Qui nessuno dice niente. Un anno di scuola tra i carcerati – Domenico Conoscenti

Brani dalla ristampa del libro di Domenico Conoscenti (il Palindromo, 2021)  pubblicato da Marietti nel 1991: il diario di insegnamento in un Casa di reclusione in Sicilia, nell’anno scolastico 1986-87, in coincidenza con l’entrata in vigore della cosiddetta Legge Gozzini

lunedì 2 febbraio

 

Durante la ripetizione di storia in IIIª B entra a chiamarmi un allievo dei corsi elementari per conto della sua insegnante. Quando finiamo, anziché aspettare accanto al cancello, vado nell’altra aula. Come una scorta mi accompagnano gli otto allievi di oggi, ansiosi di sapere.

La curiosità è presto soddisfatta: la collega chiede se ci sono novità circa lo spettacolo da fare. Evidentemente i detenuti si sono passati la voce. La cosa va assumendo proporzioni e aspettative più grandi del previsto.

«Abbiamo parlato con gli educatori qualche giorno fa; il direttore ci ha fatto sapere di essere d’accordo in linea di massima, però bisogna concordare tempi, modi, circostanze…».

Non ho neanche finito di parlare che come una furia irrompe nell’aula l’appuntato di turno: piccoletto, baffi neri, sguardo truce: «Cosa fate tutti qua? Se avete finito le vostre lezioni tornatevene in cella!». Con la collega ci guardiamo attoniti.

«Un momento… calma… ragioniamo con calma», comincia Oliveri [uno de corsisti] «non c’è bisogno di fare così, stiamo discutendo una cosa brevissima…».

«Non avete proprio niente da discutere. Non lo sapete che è vietato stare insieme nella stessa classe? Avanti! Subito fuori!», lo interrompe quello ancora più infastidito.

Mi sento chiamato in causa più dai tentativi di Oliveri che dallo sguardo sinistro che l’appuntato mi sta rivolgendo: «Abbiamo appena finito le lezioni e in attesa, come al solito, che escano i corsisti e i colleghi delle altre classi, stavamo vedendo chi era disponibile per lo spettacolo che…».

«Spettacolo? Quale spettacolo? E chi ne sa niente!», mi interrompe sopraffatto dall’ansia di riprendere l’assalto. Come in certe favole, devo avere pronunciato senza saperlo la terribile parola magica, quella che scatena la furia incontrollata di tutti gli elementi. «Avete deciso già tutte cose per i fatti vostri senza neanche dirci niente!», continua rabbioso. «E il maresciallo lo sa? fate presto voi a decidere e organizzare ma questo è un carcere che vi pare? qua non siete a scuola e questi sono carcerati, delinquenti, anche se con voi fanno finta di comportarsi bene».

Oliveri e il detenuto che era venuto a chiamarmi tentano nuovamente di fare da pacieri, cercano quasi di prendere le nostre difese per il fatto di essere tutti lì. Ma nella sua furia quello ha già perso di vista il pretesto scatenante. Bersagli dei suoi strali siamo noi insegnati e via via tutto il personale del carcere, gli educatori, «ma chi si credono di essere questi?», ogni superiore in genere, infine tutti quelli che hanno la responsabilità delle condizioni in cui sono costretti a lavorare.

«A noi nessuno ci avvisa mai di niente, siamo sempre gli ultimi a sapere le cose però siamo quelli che mandano avanti il carcere quelli che devono rinunciare ai loro turni di riposo per essere qua e permettere a voi di organizzare le vostre cose. Lo sapete che oltre ai turni continui che facciamo una volta di mattina una di pomeriggio e una di notte siamo obbligati a fare straordinari pagati una miseria e pure quelli per la scuola? Dobbiamo continuamente rimandare le nostre ferie e il riposo settimanale perché siamo in pochi e non arriviamo a coprire tutti i turni eppure se si fa qualche cosa è perché ci siamo noi che rischiamo anche la vita per questo lavoro. Speriamo che questo spettacolo non si farà perché per noi significa altro straordinario e io la famiglia quando la vedo? Tutto questo poi per chi? Per questi, sì, ora con la riforma fanno tutti i santi ma noi lo sappiamo come sono veramente e voi che li difendete e parteggiate per loro…».

Ripenso alle volte in cui alcuni detenuti si sono lasciati sfuggire commenti malevoli verso certe guardie, a quando hanno accennato episodi poco edificanti su alcuni di loro nel tentativo di instaurare una forma di complicità. Mentre questo qui mi colpevolizza per tutto l’ordinamento carcerario italiano, provo un senso acutissimo di pentimento per non avere concesso mai il minimo spazio a quelle occasionali maldicenze.

