Salire al Pian dei Ciliegi
di Paola Ivaldi
“La meditazione fa nascere in noi una sorta di testimone che spia il turbine dei nostri pensieri senza lasciarsene travolgere. Noi siamo puro caos, confusione, siamo una poltiglia di ricordi e paure e fantasie e vane aspettative, ma dentro di noi c’è qualcuno di più tranquillo, che vigila e riferisce.”
Emmanuel Carrère, Yoga (2021)
Può capitare, nella vita, di attraversare lunghi periodi complicati: molto lunghi, molto complicati. Quando ciò accade tendiamo d’istinto a cercare formule e pozioni, a adottare goffe quanto vane tattiche di scansamento o a fiutare scorciatoie. Gli approdi, che possono essere i più svariati, dalla chaise longue dell’analista lacaniano al divano dell’amica del cuore, dal bancone della farmacia alla sdraio ergonomica del centro benessere, si rivelano quasi sempre illusori, poiché nei mari agitati dell’esistere, c’è poco da fare: l’annaspare è azione solitaria.
Da anni accarezzavo l’idea di avvicinarmi alla meditazione sostanzialmente per questo: tentare di capire se e come poter iniziare a coltivare delle risorse interiori, tutte mie, per affrancarmi dall’odiosa sensazione che la soluzione di un tormento esistenziale sia sempre un altrove rispetto a me, che debba avvenire in conseguenza di una delocalizzazione, di una delega affidata ad altri o ad altro, soprattutto che abbia a che vedere con il denaro, passando attraverso l’acquisto di prodotti, servizi, prestazioni.
Così, a luglio, finalmente decido di salire al Pian dei Ciliegi, tra i Colli Piacentini, per partecipare a un ritiro di meditazione Vipassana, non sapendo nulla di meditazione Vipassana (che significa visione profonda), non conoscendo il programma della settimana, ignorando in buona sostanza quello che mi aspetta se non a grandi linee, per aver dato un’occhiata fugace, qualche giorno prima di partire, al “Codice di comportamento – Considerazioni da tenere a mente prima di iniziare un ritiro” ricevuto via mail all’atto di iscrizione.
A dire la verità, la mia lettura del Codice era stata alquanto sbrigativa, come a non voler mettere a fuoco l’impegno che un ritiro richiede a chi vi prenda parte, preferendo sorvolare sugli aspetti più spinosi e di certo poco allettanti. Tuttavia, c’era una frase che mi si era scolpita nella mente e che mi facevo bastare: “il ritiro è un’opportunità rara per dedicarsi all’introspezione e alla crescita personale”. Questo concetto, da solo, per me era sufficiente a farmi partire, convinta che le eventuali difficoltà o i disagi conseguenti al rigore e alla disciplina che intuivo essere richiesti facevano parte del “pacchetto” e, in un modo o nell’altro, erano da affrontare.
Il giorno dell’arrivo cade di domenica; giungo a destinazione a pomeriggio inoltrato, già in lieve affanno per quello che considero un ritardo, infatti sono l’ultima a rispondere all’appello. Viaggiare in solitaria e senza navigatore, d’altronde, con le cartine stradali e i soliti quattro, cinque fogli stampati da Google maps stracolmi di indicazioni circa le uscite dalle rotonde da imboccare, implica accettare qualche disguido, strade sbagliate, retromarce, inversioni a U. L’incertezza. Quel pizzico di “avventura” a cui siamo sempre meno abituati, ma che, in fondo, è proprio quella marcia in più che impreziosisce il raggiungimento della meta.
