Nella spirale
di Gianluca D’Andrea
da Primavera
- CLIMAX
Climax, umore del corpo, periodo climatico. Che è sempre e porta in sé il rischio e il timore della fine. Come l’islandese di Leopardi, definitivamente dilaniato dai leoni o “monumentalizzato” nella stoltezza di base che guida il suo ragionamento (un rimpianto nostalgico che non si rassegna, nonostante ne abbia consapevolizzato l’assunto, all’assenza di un fondamento e, quindi, di un soggetto), ancora l’uomo dell’oggi insiste nel rifuggire la coscienza della fine nell’apparentemente infinita metafisica del consumo.
Non è certo nuovo, anzi è forse il più antico, il pensiero che sia possibile annullare il ciclo del desiderio accordandosi al mondo, universalizzando la tutela e, seguendo ancora Leopardi (il suo “meccanicismo” degli anni ’20), ricordare definitivamente che «gli esistenti esistono perché si esiste» e che «il vero e solo fine della natura è la conservazione della specie»[1]. Ma ciò che più conta è che i climi o, traducendo, gli ecosistemi, non sono tutti accessibili all’uomo. L’uomo non può aver casa ovunque lo spinga il suo desiderio ma può trovarla nel suo ritiro: l’unico vero rifugio è l’accordo col mondo, divenire definitivamente uomonatura.
Da qui la questione del limite, certo non invalicabile, ma da rispettare per necessità di sussistenza, contro l’hybris perpetua del desiderio. Scopriamo così un nuovo legame tra religione e scienza: la vera colpa è non voler riconoscere il limite del nostro abitare e, quindi, la corrispondente pienezza nell’accordo tra abitante e abitazione. Habitat che è anche habitus.
Si potrebbe giudicare “conservatore” l’atteggiamento di Leopardi, e quasi utopico, ma è proprio il suo disincanto a suggerire che non può esserci rapporto tra stato di natura e progresso – tra caldo (natura) da una parte e freddo (islandese) dall’altra. È la diversa consapevolezza dell’arrembante senso della fine (climatica, se si vuole) a riportarci al suo stesso esito: l’unico atto di “eroismo” plausibile nella nostra epoca è continuare a vivere, realizzando il contatto pieno con ciò in cui ci troviamo.
Adattamento per ora. Ora dell’adattamento:
«Un eroe! O semplicemente vivere. Metodo, Metodo, che vuoi da me? Sai bene che ho mangiato il frutto dell’incoscienza! Sai bene che sono io che annuncio la nuova legge al nato di Donna, e che sto soppiantando l’Imperativo Categorico per instaurare in sua vece l’Imperativo Climaterico!…»
(J. Laforgue, Moralità leggendarie)
- APPELLO AI PIEDI
L’adattamento è sempre il sorgere del sole in cammino. Mi appello ai piedi, al continuo movimento che non conosce compromessi, semplicemente s’immerge passo dopo passo.
Eppure questi sono giorni di protesta e sdegno, perché la bestialità della vita sociale, coatta, del collettivo che non è comune, porta a discriminare e circoscrivere frammenti di mondo: separati, bloccati nel loro habitus che non riesce a trasformarsi in habitat, non abbatte i suoi confini.
«Camminavamo dal sorger del sole, stavamo diventando neri».
(A. Carson, Antropologia dell’acqua)
Diventare. Movimento che trasforma e adegua i passi a un terreno sempre nuovo. Non è solo passeggiare, andare a una meta. L’unica meta, sempre provvisoria, è nera e brucia l’essere nella necessità, essere del tutto nero è la fine di un cammino che non può arrestarsi – ormai il mio corpo, non solo le mani, si muove anche mentre scrivo, mentre sono sdraiato e perduto per sempre nel tempo, nel mio sbiancamento che non posso non vivere come una colpa.
Il bianco non ha importanza, è estinto, conta solo il raggiungimento del nero, la superficie terrea che attraverso:
«ed ebbi la sensazione che questa fosse l’epoca eroica, sebbene nessuno di noi ne sia consapevole, essendo l’eroe generalmente il più semplice e il più oscuro degli uomini».
