Gilles Deleuze. Un sapere della vita

 

La casa editrice Giometti e Antonello ha recentemente pubblicato il volume Lettere e altri testi del filosofo Gilles Deleuze. Ospito qui un estratto dal fondamentale saggio Mathesis, scienza e filosofia, introduzione a Études sur la mathèse ou anarchie et hiérarchie de la science di Jean Malfatti di Montereggio (Éditions du Griffon d’or, Paris 1946).

Ho deciso di accompagnare l’estratto con un brevissimo frammento -in mia traduzione- tratto dal libro The Hermetic Deleuze: Philosophy and Spiritual Ordeal di Joshua Ramey (Duke University Press), che in queste righe si occupa proprio dell’influenza di Malfatti sull’opera Deleuze.

Ringrazio gli editori per la consueta disponibilità.

 

The Hermetic Deleuze

 

Per il giovane Deleuze, la mathesis non sarebbe un deposito di conoscenze segrete, ma piuttosto il senso più concreto della vita. Così concepita, essa sarebbe un’attivazione delle forze di individuazione. Dopo aver osservato che gli approcci della filosofia e della scienza producono un falso dualismo tra mente e materia, pensiero e sensazione, Deleuze ci invita a considerare la mathesis come un tentativo di sviluppare una forma di conoscenza impossibile tanto per il metodo scientifico quanto per quello filosofico, ma che -in ogni caso- potrebbe rivelarsi fondamentale per entrambi.

***

[…] Ciò che è in discussione per Malfatti (e per le speculazioni sulla natura del Deleuze della maturità) è l’escavazione delle relazioni (solitamente) impercettibili che possono essere attivate e trasformate sotto delle condizioni intense e ritual-terapeutiche, capaci di originare guarigione e creatività, e di generare forme di vita innovative.

Joshua Ramey

 

Mathesis, scienza e filosofia

 

Può essere interessante definire la mathesis a partire dai suoi rapporti con la scienza e la filosofia. Naturalmente una definizione di questo tipo non può che rimanere esterna alla mathesis stessa: essa è semplice, provvisoria, e tesa solamente a mostrare come la mathesis abbia sempre rappresentato, a prescindere dal momento storico, uno dei grandi – e sempre attuali – atteggiamenti dello spirito. Questo significa che l’argomento del libro è incentrato sulla critica a quegli argomenti che sapienti e filosofi sono sempre tentati di invocare contro la mathesis, e soprattutto una messa a punto, fondamentale, del significato che va attribuito al termine «iniziato». Certo non va dimenticato il contesto entro cui fiorì la mathesis, quella civiltà indiana che ne costituisce l’essenza. Ma se risulta impossibile, a qualsiasi livello, astrarla da questa civiltà, possiamo tuttavia reperire all’interno della nostra mentalità occidentale alcune esigenze fondamentali che la mathesis, come una sorta d’introduzione, di prefazione a sé stessa, è di per sé già sufficiente a soddisfare. Da questo punto di vista, il libro del Dott. Malfatti risulta di capitale importanza. Altri lavori infatti hanno approfondito in seguito la coscienza indiana: ben pochi però sono riusciti a introdurre altrettanto bene la nozione di mathesis in sé, nei suoi rapporti con la scienza e la filosofia.

Non è facile cogliere il senso esatto delle discussioni che periodicamente oppongono filosofi e sapienti: non parlano infatti lo stesso linguaggio. La scienza si situa nell’oggetto, ricostruisce o scopre la realtà persino al livello dell’oggetto del pensiero, senza mai porsi il problema delle condizioni di possibilità. Il filosofo al contrario individua l’oggetto come rappresentazione in relazione al soggetto conoscente. Come sottolinea Alquié, al filosofo non interessa sapere che cos’è, in ultima istanza, la materia, se si tratta di atomi o meno, perché questi come ogni altra rappresentazione hanno uno statuto filosofico soltanto in relazione allo spirito che se li rappresenta. Né vediamo quali cambiamenti possano in fondo apportare le ultime scoperte della fisica moderna, per esempio, alle concezioni di Berkeley, datate XVIII secolo. S’insinua così internamente al sapere un dualismo fondamentale, tra scienza e filosofia, che è principio di un’anarchia. Analogo in fondo all’opposizione cartesiana tra res extensa e res cogitans.