Ad accogliermi la giovane tutor del ritiro che mi spiega, attraversando serafica il piazzale di ghiaia e poi accompagnandomi fino alla stanza assegnatami, le cose fondamentali da sapere e alle quali cercare il più possibile di attenersi. La prima è il rispetto del Nobile Silenzio. Posso interromperlo solo con lei, per chiedere eventuali informazioni pratiche durante il ritiro, e con l’insegnante insieme alla quale si prevede, a partire dal giorno successivo, un colloquio quotidiano individuale di dieci minuti. Stop. Non dobbiamo parlare tra noi partecipanti, non dobbiamo rivolgerci la parola, salutarci, nemmeno nella sala da pranzo, dove consumiamo i nostri pasti, rigorosamente vegetariani, seduti a tavolini quadrati muniti di alti pannelli di legno laterali che impediscono la visuale del vicino. Mai una parola. Alla fine tenderemo ad abbassare gli occhi, quando ci incrociamo, in giardino, per le scale, risultando meno difficile non salutare chi non guardi.
Questo digiuno di parola è già di per sé un’esperienza di straordinario incanto, un inaspettato alleggerimento, uno sfrondare acustico benefico. Mettere a riposo le corde vocali per giorni e giorni significa non udire più la nostra voce, il cui timbro ci abita da una vita, in un certo senso agevolando un qualche tipo di avvio di distacco da noi stessi, da quella parte invadente, difficilmente arginabile e talvolta imbarazzante che è l’Ego sonoro.
Il rispetto del Nobile Silenzio implica un’estrema attenzione ai movimenti, da compiersi sempre avendo cura di non sbattere porte o finestre, non lasciar cadere oggetti, sollevare le sedie da spostare. Il silenzio chiede attenzione, concentrazione. Il silenzio è nemico della sciatteria e della distrazione. Il silenzio pretende la lentezza, che infatti è vivamente consigliata a noi tutti, sempre, anche quando ci ritroviamo soli in camera. Il silenzio è incompatibile con l’utilizzo di qualsiasi apparecchio telefonico.
Il momento cruciale, nel giorno del mio arrivo, è stato quando ho appreso il programma della giornata che si sarebbe replicato, tale e quale, per sei giorni. Sveglia alle cinque, meditazione camminata e meditazione seduta fino alle sette, colazione, poi, fino a mezzogiorno, quattro ore in cui si alternano la meditazione camminata e la seduta, dopo pranzo riposo, poi dalle 13:30 alle 17 di nuovo si alternano la meditazione seduta e quella camminata. Alle 17 spuntino leggero, poi fino alle 19:30 la consueta alternanza di meditazione seduta e camminata. Prima del riposo serale delle 22, è previsto il Discorso di Dhamma, ossia letture e considerazioni sulla pratica tenute dall’insegnante, ancora un’ultima meditazione camminata e, infine, la pratica di Metta, gli auspici di amorevole gentilezza.
I vari appuntamenti della giornata sono scanditi dal suono della campana, alcuni di noi sono chiamati a svolgere il ruolo di campanaro, il mio turno è quello delle 15:55 che richiama il gruppo nella grande sala dedicata alle sessioni di meditazione seduta. Suono prima una campana di dimensioni ridotte che mi porto in giardino e nello spiazzo per essere udita da chi è nei dintorni, alle prese con i propri passi; poi rientro e suono una campana assai più grande e pesante, che sta appesa al soffitto, le cui profonde primordiali vibrazioni assomigliano a quelle di un gong. Sempre tre rintocchi, gentili ma decisi.
I primi giorni sono i più difficili, naturalmente. Veniamo adeguatamente istruiti sulla pratica della meditazione da seduti e in che cosa consista la meditazione camminata. Quello che mi sembra di afferrare è che bisogna prestare la massima attenzione al respiro, in particolare al movimento del ventre, quel su e giù della pancia che è l’espressione fisica del nostro inspirare ed espirare. E ogni volta che la mente scappa via e schizza di qua e di là (l’insegnante li chiama i pensieri-scimmia) noi dobbiamo accorgercene e riportare l’attenzione al ventre. Su e giù. Su e giù. Questo sia da seduti sia camminando. Nella meditazione camminata è importante fare passi corti, e molto lenti, lentissimi.
