Camera ecoica. Da César Vallejo a Giuliano Mesa (e ritorno)
di Lorenzo Mari
Nella preparazione della traduzione di Trilce di César Vallejo, recentemente pubblicata da Argolibri, sono tornato più volte in direzione di un incontro che avevo in qualche modo previsto, ma che non avevo potuto misurare con esattezza in tutte le sue implicazioni, come quello con Giuliano Mesa. Il poeta, nato a Salvaterra, in provincia di Reggio Emilia, nel 1957, e scomparso esattamente dieci anni fa, è infatti l’autore, fra le molte opere e testi, di uno scritto intitolato “Ad esempio”, dedicato a Trilce di Vallejo e incluso nell’antologia La scoperta della poesia (a cura di Massimo Rizzante e Carla Gubert, Metauro, 2008).
Lo scritto di Mesa, la cui ripubblicazione ci è stata gentilmente concessa dalla casa editrice e dai curatori dell’antologia, è disponibile anche in rete, all’interno di quell’Archivio Giuliano Mesa che è stato attivo soprattutto negli anni scorsi, ma che è ancora consultabile nella sua interezza. L’inserimento del saggio di Mesa nel progetto di pubblicazione di Trilce non ha avuto dunque come obiettivo una pura e semplice operazione di marketing editoriale, con la quale “proporre una primizia”; si è pensato, innanziutto, all’esigenza di “riscoprire Mesa” laddove lo stesso Mesa scriveva di aver scoperto la poesia tramite Vallejo: il saggio, infatti, si chiude con l’aforisma e poliptoto (strategia retorica tipica di molta scrittura politica di Mesa, fra l’altro): «la scoperta della poesia è scoperta di ciò che la poesia scopre».
Al di là delle implicazioni che ha Trilce nella lettura dell’opera di Mesa, è interessante analizzare come questa scoperta abbia le caratteristiche della ri-velazione: non un’epifania, in qualche modo mistica, bensì quello che, come scriveva una decina d’anni fa Andrea Inglese per Atti Impuri, la «voce [di Mesa] tende, come fatalmente, a rivelare». Non importa che si tratti del «soggetto spettrale che fa da supporto alla voce» né delle «caratteristiche del paesaggio» de-scritto: la rivelazione non è mai definitiva; è, piuttosto, un ammantarsi continuo di altri veli («prova a guardare, prova a coprirti gli occhi», in Tiresia, del 2008), che porta chi legge o chi ascolta a iniziare un inseguimento; citando ancora dall’articolo di Andrea Inglese: «la voce, che il verso di Mesa “mette in scena”, rompe il silenzio, e ogni volta “vuole dire”, annuncia e insegue un senso, raccoglie – tra il corpo che la lascia vibrare e il mondo in cui si diffonde – dei significati».
È un inseguimento del senso, dunque: una pratica di ricerca epistemologica più che una magia da rabdomante. Giuliano Mesa ha insistito più volte su questo punto, non soltanto scrivendo che «scopo di Vallejo non era […] l’imporsi come poeta, ma il conoscere, l’esprimere…» (sempre in “Ad esempio”), ma anche rispondendo, per sé, al questionario pubblicato nel 2000, sul numero 15 del Verri:
Perché scrivi poesie?
…forse, scrivo poesie perché è il mio modo di sapere. A questo, aggiungo la convinzione che le poesie possano trasmettere conoscenza, in un loro “modo” peculiare e non sostituibile. E aggiungo, infine, la presunzione che anche le mie poesie, alcune almeno, possano trasmetterne un poco, di conoscenza, e soltanto per questo mi azzardo a renderle pubbliche, a metterle in comune…
Sono parole che, personalmente, ho sentito ripetere più volte da un altro poeta, Biagio Cepollaro, animatore almeno fino al primo lockdown della rassegna milanese Tu se sai dire dillo, dedicata, precisamente, alla memoria di Giuliano Mesa. Cepollaro ne ha anche scritto, ad esempio in questo intervento rintracciabile nell’archivio di Punto Critico, a proposito del primo dei Quattro quaderni (2000) di Mesa:
È tutto un ascoltare, dal di dentro della vita, un presagio di dove la vita andrà o è già andata: forma di conoscenza che non identifica oggetti anche se li convoca o li invoca né classifica né logicizza: conoscenza qui sta per un esistere puro, prima e dopo le cose o, meglio, dentro il prima e dentro il dopo: è null’altro che una tensione temporale che anima la speranza degli uomini, il loro tentativo di orientarsi al di là dei nomi e delle topologie. Questa tensione è tanto precisa quanto aleatoria, formale, strutturale, “esistenziale”.
