Trieste senza bora
1.
Nonna diceva che si saluta con gli occhi, non con le parole.
Un amico d’infanzia ti saluta con la nostalgia di rivederti in quel bambino che non c’è più. A un amante basta un piccolo cenno per far tornare l’ultimo istante di intimità. Poi c’è il falso saluto dei nemici, ma chi ce li ha?
Scesa dal treno, il ragazzo mi sorride e dice ciao. Chiedimi qualcosa, la voce forse ti toglierebbe un dubbio. Seguimi. Io sono già all’inizio del binario, scivolo tra i passeggeri all’interno della stazione.
2.
Quanto sarà che manco da questa città? Domanda impossibile.
Trieste come Venezia, con i suoi vecchi grandi e belli, tutti per strada a discutere, a meno che non ci sia la bora che ti porta via. Ma oggi, senza un filo di vento, sembra di arrivare a Venezia, quando appare il mare dal finestrino e ti riempi di aspettative, pagato il pegno di Mestre.
In treno sono stata felice. Forse perché lì c’è una sospensione del tempo. Ci sono altre regole in vigore sui binari. È proprio vero che è un attimo, che è una bugia la felicità. Giusto un momento dopo, non appena questa muta pace ti spinge a formulare un desiderio, un sogno, un’aspettativa, ecco che la felicità l’hai già persa. Così, di colpo! Il treno si ferma e scendi. Forse perché in fondo la bugia dev’essere implicita, e non devi chiedere altro.
E io invece, magari, stavolta per me ho in serbo un sogno. Peccato.
3.
Dal letto, un po’ ipnotizzata, guardi il cielo: «Sembra quasi che la bora sia andata via da lì per venire qua… Forse mi segue. Anche lei? Non sarebbe la prima a volermi stanare.»
Poi il tuo sguardo si fa dolce e batti la mano sul letto per invitarmi a sedere vicino a te, col gesto che si usa con gli animali.
«Dove vivevo da bambina, costruiscono delle speciali finestre coi doppi vetri per tentare di arginare la violenza del vento. Tra un vetro e l’altro c’è un bello spazio, si possono mettere vasi di fiori. O sporgersi di sotto per guardare le teste dei passanti. Una specie di piccolo bovindo. Per me era come un palcoscenico, una gabbia di vetro, in cui esibirmi e fare spettacoli per chi, dall’altra parte della strada, si fosse affacciato a guardare. Ma il vento lì è fortissimo, davvero impressionante.» Ti sei interrotta e con aria sorpresa hai terminato la frase: «Fortissimo come questo, in effetti. Forse dovrei correggermi e dire che una volta la bora era fortissima e che non lo è più, stando al discorso di ieri di mia madre. È inevitabile che tutto cambi… anche la natura? Ricordo bene quando la sera mia madre rientrava tardi da teatro e veniva a letto a darmi un bacio: io non aspettavo altro.»
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Estratti da: Trieste senza bora (Luci di Watson Edizioni)