Un esempio questo di tanto più importante se consideriamo che Cartesio non ha mai rinunciato all’unità del sapere, alla mathesis universalis. È singolare il modo in cui quest’ultima viene situata sul piano teorico: lo spirito conoscente, così distinto in sé dall’estensione che sembra non avere rigorosamente nulla in comune con essa, nondimeno dipana l’ordine delle cose, pensando l’ordine delle sue rappresentazioni. Nel momento stesso in cui viene affermata, l’unità si rompe e si distrugge.

Disgregandosi però, notava ancora Cartesio, essa si riproduce su un altro piano, dove acquisirà il suo vero significato. Non appena si afferma la scissione teorica tra pensiero ed estensione, si afferma anche, di fatto, la loro unione pratica, in quanto definizione della vita. L’unità non viene individuata al livello di un Dio astratto che trascende l’umanità, ma nel nome stesso della vita concreta: l’albero della Conoscenza non è dunque una semplice immagine. L’unità, gerarchia in cui viene superata ogni dualità anarchica, è quella stessa della vita, la quale forma un terzo ordine irriducibile agli altri due. La vita è l’unità dell’anima in quanto idea del corpo, e del corpo in quanto estensione dell’anima. E di più: al livello dell’uomo vivente, gli altri due ordini, scienza e filosofia, fisiologia e psicologia, tendono a ritrovare la loro unità perduta. Lungi dall’essere una psicologia disincarnata nel pensiero o una fisiologia mineralizzata nella materia, la mathesis troverà il proprio compimento solamente nella vera medicina, laddove la vita viene definita come un sapere della vita, e il sapere come una vita del sapere. Da cui viene il motto «Scientia vitae in vita scientiae», e una triplice conseguenza.

Prima di tutto sarebbe un grandissimo errore pensare che la mathesis sia soltanto un sapere mistico, inaccessibile, sovrumano. Questo è il primo malinteso da evitare rispetto al termine «iniziato». La mathesis si svolge al livello della vita, dell’uomo vivente: essa è anzitutto pensiero dell’incarnazione, dell’individualità. Essenzialmente vuole essere una descrizione esatta della natura umana.

Ma la mathesis non va forse al di là di una tale natura umana vivente? Essa viene in effetti definita come un sapere collettivo e supremo, sintesi universale, «unità vivente», impropriamente chiamata «umana». Qui bisogna intendersi, occorre vedere che una simile definizione non può essere immediata, ma si pone in ultimo luogo, connotata da un senso preciso. Prefigurando i rapporti tra l’uomo e l’infinito, la relazione naturale unisce il vivente alla vita. A prima vista la vita sembra esistere solamente attraverso e nel vivente, nell’organismo individuale che la mette in atto. Non esiste se non attraverso tali manifestazioni frammentarie e chiuse in cui ciascuno la realizza per conto proprio, nella solitudine, e questo è tutto. Vale a dire che l’universalità, la comunità della vita si nega da sé, dandosi a ciascuno come un semplice fuori, un’esteriorità che gli permane estranea, un Altro: c’è una pluralità d’uomini. Ma giustamente è ciascuno, comunemente, che deve assumere la propria vita, senza comune misura con gli altri, per conto proprio: l’universale è immediatamente recuperato. In questo senso la vita verrà definita come complicità, in opposizione alla squadra. La squadra in effetti è la realizzazione di un mondo comune, in cui l’universalità non può essere compromessa o frammentata, e tale che, nel corso stesso di questa realizzazione, la sostituzione dei suoi membri gli uni con gli altri sia, a prescindere, una cosa possibile, indifferente. Tale è la scienza, dal lato dell’oggetto del pensiero. O la filosofia dal lato del soggetto pensante. In entrambi i casi però, si tratta ancora di una squadra morta, teorica e non pratica, speculativa. La sola Squadra vivente è quella di Dio. E questo perché non c’è che un Dio, il cui simbolo è il cerchio, figura perfetta e indifferente in cui tutti i punti si trovano alla stessa distanza dal centro. Nella complicità invece, c’è sì un mondo comune, ma ciò che ne fa una comunità è ancora una volta il fatto che ciascuno debba realizzarlo, senza comune misura rispetto agli altri, per conto proprio, e senza sostituzioni possibili. È chiaro che la nascita, l’amore, il linguaggio o la morte, tutte le principali realtà umane presentano questa fisionomia: sotto il segno della morte, ciascuno esiste in quanto unico e insostituibile. È esattamente questa l’universalità della morte: allo stesso modo, è vita quella realtà dove l’universale e la sua stessa negazione formano una cosa sola.

