La voce di chi scrive
di Davide Gatto
Sa molto di accademia proporre oggi una riflessione sul narratore, su questa sfuggente entità di cui si avvale lo scrittore per raccontarci le sue storie. Nell’epoca unidimensionale del libro come merce, infatti, è il grande pubblico a guidare le danze, e il grande pubblico non guarda all’autonomo potere di significazione delle scelte formali – tra le quali rientrano appunto le caratteristiche di chi narra -, ma semmai alla forza della storia, complice una critica più promozionale che autentica.
Eppure, basterebbe una pur fugace occhiata retrospettiva per realizzare appieno quanto cruciale sia la questione. Aver per esempio configurato Zeno Cosini come narratore inattendibile è in fondo il contenuto più importante dell’ultimo romanzo di Svevo, così come è alla scelta tutta formale dell’impersonalità che Verga ha affidato il suo richiamo a ricercare il Vero al di qua della versione fornita dalla ideologia dominante e dal suo narratore onnisciente.
Non è tanto però la pura autorevolezza della tradizione a giustificare una riflessione sul Chi del narratore oggi, quanto il presupposto di questa autorevolezza. Fino a un certo punto, infatti, è stato pacifico riconoscere alla letteratura lo statuto di arte – così come del resto non ha mai smesso di accadere alla pittura e alla scultura -, che è come dire che opera e autore trovavano la loro autentica ragion d’essere più nella cura della forma che nell’esposizione del contenuto. Mi pare sintomatico che oggi l’autore di romanzi e di racconti sia chiamato genericamente scrittore, mentre ci sentiremmo molto a disagio a definirlo un artista. Ma uno scrittore è un tecnico della scrittura, espressione incompatibile con l’imprevedibile oltranza espressiva dell’arte: lo scrittore-tecnico ha di mira l’efficacia della comunicazione, qualunque tipo di comunicazione, l’artista ha invece l’ossessione dello stile che, come diceva Pavese, è “la voce di chi scrive”, la sua natura fin oltre il confine della sua stessa autocoscienza, il suo irripetibile sguardo sulle cose.
È dunque nel nome e per conto della letteratura come arte e non come tecnica che ha un senso interrogarsi oggi sul Chi del narratore, nel nome e per conto dell’artista che tormenta e modella il materiale linguistico per imprimervi la sua inconfondibile “voce”, e non del tecnico che nelle scuole di scrittura ha appreso le regole universali per costruire una narrazione perfettamente intonata al gusto del grande pubblico.
A conti fatti, sembra di poter affermare che la tendenza prevalente nella narrativa attuale sia il ricorso all’Io-narratore, ancora dentro l’onda lunga del soggettivismo primonovecentesco. Nulla di strano, d’altronde, visto che l’oggettività del reale che cominciava a scivolare via dalle mani di un Pirandello, per esempio, si è ora definitivamente frammentata ed eclissata dietro il vetro di miliardi di display.
Danno prova di questo mio assunto, tra gli altri, due romanzi recenti che ho da poco letto e molto apprezzato, sia pure per motivi diversi: La madre assassina di Ermanno Cavazzoni (Nave di Teseo, 2020) e Lo stradone di Francesco Pecoraro (Ponte alle Grazie, 2019). Il primo è la rilettura di un efferato delitto di cronaca secondo il punto di vista in presa diretta dello psicopatico che lo ha perpetrato: anche la verità giudiziaria e processuale, uno delle ultime sporgenze di oggettività a cui cerchiamo di aggrapparci, viene stravolta e rovesciata dal narratore in prima persona. Nel libro di Pecoraro, poi, la narrazione omodiegetica è a tal punto compatibile con il profilo culturale e biografico dell’autore, che sembra di leggere più un diario che un romanzo.
Senza dubbio convincente è risultata ai miei occhi, del primo, l’aderenza dello stile alla personalità dell’Io-narratore – il modo del discorso dello psicopatico è lo psicopatico -, mentre la sensibilità e lo sguardo “vasto” sulle nostre vite di oggi che emergono dal secondo mi hanno fatto sentire il narratore/autore, pagina dopo pagina, una sorta di fratello nello spirito. Ma la scelta della prima persona narrante è davvero ancora adeguata ai tempi nostri, dopo tante radicali trasformazioni degli uomini e del mondo?
E soprattutto: siamo davvero sicuri che chi dice Io sia padrone esclusivo – al netto delle interferenze, a noi ormai familiari, dell’inconscio – della sua Verità? Fosse così, l’Io narrante, per quanto vetusto, manterrebbe intatta la sua significazione originaria: qualsiasi storia non può che essere una interpretazione soggettiva, il mondo che vedo dipende esclusivamente da me che lo vedo, scrittore e lettore possono tutt’al più cercarsi sulla pagina come si cerca in amore una improbabile anima gemella.