Anche gli altri intanto sono usciti, si avvicinano, si forma un capannello nel cortile. Sopraffatto dalle raffiche di parole concitate che continua a sventagliarmi addosso, ho rinunciato a replicare qualunque cosa. Del resto sono molto teso, se dovessi tradurre in parole quello che mi si agita dentro in questo momento, verrebbe fuori qualche frase pesante.

Adriana [la collega di matematica] interviene a spiegare come e perché si è arrivati a parlare di spettacolo e del consenso da parte del direttore. Quello si va ammansendo anche perché ora si sente considerato, circondato dalle spiegazioni pazienti di Adriana e delle maestre.

Nonostante tutte le sue ragioni, l’atteggiamento di questa guardia mi rimane comunque indigesto. Sarà la stanchezza di questo fine quadrimestre, con i suoi ritmi di compiti, interrogazioni, giudizi da formulare… Penso che nella sua furia sadomasochista è riuscito a farci “giustificare” dai nostri allievi, a rendere solidali detenuti e insegnanti contro di loro, a farci quasi chiedere scusa per essere lì a tentare di fare il nostro lavoro.

Mi convinco sempre più che il carcere disintegra voracemente non solo gli intonaci e le suppellettili, ma qualunque cosa riesca a inglobare, è solo questione di tempo. Si azzera al suo interno ogni differenza tra carcerati e carcerieri, coatti gli uni e gli altri, protagonisti attivi del processo di disgregazione reciproca, in corsa verso l’entropia, destino di ogni microcosmo chiuso.

 

martedì 12 maggio

 

– IIIa B – «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», recita Fardella, leggendo il 3° comma dell’articolo 27. Il silenzio assoluto sottolinea l’attenzione immediata che si è creata a queste parole.

Le collego all’articolo 13 e chiedo se le loro esperienze confermino o meno quanto appena letto, «perché nell’altra classe, più di una volta hanno parlato di episodi che smentivano l’osservanza di questi articoli».

«Mentre mi portavano in carcere, i carabinieri mi hanno preso a legnate», dice Rubino, dopo un attimo di esitazione. E Modica: «No, a me non mi è capitato, sono stato fortunato, ma quando ero a P. di queste cose se ne vedevano e sentivano in continuazione… perché?… quasi sempre senza motivo, perché sanno che non possiamo, che non ci conviene reagire… forse perché a stare dentro certuni diventano più animali di noi».

«Qualcuno ha mai denunciato questi fatti?», chiedo. Momento di silenzio. «Tanto si sa», cerca di spiegarmi Modica «siccome i delinquenti siamo noi, la colpa di quello che succede è sempre nostra e uno, dopo avere subito la soverchieria, si becca pure il rapporto o l’aumento della condanna… tanto vale subire e stare zitti».

«Allora è perché pensate che la giustizia si ritorce contro chi la promuove, almeno nel vostro caso?».

Inaspettata, come fuori campo, giunge la voce di Oliveri: «No… no… non è solo per questo», e tace a godersi la sorpresa del suo sibillino intervento. Lo invito ad essere più esplicito, ma lui si limita ad aggiungere: «Non lo fa nessuno. Perché… non si fa».

E a conferma di questa asserzione, molti raccontano esperienze, casi in cui chi ha subito soprusi non ha mai parlato, né di sua iniziativa, né se interrogato.

Faccio notare che non parlare significa in un certo senso rendersi complici di una situazione che va comunque a loro danno. Forse, con la paura della denuncia molti si tratterrebbero dall’abusare della loro posizione…

«Noo. Che denuncia!», dice Oliveri. «Si può vedere di parlare con le persone, convincerle a ragionare…». Non è difficile dimostrare l’improponibilità della sua tesi di fronte alle situazioni che mi hanno descritto fino ad ora. Ma è chiaro che lui per primo l’ha detto senza crederci. Insomma, tutto pur di evitare di rivolgersi agli agenti, al direttore o al magistrato.

Escluso come prioritario ogni motivo di ordine pratico, mi trovo davanti a un dogma di comportamento, alla norma di un codice d’onore, indispensabile per mantenere integra la propria dignità. A questa mia affermazione emergono sorrisi stiracchiati, tentativi di schermirsi, con la fiacchezza tipica di chi non sa cosa opporre in concreto.

«Non è perché uno ha paura di quello che possono dire o pensare gli altri compagni… È proprio un fatto di carattere comportarsi così», replica infine Modica col consenso convinto dei compagni.