Il proprio della complicità è precisamente il fatto che essa possa essere ignorata, negata, tradita: il termine «ciascuno» nega così a tal punto l’universale nel momento in cui lo afferma, che potremmo essere sensibili solo a questo aspetto negativo. Il problema dell’uomo consiste quindi nel passare da uno stadio di complicità latente, ignorante, a una complicità conscia di sé affermativamente. Il punto non è certo amare come fanno tutti, ma amare come nessuno fa. Era proprio ostinandosi nella propria individualità, che il vivente si affermava come universale. Chiudendosi in se stesso e ponendo l’universalità della vita come un’esteriorità, egli non si rendeva conto che l’universale, di fatto, lo interiorizzava: egli lo realizzava per proprio conto, definendosi come microcosmo. Il primo scopo della mathesis è quello di assicurare questa presa di coscienza del vivente nei suoi rapporti con la vita, e fondare così la possibilità di un sapere relativo al destino individuale.

A partire da una complicità puramente naturale e incosciente, in cui ciascun individuo si pone unicamente come opposto agli altri e più generalmente all’universale, si tratta di passare a una complicità conscia di sé, in cui ciascuno si comprende come «pars totalis», in un universo già in via di costituzione. In altre parole, la federazione. È ciò che il traduttore di quest’opera, Ostrowski, ha notato in maniera assai singolare: «Nel momento in cui la vecchia Germania cerca di ricostruire la propria unità federativa (1849), perduta da secoli e che finirà probabilmente per ritrovare nella nostra, è interessante analizzare gli sforzi compiuti da questo popolo di arditi pensatori, per riportare la scienza all’unità come ad un proprio punto di partenza originario, un proprio centro comune». Si trattava di una federazione come definizione della vita, e non di un’unità fondata sul culto della forza.

Come vediamo dunque l’unità viene realizzata al livello dell’uomo concreto: lungi dal trascendere la condizione umana, essa ne è la descrizione esatta. Semplicemente, bisogna rimarcare che tale descrizione deve porre l’uomo nei suoi rapporti con l’infinito, con l’universale. L’individuo esiste solo quando nega l’universale: ma nella misura in cui la sua esistenza si riferisce alla pluralità, questa negazione viene operata universalmente, nella forma esaustiva propria a ciascuno, risultando così solamente la modalità che ha l’uomo di affermare ciò che essa nega. Questa modalità l’abbiamo definita come una complicità cosciente. È questa l’iniziazione. Non c’è nulla di mistico: essa è il pensiero della vita, e l’unico modo possibile di pensarla. Il suo mistero sta nel fatto che ognuno deve trovare per proprio conto il sapere che essa rappresenta. L’iniziato è l’uomo vivente nei suoi rapporti con l’infinito. E la nozione-chiave della mathesis, niente affatto mistica, è che l’individualità non si separa mai dall’universale, e che tra il vivente e la vita c’è lo stesso rapporto che intercorre tra la vita come specie e la divinità. Così, la molteplicità degli esseri viventi, che si conosce come tale, si riferisce all’unità, la quale viene delineata in cavo, semplice disegno del cerchio attraverso l’ellisse. Dobbiamo prendere Malfatti alla lettera quando ci rammenta che il cerchio e la ruota rappresentano Dio: «La mathesis sarà per l’uomo che si relaziona all’infinito ciò che la locomozione è per lo spazio».

La mathesis non è dunque né una scienza né una filosofia, è altro: un sapere della vita. Né studio dell’essere né analisi del pensiero. Anzi l’opposizione tra pensiero ed essere, tra filosofia e scienza appare in essa illusoria, priva di senso, una falsa alternativa. La mathesis si situa su un piano in cui vita del sapere e sapere della vita coincidono.

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Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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