Io però non credo che le cose stiano così. Credo invece che avesse ragione Heidegger quando in Essere e tempo (Longanesi, 2018) insisteva che noi non siamo mai soggetto ma sempre EsserCi, un essere “gettato” nel mondo e in mezzo agli altri, un essere che “è già sempre stato” nel mondo e con gli altri e che quindi agisce e reagisce in un ambiente dinamico di trasformazioni continue che egli stesso alimenta e subisce (in particolare, pp. 145-148). Se dunque non esiste un soggetto, se non esiste un Io dall’identità definita, sembra di poterne dedurre che neppure può esistere una voce narrante nettamente caratterizzata che possa garantire che la sua particolare versione della storia narrata sia veramente sua. Il filosofo esistenzialista non escludeva, e anzi auspicava un modo di vita più strettamente identitario in cui il singolo Esserci – cioè ognuno di noi – desse attivamente fondo a tutte le possibilità insite nella sua natura, ma ribadiva con forza che il modo di vita fondamentale per l’uomo è quello “inautentico” dell’inerte galleggiamento nel “pubblico” e nel quotidiano, in cui il “Chi dell’Esserci”, la nostra più vera identità, è in realtà un “Si”.
Certo, Essere e tempo fu pubblicato nel 1927, e tanta storia del pensiero si è sviluppata intorno, oltre e contro il suo autore. Ma a me sembra che noi oggi abbiamo una conferma della validità del pensiero di Heidegger proprio a partire dalla fenomenologia del nostro quotidiano. Acutamente il filosofo dell’Esserci osservava che essere “già da sempre gettati” nel mondo e con gli altri significa in primo luogo essere intrappolati in un universo di discorso e di linguaggio – che egli definisce “chiacchiera” – attraverso cui “il Si […] stabilisce che cosa si ‹‹vede›› e come si ‹‹vedono›› le cose” (p. 208). È oltretutto una specie di pellicola traditrice la chiacchiera, che pare aderire alle cose ma in realtà è da esse totalmente scollata, fino a diventare pura comunicazione in cui “ciò che conta è che si discorra”, e il “sopra-che-cosa lo è solo approssimativamente e superficialmente” (p. 207): per dirla con Blanchot, che a questo tema di ascendenza heideggeriana ha dedicato pagine molto stimolanti ne La conversazione infinita (Einaudi, 2015), nella comunicazione diffusa del quotidiano noi “crediamo di conoscere le cose in modo immediato, […] mentre in realtà ci troviamo di fronte solo una prolissità rimuginante che non dice nulla e non mostra nulla” (p. 293).
Chiacchiera diffusa senza Soggetto, dunque, e alla fine anche senza più Oggetto: le storie che sentiamo raccontare sono di tutti e quindi di nessuno, da una parte, dall’altra raccontano un mondo paradossalmente fatto di sole parole che a stento e confusamente riusciamo a ricondurre al barlume di realtà che forse ancora resiste nel fondo dei nostri occhi. Ebbene, non è questa la descrizione dell’epoca dei social media e della comunicazione totale che stiamo vivendo? La voce del quotidiano che alla pubblicazione di Essere e tempo (1927) e de La conversazione infinita (1969) era come attutita e dispersa è stata oggi amplificata a dismisura dalla tecnologia e ha coperto ogni altra voce: il tempo nostro della comunicazione totale è il tempo del quotidiano totale, del Si senza confini.
Gli esempi si sprecano. Di chi è esattamente la ricostruzione corrente che il virus Covid 19 sia stato creato nei laboratori di Wuhan? E a chi possiamo ascrivere la tesi assiomatica della brutale inciviltà dell’Islam, o della iconoclastia artistica dei Talebani, della loro spietata misoginia? Nella melassa della comunicazione totale si rimescolano continuamente dati spesso incongruenti, opinioni, commenti, immagini vere e manipolate, citazioni, plagi, notizie, false notizie, rielaborazioni artistiche, tutto a rimbalzare e a moltiplicarsi attraverso il meccanismo sovrano delle condivisioni e dei tg news a rotazione continua fino al punto in cui è impossibile risalire alla fonte individua di ogni contenuto, così come verificarne l’effettiva realtà.
Nel quotidiano dilagante di questi tempi nostri, dunque, il Chi più credibile del narratore sembra essere – come sosteneva Heidegger dell’Esserci che noi sempre siamo – “il neutro, il Si” (p. 159): le storie nascono una dall’altra senza alcun autore e senza alcuna verificabile fondatezza. Ne segue che se pure possiamo continuare a impiegare uno o più narratori in prima persona, o anche in terza – qualcuno dovrà pur raccontare -, questi narratori tradizionali dovrebbero essere come espropriati della loro stessa voce, diventare dei collettori neutri del “si dice” quotidiano a cui potrebbero, al limite, contrapporre il flusso di pensieri della loro coscienza smarrita: “Fare esperienza del quotidiano significa sottoporsi alla prova del nihilismo radicale” (Blanchot, p. 299), d’altronde.
