Esercizio di memoria – Genova 2001
di Marco Mancassola
Non pensavo di avere tanti ricordi di quei giorni a Genova. Un pomeriggio mi sono seduto e ho iniziato a scriverli. Venti anni di distanza sembrerebbero sufficienti per sbiadire la memoria, ma i ricordi erano lì e uno a uno sono affiorati quasi docilmente.
All’inizio è riemerso il rumore delle bottiglie di plastica che i manifestanti grattavano contro le reti di metallo della zona rossa. Era un rumore simile a un enorme concerto di cicale, un modo per farsi sentire dall’altra parte e protestare contro le recinzioni che spaccavano in due la città. Poi nella memoria sono comparsi i violenti idranti con cui dall’altro lato la polizia iniziò a respingerci. E poi l’acqua (molto più benevola) che i genovesi ci lanciavano dalle finestre, per rinfrescarci e dissetarci, mentre noi sudavamo nelle strade assolate. Una signora dal balcone ci innaffiava con una canna da giardino e intanto teneva d’occhio le strade vicine, per avvertirci se arrivavano camionette della polizia.
Quindi nella memoria è comparsa la segatura, asciutta, polverosa, usata per coprire la macchia lasciata sull’asfalto dal sangue di Carlo Giuliani. La gente deponeva biglietti e lumini accesi. La calma desolata in quella piazza, il giorno dopo la sua morte, anche mentre intorno si scatenava l’inferno.
Ai corsi di scrittura propongo spesso questo esercizio: scegliete un luogo, un periodo, una situazione del vostro passato. Chiudete gli occhi, respirate a fondo, e tornate là. Iniziate a scrivere quel che ricordate. Le immagini, le voci, gli odori, i dettagli sensoriali, le percezioni del corpo, gli episodi importanti o minimi, tutto ciò che ha lasciato un graffio sulla tavola della memoria. Continuate a scrivere finché avete ricordi. È un esercizio in apparenza innocuo ma che a volte diventa un’indagine profonda, creando associazioni e catene impreviste di ricordi.
La rievocazione acquista allora un’intensità inattesa. Come qualcosa che pensavamo di guardare attraverso un vetro protettivo e che invece, a un tratto, ci colpisce duramente in faccia.
I ricordi di chi era a Genova nei giorni di quel G8 (da giovedì 19 luglio a domenica 22 luglio 2001 – un micromondo di quattro giorni, ognuno con le sue specifiche memorie) compongono di solito una scala di gradazioni del trauma. Da chi scampò alle violenze peggiori ma dovette nascondersi dai picchiatori in divisa nei vicoli e fra i cassonetti, ai ricordi di chi fu pestato, sequestrato e torturato.
In mezzo, in realtà, ci sono anche schegge di memorie luminose: il grande corteo dei migranti del giovedì, festoso, rumoroso, i suoi cori ingigantiti dall’eco dei sottopassaggi. La serata di musica con cui si concluse al campo del Social Forum. Al tendone-ristoro c’erano cesti di mele gratuite, e nella mia testa resta l’immagine di gente euforica che mangia mele, senza sospettare quel che avrebbe vissuto dal giorno dopo.
Oppure, la telefonata orecchiata il mattino dopo in un negozio di alimentari: il gestore aveva tenuto aperto nonostante gli allarmi dei media, e ora al telefono raccontava stupito che questi no-global non erano come dicevano i giornali, erano pacifici e amichevoli e gli stavano facendo fare buoni affari.
Persino la città rimodellata da reti e sbarramenti di container Evergreen, pur avendo un ovvio aspetto distopico, offriva delle apparenti oasi. In certi angoli, che sembravano quasi offrire un riparo, comparivano i membri del Living Theatre e improvvisavano performance.
La sera del giovedì si concluse con un temporale. Mentre camminavo fradicio verso la casa dove sarei stato ospite mi persi. Era notte e le strade adesso erano deserte, spazzate dal diluvio; qualunque via prendessi mi conduceva contro le inferriate della zona rossa, dove guardie imbacuccate e armate di mitra mi guardavano con gli occhi socchiusi, chiedendomi mutamente che ci facevo lì.
Che ci facevo lì? Una cosa notata negli anni è che chi racconta di essere stato a Genova sembra sentire anzitutto l’urgenza di spiegare perché ci andò, come servisse una giustificazione. Ero lì da simpatizzante dei movimenti e da osservatore; avevo un vago progetto di scrivere un pezzo e di riprendere i cortei con una videocamera avuta in prestito (le mie videoriprese le avrei poi lasciate a Radio Sherwood, che nei giorni successivi fece un appello per raccogliere materiali video sui fatti di Genova, ma non credo servirono a molto: mostravano soprattutto nuvole di lacrimogeni, immagini mosse prese scappando dalle cariche, registrazioni di grida concitate).