(H. D. Thoreau, Camminare)
*
da Estate
- NELLE PROFONDITÀ III
Nelle notti estive spiccava, come il brivido suscitato da un suono inaspettato, come un tentacolo abbarbicato alla pelle unta dal calore, l’urlo cantilenante della sirena. Ed era con quel sottofondo che cercavamo le nostre storie. Storie escrementizie, espulsive, perché solo attraverso il rifiuto raggiungevamo l’accoglienza, divaricando il sentiero dell’intimità. O, quantomeno, riuscivamo ad attraversare una minuscola radura ospitale, un assaggio di libertà.
Eravamo all’interno, nella radura, tra ciuffi d’erba sporadici e sterpi spuntavano isolate o a grappoli le piccole sfere. La merda di capra stimolava fantasie manipolatorie. Noi dovevamo riprendere fiato e il cammino, presto, non potevamo attendere che ci raggiungesse la sera. Così, dopo aver sputato schegge di saliva e la nostra inerzia, ricominciammo la discesa.
La terra sembrava svanire mentre l’attraversavamo, la sua consistenza manifestava il passaggio di dei sgretolati, la loro capacità di estinguersi e riapparire sotto altre forme. L’aria s’ispessiva in blocchi grigi sparpagliati tra le pareti cavernose. Un mare aperto tra le crepe fiammeggiava, come aprendo ricordi di cui non riuscivo a focalizzare i contorni. Rimaneva un amalgama di strade, riuscii a distinguerne alcune poco prima di essere sommerso. Scandivo i cerchi concentrici della scomparsa mentre mi abbracciava l’atmosfera mutevole del profondo.
Odore di cadavere e pino marittimo, merda di cane e appropriazione. Un senso di abbandono nella vita pulsante. Bastava attraversare un sentiero collaterale, un bivio imprevisto, per entrare nel mistero. La chioma alta e frusciante di un platano orientale e la sua solitudine d’ombra. L’oscurità in piena luce rimarcata dall’immobilità dei corpi. L’inerzia eterna e l’attesa come unici paradigmi d’azione, di ogni azione compiuta per raggiungere un’ulteriore stasi, assoluta, il marmo, la pietra. Le pose dei corpi distesi apparentemente all’erta o come in gabbia, nel movimento minimo che preannunciava fughe o agguati, bestie che sbranano per poi ritornare nell’inerzia. Corpi plastici e statue.
L’avvento di altre intelligenze, non umane, si faceva spazio in quel paesaggio di crepacci e ricordi. La polvere e la sabbia ricoprivano porzioni di corpo. Esseri maculati che s’introducevano fuori dal confine, con un’ostinazione annaspante e animalesca. Scendevamo senza un’idea precisa del dopo, fuggivamo il buio, l’estensione dell’ombra. Così assistemmo al parto. La porzione luminescente e viscosa della placenta sulla terra, il sudore e gli occhi, i nostri e delle bestie, s’incrociarono fino a consumare gli sguardi, fissando l’immagine nella retina, tanto in profondo da trasfigurarla in racconto. Il mito dell’alieno che muove i primi passi sul pianeta, tra ciottoli e merda, tra allori ed euforbie, ginestre e zammari. La tribù dava nomi per fissare la scena, narrava la sopravvivenza della specie, rimescolava l’esistente rendendolo lastra, strato, lamella, fossile.
I primi passi vivono nell’estinzione, la scoperta ci bloccò fino a farci indietreggiare, era tutto finito, oltre, era già un ritorno tra ciuffi sparuti di muschio riarso e bulbi acquosi.
