Quattro romanzi: He, Van Reet, Dazieri, Wurger
(proseguono le letture estive. Altri quattro romanzi sotto l’ombrellone. G.B.)
Chen He, A modo nostro, 2018, Sellerio editore, 345 pagine,
traduzione di Paolo Magagnin
La scomparsa per incidente stradale di una moglie che non vedeva da anni catapulta un semplice autista di camion dall’altra parte del mondo. Cioè da noi, in Europa. Xie Quing, nello svolgersi di A modo nostro, in una sorta di indagine privata, cercherà di dirimere i suoi dubbi sulla morte sospetta di Yang Hong, ma sopratutto scoprirà quanto distante, esotico, illogico possa essere l’Occidente per un cinese.
Per noi lettori di questa parte del mondo il romanzo di Chen He è uno straordinario documento che ci permette di guardarci “da estranei”. Francia, Spagna, Italia, Albania. A modo nostro è un viaggio che racconta l’immigrazione clandestina dal Wenhzhou (da dove viene la maggior parte dei cinesi che vive in Europa), le sue reali consuetudini, ben distanti dai luoghi comuni che abbiamo su quella comunità, e gli inevitabili pregiudizi, ovviamente, nei nostri confronti: il cibo immangiabile, il formaggio puzzolente, la sporcizia delle metropoli, i monumenti decrepiti.
Ma questo di Chen He non è uno studio di antropologia ad uso degli occidentali, è un romanzo. L’autore conosce a perfezione le regole del gioco e sa metterle in pratica. Di capitolo in capitolo ci vengono raccontate le peripezie di Xie Quing alla ricerca del mistero sulla morte di Yang Hong alternate a quelle del passato cinese del protagonista: l’infanzia, gli eventi della rivoluzione culturale, l’incontro con la futura moglie, il racconto della sua potente famiglia caduta in disgrazia. Così, nell’intreccio fra passato cinese e presente europeo, comprendiamo come le cose, all’apparenza lontanissime, siano tutte legate a un filo sottile ma resistente. E come ogni viaggio, in letteratura, che sia verso Oriente o verso Occidente, sia sempre un viaggio iniziatico alla scoperta di se stessi. Rivelandoci diversi da come si è partiti.
*
Brian Van Reet, A ferro e fuoco, Guanda editore, 294 pagine,
traduzione di Maya Guidieri Berner
C’è Cassandra, una giovane militare che fa fatica a sopportare la sonnolenta provincia americana e parte per la Guerra del Golfo, nel 2003. C’è Abu Al-Hool, inquieto figlio della borghesia egiziana che abbraccia gli ideali jihadisti e dopo anni di guerra in Afganistan, in Cecenia, si ritrova colmo di dubbi su quello che sta facendo mentre guida un gruppo di mujaheddin in Iraq. C’è Sleed, un giovane carrista insofferente alla guerra che segue i suoi commilitoni alla ricerca di reperti archeologici da trafugare. E poi tutto precipita. Cassandra e la sua squadra cadono in una imboscata, vengono rapiti dai terroristi guidati da Abu Al-Hool, che vorrebbe in realtà liberarsi di questo fardello e, proprio per questi sui dubbi (o debolezze), verrà sostituito al comando da Walid, medico cresciuto in Inghilterra, mente razionale e feroce.
A ferro e fuoco è un libro che parla di prigionia, abusi, terrore, rovine, atrocità. Brian Van Reet ha un passato da volontario che è partito per il fronte dopo l’11 settembre. Ma il suo non è il memoir di un reduce fanatico e inflessibile sui valori occidentali che andava esportando in medioriente. Un libro così sarebbe insopportabile. Quello che invece ha scritto è il romanzo potente di un autentico scrittore, capace di organizzare con maestria i tempi narrativi, i punti di vista, le psicologie.
Nessuno si salva per davvero, nessuno è davvero colpevole. Tutti cercano di sopravvivere, di uscire fuori dagli incubi della realtà e della propria coscienza infetta. Come ogni vero romanzo dedicato ai fronti di battaglia non è di eroi o di eroismi che parla. Ma solo dell’assurdità, dell’inutilità della guerra. Del caos infernale, dell’abominio, che l’umanità è capace di perpetrare di continuo, non imparando mai nulla dai propri errori.