Per quanto la dimensione esistenziale, a tratti spiccatamente autobiografica (con gli aspetti assai vividi, tra gli altri, dell’esperienza carceraria, del lutto per la morte della madre, delle relazioni sessuali finite, etc.) – sia molto più presente in Trilce che non nei «rarissimi […] dati biografici, esistentivi» rintracciati da Cepollaro nei Quattro quaderni, la “tensione temporale al di là dei nomi e delle topologie” sembra davvero essere un dato comune a Mesa e a Vallejo, specie se si considera, insieme a Mesa, che
[l]a Erfahrung della poesia è relazione – non somma, non sistema – di Erlebnisse tra loro simili, vissuti da simili. Privata totalmente di repertorî ai quali attingere, di tradizioni in cui calarsi, la poesia cosiddetta moderna si è trovata di fronte a uno scoprire ancor più radicale, rispetto a quelli, già radicalissimi, che vissero gli antichi. Non già s-coperta di qualcosa che era coperto, occulto o occultato. Qualcosa che portava la poesia verso ciò che sembra dicesse, dei segni, Enesidemo di Cnosso: “manifestazione del non manifesto”, con implicita, irriducibile aporia, ancor più ammutolente, poiché non solo fisica, di quella posta da Anassagora sulle cose che vediamo, aspetto visibile di ciò che non vediamo (fr. 21a Diels-Kranz). Poiché il “non manifesto” non si manifesta mai, forse nemmeno parzialmente, “per gradi”, in progressione conoscitiva. Eppure, manifestazione del non manifesto implica che qualcosa si manifesti: l’enigma… (O ciò che, dopo e dentro la fisica dei quanti, oltre l’apparenza dell’inafferrabile, si percepisce, si intuisce, come reale remoto.)
La “manifestazione del non manifesto” (che ritorna poi, nel medesimo segno del paradosso, anche nella «finitezza» come «scoperta della mai finita nominazione») che, in Trilce, porta dalla quotidianità del frammento esistenziale alla dimensione dell’enigma, ha esiti notevoli, di riflesso, anche nella scrittura dello stesso Mesa. Qui, l’enigma trae origine dai vicoli ciechi dei discorsi ideologici – la poesia di Mesa prende, quasi ineluttabilmente, questa strada anche perché, dopo la pubblicazione del primo libro (Schedario. Poesie 1973-1977, per le gloriose edizioni Geiger nel 1978), i suoi libri costellano una fase storica marcata più o meno distintamente dalla “crisi delle ideologie”, e cioè l’ultimo decennio del ventesimo e il primo del ventunesimo secolo – e, per altri versi, dalle aporie delle «poetiche precettistiche» – identificabili, con ogni probabilità, con le posizioni programmatiche delle scritture neoavanguardistiche e successive: per Mesa sono «come salvagenti, se consentono di non annegare, impediscono di immergersi».
Detto di questo enigma, Mesa non procede affatto a quelle riscoperte di marca “occultista”, o anche solo “psichedelica” o, in senso lato, “irrazionalista”, che sembrano abbondare nella poesia contemporanea: nella sua scrittura poetica, la declinazione non è intimamente esoterica, né, per contro, essoterica (destinata, cioè, a un “pubblico di iniziati” ancora più ristretto rispetto alla cosiddetta “nicchia della poesia”). Anche quando Mesa evoca i modi della divinazione (nel Tiresia, le cinque sezioni del libro sono dedicate all’ornitomanzia, alla piromanzia, alla iatromanzia, all’oniromanzia e alla necromanzia) e dell’alchimia (che costella nun), il suo oracolo resta più poetico che non profetico – come ebbe già a sottolineare Andrea Accardi in un intervento del 2013 che si può ancora leggere sul sito di Poetarum Silva.