A Genova confluirono persone diverse, gruppi diversi, gradi di politicizzazione diversi, la famosa moltitudine di cui si parlava allora: ecologisti, sindacalisti, centri sociali, cattolici, pacifisti… Membri di associazioni e cani sciolti come me. A tenerci insieme era lo slogan che tutti urlavamo, un altro mondo è possibile. E in realtà, non serviva altra giustificazione per la nostra presenza oltre al bisogno di gridare insieme quella frase. Soltanto negli anni, credo, mi sarei reso conto di quanto quello slogan fosse impellente, utopico, necessario, e sovversivo alle orecchie dei poteri economici e politici di quell’inizio di millennio.
Del venerdì, ricordo che il cielo era tornato di un sereno accecante. Ricordo il gruppo di Socialist Workers inglesi cui mi unii la mattina, re-sist, re-volt, fuck-Ber-lusconi. Il momento in cui procedendo sulla strada intrecciammo le braccia e la pelle degli altri scottava di sole; poi quello in cui tutti si tirarono la bandana sul naso, intuendo l’arrivo dei lacrimogeni.
La prima carica di manganellatori (avevo visto altre cariche della polizia nella mia vita, ma non sembravano così furiose e avevo sempre pensato, ingenuamente, che bastasse tenersi lontani dagli scontri per essere al sicuro), il rumore di passo militare, i tonfi sui corpi colpiti come sacchi, i versi senza controllo provenienti da picchiati e picchiatori.
L’istinto puro e animale di fuggire, i poliziotti bardati come androidi neri che ci inseguivano gridando comunisti di merda, vi facciamo il culo vi facciamo il culo. E la parte ottimista di me che ancora cercava di razionalizzare, pensando che ci avevano caricati e inseguiti per sbaglio, ci avevano scambiati per manifestanti violenti.
Poi il ragazzo e la ragazza insanguinati (lui sembrava avere il naso spaccato) in cui incappai più tardi, le voci rotte con cui raccontavano di essere stati fatti salire a forza su una camionetta della polizia mentre camminavano tranquilli per strada, malmenati e minacciati di morte e poi sbattuti fuori dalla camionetta che era sgommata via. Io e gli altri che si erano fermati ad ascoltare ci guardavamo, dapprima increduli. In quel momento, fra la tarda mattinata e il primo pomeriggio del venerdì, credo che in punti diversi della città molti stessero realizzando che era in corso qualcosa di anormale, di enorme, di mostruoso; che le strade di Genova erano diventate un terreno di caccia con licenza libera, un parco a tema del tipo “pesta la zecca”.
Un altro esercizio classico di scrittura e memoria è quello di descrivere una personale madeleine proustiana. Come nell’episodio della madeleine di Proust: un’esperienza o sensazione che ci trasporta indietro nel tempo, a quando nel passato incontrammo quella stessa sensazione o una di simile. La madeleine apre una specie di tunnel temporale, attraverso il quale andiamo a visitare il ricordo e il ricordo, implacabile, visita noi.
Rispetto ai giorni di Genova, la mia madeleine più implacabile rimane il rumore di elicottero. Da vent’anni, il suono casuale di qualsiasi elicottero mi fa tornare ai giorni di quel G8, un’associazione così immediata che sembra diventata parte del mio sistema nervoso.
Gli elicotteri a bassa quota che incombevano sulla testa, senza sosta, giorno e notte, il rumore ossessivo che batteva nello stomaco; gli agenti che da là sopra a volte ci riprendevano con videocamere, altre volte ci facevano il dito (un’immagine che sarebbe quasi ridicola se non si affiancasse, nella mente, a quello che i loro colleghi stavano facendo in quel momento nelle strade e alla caserma di Bolzaneto); l’elicottero che si piazzò sopra di noi, il venerdì sera, mentre nello spiazzo del Social Forum si teneva un’assemblea d’emergenza, con l’ovvio intento di impedirci di parlare.
C’è anche una “anti-madeleine”, in verità: una sensazione che non capita di ritrovare nella vita quotidiana, non può essere ricordata da sensazioni somiglianti, ma la cui traccia riaffiora talvolta dal nulla. È il sapore alieno del CS, l’arma chimica dagli effetti mutageni (provoca cambiamenti genetici) di cui furono sparate oltre seimila cartucce addosso alla gente. (Assieme al CS fu usato il CN, dagli effetti co-cancerogeni.)
Il sapore-odore di quel gas ha qualcosa di indefinibile, non può essere ricordato a comando, ma a volte il cervello lo risputa dagli archivi olfattivi della memoria e allora sembra impregnare ancora, per un attimo, le mucose del naso e della gola.