Certo, questa nuova forma di narratore neutro sembra maggiormente intonata alla realtà dei nostri tempi, come è stato per il narratore onnisciente nell’Ottocento o per quello in prima persona nel Novecento (generalmente parlando), ma non si corre così il rischio che lo stesso discorso artistico venga inghiottito nell’eternullità del quotidiano, come Blanchot sulla scorta di Laforgue definisce il tempo “privo di soggetto” (p. 298 ss.), eterno ma senza alcuna storia possibile? Come in un circolo vizioso, la narrazione non saprebbe più dire altro se non i presupposti della fine di ogni narrazione, e la voce dell’autore si spegnerebbe davanti alla constatazione della “potenza di dissoluzione” del quotidiano.
Di fatto però, se il “si dice” del quotidiano è orfano – perlopiù beato – del mondo e irriducibile a un soggetto definito, costituisce tuttavia un (s)oggetto impersonale e collettivo suscettibile di una riflessione antropologica senza dubbio complementare a quella innescata da Verga con la sua impersonalità: là era il punto di vista spontaneo degli uomini estranei alle mistificazioni della cultura a rivelare la grettezza fondamentale dell’animo umano, qui invece è la natura stessa delle storie che il “si dice” sovrano costruisce e incessantemente diffonde a gettare una luce sui caratteri fondamentali dell’uomo in quanto Esserci, un Esserci che è “innanzitutto e perlopiù […] assorbito dal suo mondo” (p. 144). 4
Sosteneva Cioran ne La tentazione di esistere (1956) che “l’avvento del romanzo senza oggetto ha inferto un colpo mortale al romanzo. […], abolito l’avvenimento, sussiste soltanto un io che sopravvive a se stesso […], un io senza domani” (Adelphi, 1984, p. 135). Noi, affrancandoci dal mito dell’Io-narratore e della nostra monolitica identità, potremmo restituire al romanzo in un colpo solo sia le sue storie-oggetto – pur dotate più della forza riflessiva dello specchio che di quella transitiva del cristallo -, sia quell’aura artistica di cui discorrevo in premessa e che è condizione insopprimibile di ogni dignità letteraria.
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Analisi costruttiva e pregna di spunti di riflessione. Grazie
Che l’io non sia un monolite si sa da tempo. Ma ça parle…
Si sa eccome. Il punto è cosa si fa per superare lo stallo e per riconciliare il narratore con i suoi tempi: questi nostri tempi. Certo, il presupposto è che si ritenga una questione formale di questo tipo ancora degna di riflessione. Un presupposto tutt’altro che scontato.
Sull’argomento sollevato di grande interesse non molto tempo fa avevo lanciato una provocazione su questo stesso sito, seguita da nessun commento, forse perché provocazione ritenuta eccessiva dai più o forse perché prendere posizione è sempre rischioso (nella narrativa come sui luoghi di lavoro, a quanto pare) ed esporsi arreca spesso danni, magari solo psicologici ma pur sempre danni (che tutti possono immaginare e su cui non mi soffermo). Il link all’articolo pubblicato du NI è il seguente: https://www.nazioneindiana.com/2020/05/23/se-lio-e-una-proliferazione-immaginaria/
Ma per non essere puramente autoreferenziale, segnalo pure questa osservazione molto recente di Renato Barilli, che si trova sul suo blog: https://www.renatobarilli.it/blog/andrea-gentile-un-vero-tramontare/
Grazie per aver ripreso un discorso prezioso e necessario,
Roberta
Grazie a te, Roberta (mi scuso in anticipo – nel caso – per il “tu”), per l’interlocuzione e per i link: ho appena letto con molto interesse. Certo, l’Io è disgregato ed è evanescente, ed è un vero problema costruire un edificio narrativo con materiale così friabile. Capisco che tu ti sei cimentata e leggerò di certo la tua Trilogia, su cui avevo già letto con attenzione qui. Io però pongo a tema un ulteriore sviluppo della questione. Oggi sembra davvero che la voce individua, che comunque illuminava un Io distinto, per quanto confuso, nevrotico, attraversato da pulsioni inconsce, sia perlopiù scomparsa. Siamo tutti immersi in un flusso comunicativo così impetuoso e totale che sembrano sopravvivere solo voci senza soggetto: voci che ci attraversano e – di fatto – ci espropriano anche delle nostre nevrosi. Siamo parlati, ma non -come pensava l’ultimo Heidegger – dall’Essere che quindi si rivela, ma da pure voci. Quale narratore può mai rappresentare questa inedita realtà, visto che lui stesso vi è immerso? Anch’io mi sono cimentato con questo problema e il libro uscirà nei prossimi giorni. Non so se le scelte che ho adottato riusciranno convincenti; so invece che – come dicevi bene anche tu nell’articolo che mi hai linkato – la questione è ineludibile.