*
da Autunno
- PER ECCESSIVA MATURAZIONE
A settembre l’aria è ancora greve, il mondo pare appesantirsi e corrugarsi in meandri pastosi. Sotto il cielo e la terra, cunicoli, labirinti di vasi cribrosi attraversati da masse di cimici e cocciniglie. Il pesciolino d’argento fluttua nei recessi della dimora zuccherina, il suo paradiso sinantropico ricco di amidi, la sua Hänsel und Gretel Haus. E così, «per decadimento, per eccessiva maturazione, per marciume»[2], per enfiagione prende avvio la fine. Siamo dentro l’origine della decadenza. Ogni esordio, per quanto appariscente, presenta sempre «un mondo che casca a pezzi senza saperlo»[3], così anche l’autunno incipiente con i suoi calori tardivi e troppo umani mascherava un benessere apparente, mentre a incombere era qualcosa di inimmaginabile.
Entrare e uscire di casa, camminare tra le vie lineari e i parchi, tra filari di tigli e platani, immersi nei residui d’ombra di pioppi e ippocastani, così passavano i giorni, sgranati come grappoli in attesa di una consumazione definitiva. E invece sempre temporanea, rigenerabile come la forma delle nubi prima di ogni catastrofe, come la piega del lenzuolo al mattino dopo una notte condizionata da incubi e posture inadeguate. La sorte e galassie immaginate ci rendevano estranei a noi stessi nei passi consueti, nelle abitudini che producevano erosioni primarie, abrasioni della terra, assenze senza affanno, dimore senza storia, sonnolenze suburbane, pace di pianura e fermentazione di palude.
Così trascorrevano le ore, le nostre piccole paure e l’urgenza di sapere dove saremmo finiti e, nonostante tutto, continuare a lavorare fino alla consumazione.
- E LA GRAN FATICA
La nostra casa si regge su mura sempre più fredde. E sotto il suo tetto di polvere dormono esseri investiti dai venti della mezzanotte. La nostra casa pare spegnersi sotto nubi di contagio e la proibizione e la giacenza di un misero autunno. E la gran fatica in questi giorni che obliano la terra, la gran fatica delle parole. Autunno. La stanchezza del rosso e del giallo che bruciano aceri, faggi, castagni e larici tra vette spaventose e viali morti e mille volti e boschi inceneriti e tarsi piumati che annunciano la caccia fatale, rapace. In questo «ammassamento cremoso»[4] di carcasse marcescenti e accatastate o sfrattagliate nell’umidore buio, mentre i corpi dormono avvolti nell’aria vaporosa della mezzanotte, ecco grandi ombre squagliarsi sulla superficie delle strade, risalire le pareti di palazzi e cascine, divorare la città-carogna. Ombra-aquila che si abbatte sui boschi neri, sulle tangenziali filiformi notte dopo notte, dalle vette fredde giù nelle paludi, nei focolai d’infezione e odori tristi. Catabasi tra gas e pestilenza, la tundra urbana che emana «fragranza di Persefone»[5] e che chiude definitivamente l’estate, tappezzando l’asfalto. La luce si fa blu e verde e mastica il senso dell’emisfero, dell’occasione, della fine. E albeggia. Mentre i corpi fluttuano, sono forme luminose rallentate, screen saver del mondo e l’attesa è una fatalità che si muove in cerchio, attivando un percorso capovolto fino allo zenit dell’illusione originaria. Le foglie sverdiscono, la luce si fa blu fino a confondersi con la fine del cielo, è in arrivo una maniera diversa, un approccio imprescrittibile che odora di scomparsa e tristezza, di un mondo che pareva insostituibile.
È in arrivo il bianco incolore, il neutrale, il rosso:
fumo nel fumo
buio d’animale
porta di sangue
grido siderale
(V. Bonito, La bambina bianca)
*
da Inverno
- IL FALSO VUOTO
Il vento crudo investe la materia,
la crosta assorbe la luce e s’inseria
in pianeti molteplici e poi varia
la veste bruna che indorata interra
il falso vuoto e un pieno dissotterra
di residui. Scintilla, e tutta l’aria
è un segreto di munnizza scordata,
un’alba dolce astrale abbandonata.
- IL VIAGGIO – LA FINE
Lo spillo fossile riluce
lo spazio dispregia e non c’è
‘namoranza disiosa[6] che
rintracci pietà nella luce.