Ora le immagini si fanno più sporadiche, confuse, e riguardano soprattutto la giornata del sabato, che nella mente resta un’allucinazione tossica e bianca: la prima volta che un candelotto mi atterrò fra le gambe e lo guardai quasi affascinato, come fosse un piccolo UFO ferito. Il rantolo metallico con cui i candelotti colpivano l’asfalto, la pioggia incessante in cui arrivavano, i bozzoli di alluminio che brillavano al sole. Quello che afferrai per allontanarlo, lanciandolo verso il lungomare, ustionandomi stupidamente la mano. La patina bianca che il gas lasciava a terra. La testa che pulsava, le schiene che tossivano, la gente che si reggeva ai muri in preda a nausea e vertigini. E le allergie e le dermatiti misteriose degli anni successivi, la “sindrome di Genova” segnalata anche da tanti altri. (Edoardo Magnone, chimico dell’Università di Genova, scrisse della “più grande operazione di guerra chimica in tempo di pace che si sia mai verificata in Europa”.)
Mentre scrivo, certi ricordi tornano netti, sempre più a fuoco. Altri hanno i contorni e la logica di un sogno strano, assurdo, disordinato:
i tamburi, che parevano usciti da un negozio di giocattoli, con cui i presunti anarchici vestiti di nero facevano le loro marcette, mentre i manifestanti si tenevano a distanza. Non ricordo molto altro di quei tipi vestiti di nero, soltanto i loro ridicoli tamburi. E le carcasse fumanti delle auto incendiate.
I pacifisti che avanzavano con le mani cosparse di gesso bianco; quelli che si scrivevano addosso con i pennarelli la parola “FRAGILE”, sulle magliette, sulle braccia nude, sulle gambe; i manifestanti accerchiati con le braccia alzate che ripetevano “pace, pace”, i poliziotti che sputavano loro addosso. L’uomo di mezza età (avrà avuto l’età che ho io adesso) che camminava in stato confusionale, la faccia lavata di sangue, implorando “basta”.
E i telefoni che non prendevano a causa del grande assembramento (altri tempi, le reti mobili andavano in tilt), i messaggi che arrivavano con ore di ritardo, rendendo impossibile ritrovare gli amici persi nel caos; la paranoia di pensare che fossero feriti, che fossero morti; il continuo ritrovarsi e perdersi, il riunirsi e disperdersi della folla sotto la pioggia di lacrimogeni, l’alternarsi di un potente senso di comunità e di uno di solitudine gelida, terrorizzante.
A cosa serve un esercizio di memoria?
Negli anni subito dopo i fatti di Genova, la memorialistica di chi era stato là diventò quasi un genere: alcuni ricordi tornavano nei resoconti di molti, altri sembravano più personali. Tutti i racconti si ponevano come testimonianza, un contributo all’inchiesta collettiva su ciò che era successo. E il lato di inchiesta era la priorità. Si ponevano ovviamente anche come polizza anti-oblio; in un messaggio a un gruppo teatrale Haidi Giuliani citò Milan Kundera: “La lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio”.
In anni più recenti si è aperto infine uno spazio ulteriore, quello per fare dei conti più interiori, psichici, generazionali, per incastonare i ricordi non solo nel necessario sforzo di ricostruzione e conservazione dei fatti, ma nella storia di ciò che siamo diventati.
L’esercizio di memoria serve anche, per alcuni, banalmente ad aprire il cancello della memoria, darsi il permesso di ricordare. Sembra strano, ma nonostante i fatti di Genova siano stati per anni un tema così discusso, molti di coloro che erano là – anche questa una cosa osservata nel tempo – sono rimasti reticenti a parlarne. Non ne ho quasi più parlato con le persone che conosco e che erano là. Forse una reticenza dovuta al trauma, o forse al contrario alla mancanza di trauma estremo (in fondo fummo abbastanza fortunati da non subire le atrocità di Bolzaneto, da non finire in coma o con le ossa fratturate come chi si trovava alla Diaz).
Forse era dovuta a un misto di amarezza, di rabbia, di timore di scadere in facili retoriche, o all’impressione che altri avessero già raccontato le cose più importanti.
Io provavo anche una forma di imbarazzo, credo, nel ripensare al me stesso che si aggirava stranito per quelle strade, in quei giorni, e al fatto che solo nelle ore successive, nei giorni, negli anni, avrei realizzato in pieno cosa mi era successo intorno. Ero tornato a casa, come molti, sentendomi segnato, come invecchiato di anni nel giro di pochi giorni, e questo si portava dietro un peso tutto suo. Inoltre, c’era un imbarazzo ulteriore, che definirei un imbarazzo storico, nel chiedermi cosa ne avevo fatto infine di un’esperienza del genere, e cosa ne aveva fatto la mia generazione.