«Ma se non porta a risultati positivi, perché mantenere questo atteggiamento, perché non abbandonarlo?», insisto.

C’è qualche istante di silenzio, poi si sente la voce incerta di Oliveri: «Sarà un fatto di cultura?!».

Non è chiaro se si tratti di un’autentica domanda o di un suggerimento sfumato. In ogni caso evidenzia che una parte della comunità sociale non riconosce, nella propria “cultura”, le istituzioni espresse dalla società nel suo complesso. Non mi pare che le nostre radici, le stratificazioni storiche possano spiegarla del tutto. Se questa cultura persiste vitale fino ad oggi, deve essere funzionale a tutto il campo di forze in cui siamo immersi.

«Mi avete ripetuto che in carcere non si può fare altro che subire, ma fuori? Se qualcuno di voi subisce un sopruso, a chi si rivolge?… O si deve fare giustizia da sé?».

Nessuno dice niente per un lungo interminabile momento. Riformulo la domanda, ma dopo un altro più breve silenzio, Oliveri risponde stancamente: «Sarebbe lo stesso anche fuori. Ci comporteremmo come qui», dando voce al desiderio comune di chiudere in qualunque modo la discussione e passare ad altro.

Se questa sfiducia nelle istituzioni e nell’ordinamento della giustizia sembra precedere l’esperienza della detenzione, il carcere per la sua stessa struttura finisce per approfondirla e consolidarla, creando, in più, dipendenze che continueranno anche dopo. Forse, più che “tendere alla rieducazione del condannato”, il carcere punta a una funzione di deterrente, e a presentarsi come la vendetta della società contro chi non ha rispettato le sue regole.

 

  venerdì 15 maggio

 

– IIIa A – Arrivati all’articolo 29 accenno alla legge n. 151/75 per evidenziare gli aspetti più importanti dell’uguaglianza giuridica dei coniugi. Si lasciano coinvolgere con molta disponibilità e ben presto i riferimenti personali prendono il sopravvento, per quanto io non faccia nulla per spingerli in questa direzione, anzi…

I più partecipi sono Farone, Napolitano e Di Bartolo. Perfino Fazio, di solito così riservato, dice che ha scoperto come i figli tenessero a lui, durante la latitanza, quando insieme a loro passava ore e ore. Merulla, che invece non è sposato e non ha figli, accenna a un ricordo di suo padre: «Lo vedevamo solo la sera tardi, quando ritornava dal lavoro o nei giorni di festa e allora o se ne usciva per i fatti suoi o voleva essere lasciato in pace… però, se restava con noi, era come un estraneo quasi, che disturbava l’intesa che c’era tra noi fratelli e con nostra madre…».

Gli interventi si appuntano sul diverso atteggiamento dei genitori verso i figli. Si parla della figura del padre, così sbiadita a confronto con quella della madre, o relegata al rango di una distante autorità da cui discendono solo permessi, divieti, soldi o castighi.

Mi raccontano, con una punta di tristezza e di malcelato orgoglio, come durante i colloqui, o attraverso le notizie della moglie, i figli spesso lamentino la loro assenza. È un modo di dirsi il loro bisogno di un rapporto coi figli, a cui non è estraneo forse un nascosto senso di colpa. Glielo faccio notare. Sorridono arrendevoli.

Nel vuoto di affetti e di interessi, ora che non sono più il sostegno economico principale e che difficilmente possono mantenere il ruolo di guida morale, scoprono un modo diverso di stare con loro: come compagno di giochi, confidente, fratello maggiore. Per qualcuno sembra già un rimpianto, un desiderio rassegnato: c’è la coscienza di uno spazio vuoto destinato ad aumentare tra sé e i figli che inevitabilmente crescono anche senza la loro presenza.

Emerge ancora il tentativo di servirsi dei figli come alibi per qualunque sacrificio: «A loro non deve mancare niente, non devono passare quello che ho passato io alla loro età…». Ma già nel momento in cui lo dicono, il tono si affievolisce, si insinua sottovoce la consapevolezza che questa strada non ha portato bene neanche ai figli, oltre che a loro stessi.


 

Domenico Conoscenti (Palermo, 1958) è autore del romanzo La stanza dei lumini rossi,    ( e/o 1997) il Palindromo 2015, della raccolta di racconti Quando mi apparve amore, Mesogea 2016, e del saggio I Neoplatonici di Luigi Settembrini. Gli amori maschili nel racconto e nella traduzione di un patriota risorgimentale, Mimesis 2019.

 

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