente perfetta: quanti mesi è indietro, il mondo lì fuori?
II
«Circa un secolo. Più o meno.»
«Ok. Comunque dicevi. Cosa faccio io adesso? Beh, non faccio niente, sai?»
Il disco lunare annerito da una buffa striscia verticale.
«Capisco.»
«Giusto provo a non farmi sentire dalle spie mentre rovescio la benzina dentro al pianoforte a coda, e ti sto ad ascoltare. Ecco cosa faccio, io. In questo momento: niente. Affascinante. No?»
L’alluce tondeggiante sbatte sul legno del comodino. Operazione non facile, raggiungerlo. «Ché potrebbero inalberarsi da matti, se mi vedessero.»
«Ok. Senti. Loro sono a casa?»
«Negativo. Ancora no. Piuttosto mi hanno accennato di una festicciola insieme a personaggi illustri arrivati da non so dove con lo scopo di risolvere l’annoso problema della fame nel mondo, o almeno così mi sembra di ricordare. Ma tra poco apriranno la porta sani e salvi, stai tranquillo.»
«Dio ti ringrazio.»
«Già. Una garanzia per il nostro domani, vero?»
«Sì. Per il futuro.»
Sull’ombelico del giovanotto dal lato opposto della cornetta un grumo dalle sfumature biancastre in una custodia per occhiali, una bilancia e due mucchi di cenere accatastati.
«Comunque, se ti interessa, adesso so cosa farò tra due miliardi di anni. Finito questo strazio della scuola. Te l’avrò detto un milione di volte però sono certa che non ricordi un tubo. Vero?»
Verissimo.
«Perdonami. La crocerossina?»
«No. Genetica. Studiare gli alleli. Idiota.»
«Ok. Scusa. Gli alleli.»
«La biologia. Le cellule somatiche, i concetti di dominanza e di recessività. Gli equilibri. Se capisci cosa intendo.»
Ai piedi del letto il gatto è zuppo di saliva, protetto da un curioso odore di cavolfiore. «I cromosomi. I ribosomi. I qualcosasomi. Mi sa che è più pratico rispetto al ricercare l’Alta Gioia tra le montagne dell’Indocina. Lo pensi anche tu?»
Lui lo pensa. Il calendario sul computer segna la data appena cambiata e le nuvole nel cielo anche dalle sue parti stanno diventando sempre più sbuffi porosi. Mezzanotte trascorsa da poco, ai TG – finiti i videoclip musicali e prima delle telefonie erotiche – i funerali della principessa del popolo e le condoglianze dei capi di stato per la dipartita di quell’assurda, spaventosa suora albanese.
«Ma andiamo avanti, se ti resta un po’ di tempo.»
III
A lui ne resta.
«Endocrinologia, Peloso Bisonte della Pianura. Mi segui?»
Il giovanotto dal lato opposto della cornetta annuisce tenendo ancora il telefono tra orecchio e spalla. Dietro la chiesa il boato di un tuono.
«Mo-no-me-ri e roba del genere. Mica lavorare in fonderia. Ecco cosa voglio fare dopo la scuola, tra cinquemila anni. Ma prima un viaggio all’estero…la vedi bene?»
Lui la vede bene.
«Potrei venirti a trovare vestita da bramina e innaffiare di mattina gli uomini santi sul tuo balcone, se sceglierai di stabilirti lì per tutta la vita. No?»
(Quale era poi la dottrina della sofferenza di cui leggevano da piccoli per addormentarsi, quando avvitavano a turno il naso della befana sul comodino? Il giovanotto dal capo opposto della cornetta ogni tanto ci ripensa ma mica la ricorda. L’interlocutrice scuote la testa a tanta distrazione, poi inspira. Duhkha o dukkha, in lingua pāli?) Il dito a trafficare negli slip e la radio che trasmette l’ennesima scemenza commerciale. In parete il primo piano di uno yak, le fiammelle mistiche tibetane del Jokhang, il circuito devozionale del Barkhor e qualcosa che sembra iniziarsi a muovere senza neppure sfiorarla. Un tremolio elettrico che è adesso dentro la stanza, un soffio che non comanda e stenta a comprendere: la prima età adulta inevitabilmente odora di bouquet?
«Ad ogni modo un giorno sarò in grado di analizzare tutti i tuoi malatissimi casi, ma adesso devo chiederti un favore. Posso?»
«Certo.»
«Bene. Lasciami in pace e attacca, visto che domani ho il primo compito dell’anno e mica posso restare sveglia fino all’alba per le tue idiozie da psicopatico. Non trovi?»