L’anno dopo ci ritrovammo al Social Forum Europeo di Firenze. Quello dopo ancora, alle marce contro la guerra in Iraq. Qualcosa però si era perso. La narrazione tipica di quegli anni ci dice che il doppio colpo della repressione poliziesca a Genova e dello shock globale delle Torri Gemelle spezzò lo slancio dei cosiddetti movimenti no-global. Dopo l’11 settembre, a un tratto sembrò più difficile affermare che un altro mondo era possibile; l’opinione pubblica che aveva ascoltato con interesse i movimenti si ritirò in una nuova fase di paura.
Eppure, quello che fu gridato a Genova era un messaggio di forza eclatante. Al di là della moltitudine delle esperienze, delle analisi e delle controversie che sarebbero seguite a quei giorni, a Genova si riunì una generazione che osava mettere in discussione il principio supremo del neoliberismo: l’idea che non esistevano altre opzioni, nessun altro mondo possibile, una dogmatica mancanza di alternative che Mark Fisher, anni dopo, avrebbe chiamato realismo capitalista.
Era un movimento che non credeva al feticcio della crescita infinita né alla presunta “fine della storia”. Un altro mondo è possibile. Non fu certo l’ultimo movimento di protesta, ma fu l’ultimo con un messaggio compiutamente utopico, almeno secondo le categorie novecentesche con cui eravamo cresciuti; prima che il concetto stesso di futuro entrasse collettivamente in crisi, e quello di catastrofe diventasse una realtà concreta a cui adattarsi.
La cultura poliziesca più sadica e fascista che trovò espressione a Genova di sicuro non agiva sulla scorta di queste considerazioni, ma il crudo simbolismo di quello che accadde fu chiaro.
Nella mia storia di persona cresciuta negli anni Ottanta e Novanta, l’utopia e la distopia non si erano mai affrontate in modo così diretto, sotto i miei occhi, come su quelle strade. Ma l’utopia si mostrò e la distopia la massacrò. La distopia aveva i manganelli tonfa, le cartucce di gas sparate ad altezza uomo, il potere di sospendere i diritti democratici e umani; aveva licenza di fare quel che voleva, poteva spezzare le costole e i denti alla gente, arrestarla e farla sparire nel nulla per giorni, costringere le persone trattenute nelle caserme a inneggiare a Pinochet.
Negli anni successivi il mondo diventò quello che i movimenti di allora avevano temuto: tragicamente, fu dimostrato quanto avessero avuto ragione. Le disuguaglianze spinte a livelli grotteschi, le crisi planetarie sfruttate a proprio vantaggio da un capitalismo rapace, le nuove tecnologie usate per concentrare sempre di più il valore e riorganizzare in modi disumani il lavoro. L’irreversibile catastrofe climatica e ambientale che esplodeva sotto i nostri occhi.
È attraverso questi eventi degli ultimi vent’anni che ci volgiamo indietro e, come attraverso un vetro annebbiato e crepato, rivediamo quella generazione, quei giorni di un luglio assolato, quelle ore di protesta e massacro.
Per questo continuo a setacciare in quel grumo di ricordi. C’è un giovane uomo con gli occhi arrossati dal gas, una videocamera in mano che non sapevo nemmeno usare, la maglietta che odorava di sudore e CS. La cosa più difficile da ricordare, ora, attraverso il vetro crepato, è la sensazione che provavo nel credere in quel messaggio. La possibilità di un altro mondo. Poi il vetro si fa nitido fino a scomparire: è il potere degli anniversari, e di certi esercizi di memoria. Farci dire qualcosa da quello che siamo stati. E allora ricordare, sentire che credevo davvero in quel messaggio. E ricordare che venti anni dopo l’unica possibilità di salvezza, nonostante gli strati di cinismo accumulati, nonostante sembri troppo tardi, nonostante sembri impossibile, è crederci ancora.
Immagine di copertina: Genova, 20 luglio 2001. Di Ares Ferrari, da: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Genova-G8_2001-Scudi_disobbedienti.jpg
Grazie per questo testo
Grazie, serve a capire meglio…
Splendido pezzo di un magnifico autore. Peccato che La vita erotica non si trovi più in libreria: è un grande romanzo (come i racconti di Non saremo confusi per sempre, per fortuna recentemente ristampati). Di Mancassola mi aspetto da tempo un altro romanzo all’altezza de La vita erotica dei superuomini (ma non è facile). Grazie per questo pezzo; ai tempi del g8 ero un bambino…
Sì ricordare nonostante gli strati di cinismo. Grazie Marco
A.
Grazie