Parte, in altre parole, da quel «reale remoto» che Mesa cita in merito a Trilce di Vallejo, ma che si può intuire, fra l’altro, come chiara derivazione dalla lezione wittgensteiniana. In “Ad esempio”, infatti, Mesa ricorda come Trilce sia uscito nel 1922, annus mirabilis della letteratura novecentesca, perché è «l’anno di Ulysses e della Waste Land», ma anche perché è l’anno, e l’enfasi di Mesa è proprio su questo punto, in cui «Wittgenstein pubblica a Londra, dopo una prima stampa nel 1921 con altro titolo, il Tractatus logico-philosophicus».
Ora, Wittgenstein è spesso associato a Mesa in virtù della fascinazione di quest’ultimo per il finale “mistico” del Tractatus; lo fa Paolo Zublena in questo saggio, sottolineando, però, come in Mesa la coscienza adorniana della dialettica del negativo corregga il tiro di questa possibile deriva misticheggiante verso l’orizzonte del tragico:
Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere: ma la poesia può tacerne rappresentandolo, articolandolo dialetticamente attraverso il suo peculiare silenzio scritto. Tragedia dolorosa della dialettica, tragedia del soccombente: «Tragico è soltanto quel soccombere che deriva dall’unità degli opposti, dal ribaltamento di una cosa nel suo contrario, dall’autoscissione. Ma tragico è anche soltanto il soccombere di qualcosa cui perire non è consentito, dopo il cui allontanarsi la ferita non si chiude». Così Szondi nel Saggio sul tragico, e allo stesso modo il Tiresia di Mesa: «devi tenerti in vita, Tiresia, / è il tuo discapito».
L’indicazione di Wittgenstein, tuttavia, sembra indicare molto di più della nota citazione “su ciò di cui non si è in grado parlare” (e alla quale Mesa risponde, con l’eco di un altro monito: “tu se sai dire dillo”): come indica Alessandro De Francesco in una sua recente monografia critica in francese, Pour une théorie non-dualiste de la poésie (1960-1989) (ed. MIX, 2021), la lezione di Wittgenstein è presente nella poesia internazionale del secondo Novecento secondo una molteplicità di possibili diramazioni, arrivando anche alla poesia di Mesa (la quale si consolida prima del 1989 ma che trova definitivamente la via della pubblicazione soltanto dopo il 1989, uscendo dal radar di De Francesco).
In effetti, oltre al rule following wittgensteiniano adottato dalla language poetry nordamericana e, in particolar modo dalla poesia francese degli anni Settanta e Ottanta, vi è anche un approccio al “reale” che aggira, o anche supera, la mimesi della “realtà” e si pone all’insegna del nesso inscindibile tra estetica, etica e, di nuovo, ricerca epistemologica. Mesa lo ribadisce tanto nella sua scrittura poetica come nei suoi saggi e, di nuovo, parlando di Trilce di Vallejo e sottolineando come
[l]a relazione con gli uomini e con il mondo è relazione etica. Ineffabile. “Non-sensical”, dirà Wittgenstein nella Lecture on Ethics del 1929, e tuttavia esistente. L’estremo rigore linguistico di Wittgenstein è rigore etico, verso conoscenze possibili, e un possibile bene. Un linguaggio dove le parole, non potendo attingere alla verità, cercano la precisione, la sincerità: verità etica.
Allo stesso modo della “verità etica” non-sensical, anche Trilce, il titolo dell’opera di Vallejo, è per Mesa «un neologismo sin sentido» (sospeso com’è tra varie, egualmente im-plausibili, traduzioni: deviazione ortografica di tríplice, unione di triste e dulce, etc.). Anche questo, anche questa singola ed enigmatica parola, costituisce un pungolo esistente e inaggirabile, nella sua dimensione dolorosa e tragica (per citare sempre Zublena): non più etica ed estetica unite perché è necessario utile dulci miscere, ma perché si vuoe TRIste duLCE miscere.