I primi giorni, dunque, sono decisamente i più a rischio-rinuncia, sono quelli di chi non si immagina di poter resistere e così, tra il lunedì e il martedì, vediamo andar via alla spicciolata, con borsone e trolley, quasi vergognosi, tre di noi. Restiamo in diciassette. Mi aspettavo una maggioranza femminile, ma mi devo ricredere, essendoci parecchi uomini nel gruppo che, anche sotto il profilo anagrafico, si presenta piuttosto eterogeneo, con diversi giovani, ma anche persone più vecchie di me.
I problemi che mettono in fuga le persone possono essere innumerevoli. Così come inimmaginabili sono le situazioni di vita di ognuno di noi, lo stato d’animo con cui siamo saliti al Pian dei Ciliegi, il cosa ci aspettiamo e quanto siamo disposti ad accettare in termini di rinunce e di rigore, fisico e mentale: perché quello che colgo quasi subito è che a una postura esteriore deve corrispondere una postura interiore ed è talmente difficile trovarla, la propria postura, che ci si sente inadeguati e incapaci. Ma è assolutamente normale, esserlo, così come lo è l’accorgersene, e salutare l’accettarlo. Fanno tutti fatica, mi dice uno dei primi giorni l’insegnante.
Per me, forse, il problema maggiore è che un’ora da seduta, pur con tutti gli ausilii del caso (zafu, cuscini a cilindro, bolster, coperte ripiegate, panchetti, seggiole), è un tempo smisuratamente lungo. L’insegnante ci invita a provare a resistere il più possibile a restare nell’immobilità, almeno mezz’ora, ma le mie articolazioni sono quelle che sono e dopo venti minuti, con movimenti che dio-quanto-vorrei fossero invisibili e silenziosi, sono costretta a modificare la mia posizione, l’incrocio delle gambe, spostare un piede, togliere le mani dalle ginocchia e posarle mollemente in grembo. Cose così.
Ma anche così, il tempo non passa, pare dilatarsi come un elastico, al punto che ogni volta giungo a pensare che il timer, il cui discreto bi-bip annuncia il cambio d’ora, sia stato manomesso, si sia rotto, che l’insegnante lo abbia disattivato per farci uno scherzo o metterci alla prova per vedere quanto resistiamo oltre il confine inaudito dei sessanta minuti. Ogni volta, ogni santa volta, non mi capaciterò mai, per l’intera durata del ritiro, di quanto possa essere lunga un’ora in cui devi pensare solo al tuo ventre, stando immobile, tentanto di ignorare o ammaestrare tutti i tuoi pensieri-scimmia.
Per ragioni sanitarie dettate dalla pandemia la sala di meditazione ha sempre tutte le sette finestre spalancate ed essendo il Centro ubicato in una zona boscosa, ma non lontano da alcune abitazioni rurali, si possono facilmente udire sia i suoni della natura sia il vocìo di esseri umani ignari dell’esistenza del Nobile Silenzio o, ancora più distanti, i rumori ripetitivi di trattori, decespugliatori o seghe elettriche.
Mentre mi concentro con tutta me stessa sulla mia pancia, su e giù e su e giù, distinguo il canto del fringuello e della tortora, le cincie e le ghiandaie, c’è l’incalzante frinire delle cicale a cui, al calar della sera, si sostituisce quello dei grilli. Su e giù e su e giù, e sento in lontananza la voce di un uomo che chiede a un altro: dì, hai visto? era uno sciame o un volo nuziale? I nostri vicini più prossimi sono apicoltori, lo scoprirò la domenica di partenza, in transito con l’auto davanti al loro cancello, scorgendo il cartello dell’Anagrafe apistica nazionale.
Su e giù e su e giù, ma appena fuori dalla finestra l’incessante brusìo delle api mi cattura l’udito, insieme al ronzìo solitario e minaccioso del calabrone, al volo sguaiato di una mosca, quello lento e gentile del bombo. Su e giù e su e giù, etichettare i pensieri, dice l’insegnante, mettere etichette e accantonare: ricordo / rumore / suono / ascoltare… via via via, lasciare andare, via via, tornare al ventre: su e giù e su e giù.