Lui trova così, riagganciandosi, il telefono torna a fare quel rumore di oggetti che scoppiano per brutte pressioni dei polpastrelli. Il cornicione affacciato ai rami già secchi degli alberi, sul marciapiede foglie ingiallite che creano spirali concentriche e fischia la grondaia di spifferi. La vasca da bagno divorata dalla ruggine, la siepe spelacchiata e il materasso davanti abbandonato ai cassoni che potrebbe attutire l’atterraggio. «Ehi. Ma mi ascolti?» quando tuttavia l’umore è già variato in modo inverso alla distanza del suo busto dalle tende sottili. Lo sguardo di lui poco motivato, ché tanto lei ha già attaccato dunque per forza, con i piedi che penzolano in basso, il respiro si fa equanimità, compassione e consapevolezza. Superato il vetro, lungo il viale, tra gli alberi del parco il vento che non si aspettava sorprende le luci spente, le feritoie ossidate, i camini e le onde increspate del fiume mentre la stanza di spalle ancora puzza un po’ di fumo. Come in quelle pubblicità terribili con le piscine lussuose e le collane d’oro che oscillano sulla superfice immobile dell’acqua, alla fine lui aggrotta la fronte borbottando qualcosa alla parete di vernice che piano piano viene giù: io ti ascolto sempre.
Epilogo
Ma, anche sulla base del fatto che niente in effetti la sorprende più, nemmeno lei si stupisce poi tanto quando realizza di starsene impettita davanti la finestra semiaperta. Come fosse stata una forza attrattiva mai sperimentata in precedenza a sollevarla, spingerla fuori dalle coperte, renderla impalpabile e trasparente e immobilizzarla. Un tremolio elettrico, un soffio che non comanda e stenta a comprendere. Stanotte che come al solito ha (quasi) sedici anni, sfoggia ancora quella tunica a cuoricini che usa da pigiama e dalla testa le ciondola il residuo di corona hawaiana sfoggiata all’uscita di pallavolo con l’unico scopo di sollevare il morale alle truppe. La luna oscurata e la stasi nei refoli d’aria fredda. Terminata la breve chiacchierata su monomeri e futuro con lui che si trova all’estero per cretini corsi di studio, e atteso il rientro dei genitori; di sua madre che sembrerebbe essersi un po’ ripresa dai problemi che l’hanno afflitta l’anno scorso (ogni tanto lei ci pensa a quante sciagure potrebbe avere ereditato. Le strane ferite sul volto di quella donna, i sanguinamenti e le nottate spese a girovagare in circolo nel buio) o di suo padre, dal quale viceversa avrà preso la propensione all’odioso autocompiacimento e alle menzogne in società. Pensieri sensati e maturi eppure buoni solo a nascondere la domanda più importante e ineludibile di questa sua – al momento – breve esistenza ancorata a terra; la molla che innesca i gesti più assurdi e leggeri ovvero, se vogliamo percepire l’autentica essenza dell’anima, è più saggio ascoltare con pazienza o porsi quesiti in continuazione?
E chissà perché è sul termosifone in camera da letto, adesso; quello con gli elementi (si chiamano davvero elementi) che gocciolano e i buchi trasparenti sulle giunzioni (la paura dei buchi si chiama invece tri-po-fo-bi-a.) Una forza attrattiva incredibile che le ha permesso di aprire i vetri senza nemmeno toccarli, fino a spalancarli davanti al suo naso e filtra la luce tenue sul giardino dal viale desertico lì davanti. I piedi nudi che si sono del tutto staccati dal tappeto per la meditazione (dandasana) in sospensione, ondulanti tra le piante da interno (monstera deliciosa e maranta leuconeura) che in parallelo – con un cenno del suo dito indice – hanno preso a sfiorire, a spegnersi. Le narici dilatate, ogni lampadina che salta se strizza gli occhi, i capelli nemmeno smossi e lo sguardo che non può distogliere dall’est, lì dove sorge quell’alba che nelle pagine ingiallite del libretto che le veniva letto da piccola sta a simboleggiare l’Onnipotente Principio di Qualcosa, il Mahāyāna o Supremo Veicolo di Redenzione. Il sé esteriore e la chiusura che, le è stato garantito, alla fine ci farà tutti secchi.
«Ehi. Pronto. Pronto. Sei ancora lì?»
L’inchino che ricorda un passo di danza, la sensazione di un nuovo piumaggio – roba più consapevole e adulta, finalmente – lungo la schiena dritta da nuotatrice e le correnti d’aria che prendono a scuoterla dal basso quando, nella fase conclusiva del decollo, le sue labbra sottili, sullo stile di certe bandiere sventolanti a poche dune dalla battigia, dissolvendosi dietro uno spesso cumulonembo nero a sgranocchiare il disco lunare, nemmeno la smettono più di muoversi.
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Immagine di Francesco D’Isa.
Gabriele Merlini (Firenze 1978) è autore del romanzo Válečky o guida sentimentale alla Mitteleuropa e del saggio No Music On Weekends. Storia di parte della new wave (Effequ 2013 e 2020.) Ha inoltre curato le antologie di racconti Selezione Naturale. Storie di premi letterari e Odi. Quindici declinazioni di un sentimento. Scrive di musica e cultura per il mensile Rockerilla. Sue recensioni, reportage e interviste sono state pubblicati su numerosi magazine, riviste online e quotidiani.