*
Sandrone Dazieri, Il Re di denari, 2018, Mondadori, 500 pagine
Anche se so benissimo che i soloni delle patrie lettere gridano alla lesa maestà solo a sentire nominare “quella” parola resto dell’idea che la letteratura debba (anche) essere “intrattenimento”. Ecco, l’ho detto. Poi, chiaro, ognuno decide con cosa intrattenersi. Chi con Dante o Proust, chi col più dozzinale e stereotipato dei romanzi. Ma avere paura di ammettere che un libro possa avere un disegno complesso, una trama colma di colpi di scena, di cambi improvvisi di punti di vista, quasi fosse una colpa e non un talento, mi sembra un’inutile evirazione alle opportunità che la letteratura ci offre.
Nel buen retiro marchigiano di Colomba Castelli, sotto una coltre di neve, piomba all’improvviso un ragazzo autistico in fuga. Scalzo, disorientato, con gli abiti insanguinati. Si chiama Tommy, non sappiamo nulla di lui. Conosciamo invece la protagonista, ex vicequestore, attrice di altri due romanzi di Sandrone Dazieri, parti di una trilogia della quale questo Il Re di denari è il capitolo finale. Come da thriller che si rispetti non c’è evidentemente pace per Colomba. La scoperta della efferata strage della famiglia di Tommy accenderà nuovamente l’istinto del cacciatore della protagonista. Da qui, mistero dopo mistero, agnizione dopo agnizione, dopo inseguimenti, violenze, ritrovamenti, vecchi e nuovi personaggi, antagonisti creduti scomparsi che rimergono spaventosi, trame sempre più complesse e inestricabili, scorrono senza tregua ben cinquecento pagine, senza mai un momento di stanca. Pura adrenalina.
Certo, i sottointesi, per chi non ha letto i capitoli precedenti della trilogia, possono confondere, ma basta darli per assodati, quasi altrettanti misteri irrisolvibili. È tutto verosimile, credibile, possibile quello che racconta Dazieri? Ha importanza? O, in casi come questo, è la macchina narrativa, capace di non perdere mai un colpo, la cosa che più affascina?
*
Tarkis Würger, Stella, Feltrinelli, 2019, 182 pagine
traduzione di Nicoletta Giacon
Le polemiche scatenate in patria attorno a Stella di Tarkis Würger dimostrano come il nazismo resti un argomento indicibile in Germania, difeso da un salutare cordone sanitario democratico. È in sé una buona notizia, ma reputo sterili tali alzate di scudi. Il romanzo racconta di Friedrich, giovane (e ricco) svizzero che passa un anno a Berlino nel cuore della seconda guerra mondiale. Farà amicizia con Tristan, dandy amante del jazz e della bella vita e diverrà fidanzato di Kristin, cantante di cabaret che gli nasconde la sua vera identità e la sua origine. Scopriremo nel corso della lettura che l’amico in realtà è un ufficiale delle SS e che Stella è una ebrea che vive clandestinamente nella capitale dell’odio antisemita.
Würger scrive il romanzo ricalcando la storia vera di Stella Goldschlag, condannata dopo la guerra da un tribunale sovietico per delazione. Per salvare i suoi genitori aveva denunciato alla Gestapo e fatto mandare a morte sicura migliaia di suoi simili. I genitori di Stella non si salvarono, i suoi tradimenti non servirono a nulla.
Gli scrittori hanno il diritto di raccontare quello che vogliono. Non hanno il dovere di essere testimoni, parziali o imparziali, non devono insegnare alcunché, non devono lanciare messaggi. L’unico obbligo è avere il coraggio di gestire storie di tale enormità senza barricarsi dietro il “mestiere”. È su questo che varrebbe la pena polemizzare. Würger scrive un buon libro, di maniera e di sicuro successo. Un compito ben fatto, nulla di più. Aveva in mano una storia che poteva farci immergere nell’inferno, ne è uscito un racconto di un amore vagamente decadente, con personaggi mai centrati, dialoghi fra sordi, estetizzante al limite del kitsch, fatto per immagini, già pronto per la trasposizione televisiva. Peccato.
*
(recensioni pubblicate nel corso del 2018-2019 su Cooperazione)