Quando ci ritroviamo nell’ampia area esterna a praticare la meditazione camminata potremmo senz’altro apparire, a uno sguardo estraneo, come un gruppo di persone altamente problematiche, i movimenti rallentati al punto da sfiorare la staticità, tutti muti, tutti seri, sprofondati per ore intere in un bizzarro sortilegio, anelito collettivo di quasi-immobilità.
I colloqui quotidiani con l’insegnante si svolgono, tra prato e bosco, sotto l’ombrellone bianco, sono brevi ma preziose occasioni di confronto e scambio, a volte piango e lei mi tranquillizza dicendo: chi non piange a un ritiro di Vipassana non fa un ritiro di Vipassana.
Ma uno dei momenti più toccanti è la pratica serale della Metta, l’amorevole gentilezza. Gli auspici, quasi ingenui nella loro semplicità, sono: essere al sicuro, lontano dai pericoli, essere in pace e in buona salute, aver cura di sé ed essere felici. Vengono rivolti prima di tutto a noi stessi: questo mi fa pensare a quando in aereo, poco prima del decollo, il personale di bordo istruisce i passeggeri sulla condotta da adottare nelle eventuali emergenze e ogni volta presto attenzione al fatto che in caso di uso della maschera a ossigeno prima devo indossarla io e dopo soccorrere eventualmente gli altri. Ecco, qui il principio è il medesimo: per aiutare gli altri, prima devi salvarti tu.
Gli auspici di Metta, dopo essere stati rivolti a noi stessi, vengono indirizzati alle persone a noi più care, poi ai presenti in sala, poi ai vicini di casa, poi ai paeselli del circondario, poi esondano simili a un infinito manto di gentilezza, fino a lambire l’intera regione poi l’Italia, e ancora, continenti, mari e terre, animali, tutte le creature anche quelle invisibili. Credo davvero, ogni sera che pratichiamo la Metta, che nell’amorevole gentilezza vi sia una immensa benevola potenza, un’energia che la maggior parte di noi, sfortunatamente, non conosce, non ha imparato, non sa che si può praticare, ne ignora l’esistenza.
Ho capito, dopo giorni e giorni impiegati a tentare di addestrare la mente, anziché esserne tiranneggiata, come uno dei più grandi problemi, per molti di noi, sia dato dal vivere in modo sbilanciato, indugiando troppo nel passato o azzardando vacue proiezioni nel futuro. Proprio praticando la meditazione camminata ho messo a fuoco questa immagine: il passato è la strada dalla quale provengo, ma è una strada che cessa di esistere non appena io sollevo il piede posteriore per muoverlo in avanti e che dunque si sfalda mano a mano che procedo nel cammino; il futuro, a sua volta, non è altro che quell’istante in cui il piede che stava dietro si appoggia a terra davanti all’altro, è l’accoglienza che si rinnova nel presente che continua a farsi passato. Un gioco di equilibri concettualmente quasi inafferrabile, ma al contempo talmente naturale da risultare del tutto spiazzante. Invecchiare, dunque, è un’arte inconsapevole, ardito funambolismo che ci consente di rimanere sul filo teso del presente, senza mai farci inghiottire dai due baratri diseguali, inversamente proporzionali, del passato e del futuro.
L’arrivo dell’ultimo giorno reca in dono la gioiosa soddisfazione di avercela fatta, sì, e c’è perfino il sottile dispiacere della partenza: sappiamo tutti che non sarà affatto facile seguitare a praticare seppur per una ventina di minuti al giorno, come invita a fare l’insegnante, rivolgendosi soprattutto a noi principianti. Vedremo.