In conclusione, per questa via di doppia (…forse “triplice”) scoperta – di Vallejo, di Mesa, della poesia – si può certamente affermare, con Zublena, che
con Giuliano Mesa se ne è andato forse l’ultimo dei modernisti. E – intendiamoci – non si vuol dire “l’ultimo” secondo la vulgata di un’elegia della fine che vede dappertutto epigoni esausti o svagati postmodernisti: “l’ultimo” intende designare colui che, con radicalità, ha compiuto un estremo tentativo di rappresentare l’istanza modernista in modo adeguato ai tempi.
Al centro di ogni modernismo sta un progetto di ricerca della verità, verità ontologica in primo luogo. Secondo una movenza non certo maggioritaria in questi anni, Mesa non ha dissolto il concetto di verità in una semplice accoglienza nei confronti della venuta dell’altro, ma ha preteso che la poesia dicesse quel che il linguaggio ordinario non sembra più in grado di dire: non la verità dell’oggetto, ma la verità dell’evento: una verità etica. Nell’indistinzione ontologica dei fatti, la scrittura punta a risemantizzare con cura le tessere del linguaggio per restituirle a una nuova vita relazionale, etica.
Vallejo e Mesa, uno dei “primi” e uno degli “ultimi” modernisti”, attingono, insomma, a una peculiare dimensione del “classico”, che attraversa almeno cento anni di storia e, in funzione del potenziale di rottura modernista, può essere ancora nuova al giorno d’oggi. L’incontro con le loro opere porta, allora, inevitabilmente, a chiedersi che vita abbiano questi “classici modernisti” oggi: di Vallejo, ancora traducibile e ri-traducibile, si è detto; di Mesa si dovrà ancora dire.
E questo, non perché i libri di Mesa siano difficilmente rintracciabili: se è impossibile trovarli in libreria, come già all’epoca della loro prima pubblicazione, se ne può chiedere conto alla Camera verde, che ne ha pubblicato la maggior parte dei titoli fondamentali; si può certamente promuovere una loro riedizione nuovamente accessibile.
Tuttavia, se ne dovrà ancora dire – …se lo sappiamo dire – in un altro modo, insieme ai tanti e alle tante che ne hanno sempre trasmesso memoria e rilevanza, molto più e meglio di quanto si possa leggere in questo breve scritto: da Biagio Cepollaro e Andrea Inglese a Marco Giovenale e Andrea Raos; da Massimo Sannelli e Francesco Marotta a Davide Racca e Florinda Fusco, Guido Caserza e Fabio Orecchini; da Luciano Mazziotta a Fabio Teti e Simona Menicocci… e così proseguendo in una lista che non si propone qui come esaustiva o esaustivamente emblematica, essendo potenzialmente ancora molto lunga.
Se ne dovrà, più che altro, riproporre la canonizzazione critica, che appare a chi scrive molto più utile e giustificata nel caso di un autore già “classico” e al tempo stesso “modernista” rispetto a tanti altri autori di poesia, magari coetanei di Mesa, che negli ultimi anni hanno magari goduto e stanno godendo di maggiore attenzione. Si dovrà riaprire una camera non più anecoica, ma ecoica (per nulla “egoica”, come nel rapporto con gli autori viventi), dove gli echi di Mesa e Vallejo (e Wittgenstein, e molti altri…) possano continuare a prolungare la loro musica.
Per quanto mi riguarda, l’ha fatto un amico musicista, in tempo di lockdown, Marco Colonna, leggendo un testo di Mesa e portando quegli echi ancora altrove, verso nuovi territori.
Marco l’ha fatto mentre procedevo alla stesura dell’ennesima versione, intrinsecamente fallimentare, delle traduzioni di Trilce e il suo video le ha dato forza.
Beckettianamente – e il riferimento non sarebbe forse dispiaciuto all’autore – è venuta l’ora di canonizzare Giuliano Mesa e, facendolo, “fallire ancora, fallire meglio”.