Di quello che fu del passato
che si ripresenti in futuro
l’amore duro,
amerò come mäi è stato amato
lo specchio del verde che scuce
lo spettro arboreo inflorescente,
il braccio di roccia che pende
cadendo in sabbia bianca e duci.
Amore da orgoglio umiliato
nell’umile passo misuro
il gioco puro
che baia in grotta e in bosco ha trasformato.
La gola di ghiaia conduce
ai fronti glaciali e la terra
discende sciobbata[7] alla pietra.
La lingua s’incava e disluce
nell’antro lo sguardo sfocato
e il freddo che rende insicuro
il passo, è un muro
l’abisso blu che scinni ‘nturcigghiatu[8].
E scende e scende in controluce
il mondo si riversa e accende
il ramo invisibile che
si espande da nuova radice.
Una voce, un soffio attutito,
un ciatu chi manna caluri,
comu l’amuri[9]
tocca le mani, dito contro dito.
Intanto il disamore sfocia
nell’iniziale caos che indentra
il fuori in fredde tane, in ventri
monchi e usciati, chi fannu bbuci[10],
in strati e giri, un nuovo attrito
infinito, ulcerato, duro
come il futuro
senza comfort, dal buio rivestito.
E incendiato in cenere inficia
l’abbraccio dû cielu, dâ stidda
cû munnu e gioca a mmucciatedda[11]
negli angoli e ammanchi la specie.
La specie assente assiderata
che manca d’anima e d’amuri.
Senza caluri
‘namoranza disïosa è pidduta[12].
- NUOVO MONDO
Con le mani non libere stanotte
dormiremo in altre sfere di mare.
In acqua scende pende oscilla l’aria,
tra porti e sbarchi muta le stagioni.
Voi, scampati, considerate il ghiaccio
e in stelle immergerete il desiderio.
Forse è un’ultima luce il desiderio
che nuovi dei scandagliando la notte
scopriranno sotto crepe di ghiaccio.
La terra è vostra, correte altro mare
naufraghi carezzati da stagioni
inedite, diverse come l’aria
che respirate. Sempre nuova è l’aria
se a commuovere dentro è il desiderio
inestinto del fuori. Le stagioni
si scambiano alternando giorno e notte
anche se l’onda ormai stinta del mare
si dilata da macerie di ghiaccio.
Quando la stanca materia nel ghiaccio
al risveglio cambierà ancora l’aria
sciogliendo il cuore nel cuore del mare
venefico, nascerà il desiderio
e un vento nuovo nel cielo la notte
ravviverà le alterate stagioni.
Così l’uomo si adatta alle stagioni,
come un respiro profondo sul ghiaccio
che avvolgendo il mattino nella notte
trasforma di anno in anno terra e aria.
Il suo passaggio è puro desiderio,
i suoi passi una scintilla di mare.
Come gocce in sospensione sul mare
sono già i nostri giorni e le stagioni
saranno nel futuro il desiderio
di nuove albe, nel cuore di ghiaccio
della terra, fin quando fiato e aria
si scomporranno nell’eterna notte.
Intanto questa notte è desiderio
d’aria e respiro, protesta del ghiaccio
alle stagioni in cerca d’altro mare.
______
[1] G. Leopardi, Zibaldone, 4169.
[2] J. Didion, A Sud e a Ovest – Pagine da un diario.
[3] B. Traven, La nave morta.
[4] S. D’Arrigo, Horcynus Orca.
[5] W. Stevens, Cose d’agosto.
[6] Cfr. Giacomo da Lentini, La ‘namoranza disïosa.
[7] Accecata.
[8] Scende attorcigliato.
[9] Fiato che manda calore, / come l’amore.
[10] Molli e gonfi, che urlano.
[11] Del cielo, della stella / col mondo e gioca a nascondino.
[12] Perduta.
Testi tratti da: Nella spirale. (Stagioni di una catastrofe), Industria e Letteratura, 2021.