Scendendo verso valle, guidando verso la Torino-Piacenza, cerco di pensare al mio ventre, su e giù e su e giù, ma poi già sono altrove, a considerare in che modo si possa conciliare la pratica della meditazione con l’atto creativo. Se io medito e sento il canto di una cianciallegra, stando a quanto mi è stato appena insegnato, dovrei etichettare il suono e allontanarne il pensiero, le idee vanno lasciate andare via, come nuvole vaganti nel cielo primaverile. D’accordo. Ma allora io mi chiedo: se, poniamo il caso, Emily Dickinson avesse praticato la meditazione camminata noi oggi non avremmo tutti i suoi bombi, e l’incanto di petali e foglie? Avrebbe finito per non concedere nemmeno mai a una farfalla di posarsi lieve nella sua mente, impedendole di sublimarsi in un verso poetico. Ma queste, non saranno forse le classiche perplessità di una principiante che torna a casa con la testa piena di dubbi e qualche timido buon proposito in tasca? Vedremo.
Molto brava, Paola. Un pensiero organizzato, una scrittura pulita ed esatta per una narrazione e un tipo di esperienza molto interessanti.
Grazie Corrado, sì: un’esperienza impegnativa ma di sicuro arricchimento. Felice di averla potuta condividere qui su Nazione Indiana.
Una scrittura che sa evocare immagini, ma anche coinvolgente,con stati d’animo e pensieri nei quali è facile immedesimarsi.Grazie Paola,mi hai dato degli utili spunti di riflessione su alcune mie paure nell’affrontare un ritiro e un senso di inadeguatezza,spesso presente,nel mantenere l’immobilita’della postura,anche solo nella meditazione continuata a casa.Buona vita.
Grazie Antonella. Il timore di non essere all’altezza è stato forte al primo impatto, ma il ritiro è una tappa del cammino, questo mi è parso di capire quando sono scesa via dal Pian dei Ciliegi. Se già mediti, vale senz’altro la pena che tu provi a vivere l’esperienza immersiva di un ritiro. Buona vita a te
Davvero una pausa riconfortante in un mondo che sembra andare sempre peggio. Grazie.
Grazie! Al Pian dei Ciliegi la percezione del mondo, immersi nel Nobile Silenzio, era talmente differente..!
Un “fresco” reportage.. mi è piaciuto leggerlo.
Le idee sono nuvole vaganti e provocano emozioni
La mia esperienza di Vipassana non è stata di allontanamento alienante ma di una progressiva disidentificazione.. quanto basta per un esperienza di equilibrio e pace, nonostante tutto
Grazie. La parola “disidentificazione” è proprio ben scelta, anche a me a tratti pareva di provare qualcosa di analogo. E comunque, sì, nonostante tutto, equilibrio e pace.
Divertentissimo. Io, quando sento queste cose, meditazione ecc. ecc., mi domando sempre “e chi si occupa delle bollette?”. Poi penso ai vecchi tempi, quando andare in India era la panacea di tutti i mali (ma perchè la cosa funzionava solo per chi non aveva problemi volgari, tipo, appunto, mutuo o affitto?). Almeno, dopo questo ritiro, la bilancia cosa ha detto?
P.S. complimenti per la scrittura, è molto brava.
Grazie Barbara. In effetti il problema è come declinare nel quotidiano insegnamenti così alti. Ma forse per me è un problema perché sono una modesta principiante.
Ma no, cara Paola, non avere paura di perdere la poesia. Io penso che se la mente tace e si fa tranquilla -con la meditazione, ma non soltanto -anche l’aria intorno si fa limpida. Attraverso questa limpidezza, la farfalla si fa nitida, il ronzio del bombo quasi solido. Ecco, quindi, che si possono dire. Non afferrarli con le parole, no. Dire. Un po’ come ritrarli con pochi tratti di china, ma lasciandoli liberi.
Ho partecipato ad alcuni ritiri di meditazione vipassana, tanti tanti anni fa, e questa è l’impressione che mi hanno lasciato.
Ma che belle parole, grazie davvero Roberta