“Il diavolo in corpo” di Radiguet: il caso letterario degli anni ’20 in una nuova traduzione
di Ornella Tajani
[Questa recensione è apparsa su L’Indice dei libri del mese di maggio 2021]
Miope, selvatico, taciturno ai limiti della scostumatezza, annunciato dalle cameriere degli amici come «un bambino con un bastone da passeggio», l’andatura così saltellante da far pensare che i marciapiedi gli diventassero elastici sotto i piedi, e per giunta con un taglio di capelli perennemente sbagliato: Jean Cocteau descrive con alcuni di questi tratti l’amico Raymond Radiguet, giovanissimo autore da lui supportato, ammirato e amato al punto da dedicargli un articolo dal titolo «Cet élève qui devint mon maître». Radiguet possiede la qualità che Cocteau apprezza più di tutte: «Non somigliare a nulla. Non somigliare a nessuno. Non c’è lode che mi colpisca di più». La battuta è dell’eccentrica regina protagonista della pièce cocteauiana L’aigle à deux têtes, ma è l’autore a esprimere il proprio gusto attraverso le parole del personaggio: nel capitoletto dedicato a Radiguet in La Difficulté d’être, Cocteau scrive infatti che le poesie di questo enfant prodige non somigliano a nulla, nulla le sostiene; l’opera di Radiguet possiede «le tact suprême, la solitude des mots, l’épaisseur du vide, l’aération de l’ensemble», dove per aération si intende specificamente la capacità di instillare una fantasia libera e personalissima in un testo letterario.
Esiste un’aura mitologica intorno a Radiguet piuttosto simile a quella del precedente e più celebre prodigio Rimbaud: entrambi alla ribalta della scena parigina da adolescenti, protagonisti di una parabola letteraria luminosissima, esauritasi, in termini produttivi, nel giro di pochi anni. Sebbene il lascito poetico ed estetico del poète voyant non sia paragonabile a quello dell’étrange éphèbe autore di Le Diable au corps, va rilevato che entrambi sono stati, in maniera diversa, anime foriere di cambiamento. Come nota André Guyaux, il «catalyseur d’identité» che era Rimbaud per Jean Cocteau, primigenia immagine di angelo maledetto inseguito e rappresentato per tutta la vita, trova in Radiguet la sua prima incarnazione. Questa fusione di realtà e ideale si cristallizza in modo paradigmatico in un testo del 1920, pubblicato sul Coq parisien, dal titolo Une soirée mémorable, in cui Cocteau e Radiguet si divertono a distruggere e reinventare il componimento Entends comme brame di Rimbaud: la riscrittura pastichée diventa qui un esercizio cannibalistico di appropriazione, una pratica dal gusto goliardico che ricorda non poco i giochi della coppia Rimbaud-Verlaine.
Che cosa, in Radiguet, seduce tanto Cocteau? Sicuramente la sua libertà assoluta, la refrattarietà a seguire le mode letterarie o a farsi imbrigliare in qualche schema: ringiovanendo e dando nuovo smalto a vecchie formule, Radiguet gli insegna che non bisogna opporsi alle abitudini o allo spirito borghese, ma andare oltre e opporsi all’avanguardia; che bisogna copiare, perché copiando ci si dà la base che consentirà lo sbocciare di un’originalità autentica, non voluta, non ostentata né manierata. Ciò che gli sta a cuore è un rinnovato classicismo, di portata scandalosa rispetto alle effervescenze dadaiste e surrealiste, perché soltanto «une attitude d’apparence conformiste pourrait (…) dérouter les esthètes et devenir la véritable anarchie». Per Radiguet, «le mécanisme d’un chef-d’œuvre est invisible».
Una simile affermazione trova conferma nel suo titolo più celebre, Il diavolo in corpo, appena riedito da Bompiani nella nuova e bella traduzione di Yasmina Melaouah. Di questo libro Cocteau scrive che è il romanzo della promessa, mentre solo il successivo Le bal du comte d’Orgel sarà l’opera delle promesse mantenute. I due testi escono a breve distanza l’uno dall’altro: il primo nel 1923, lo stesso anno in cui l’autore muore a soli vent’anni; il secondo, postumo, nel 1924. È in occasione dell’uscita del Bal che Cocteau stabilisce un simile paragone, nel momento in cui, probabilmente ancora sconvolto dal dolore del lutto, sta cercando di promuoverlo; non è però convinto di tale superiorità letteraria, poiché, nelle numerose volte in cui tornerà sull’opera dell’amico, sarà del Diable che dirà meraviglie. «Ses romans, surtout, à mon estime, Le Diable au corps, phénomènes aussi extraordinaires dans leur genre que les poèmes de Rimbaud», scrive ancora nei saggi critici raccolti in La Difficulté d’être.
Se è vero che il meccanismo di un capolavoro opera in maniera invisibile, nel Diavolo in corpo Radiguet riesce a muovere i fili dell’intreccio con straordinaria delicatezza: l’io narrante offre il proprio essere in tutta la peculiarità dell’adolescenza, quasi che sia questa la reale protagonista della vicenda, e lui soltanto un agente del dio della letteratura; lo conferma il fatto ch’egli resta senza nome per l’intero romanzo, e sembra dunque incarnare la personificazione di un’idea piuttosto che un individuo completamente definito (si chiamerà invece François nella versione cinematografica del ’47 firmata da Autant-Lara; un ulteriore adattamento, decisamente molto libero, sarà il Diavolo in corpo di Bellocchio dell’86). I suoi moti d’animo, le pulsioni sensuali, le gelosie e gli egoismi prorompono sulla pagina nella maniera meravigliosamente inconsapevole di questa età della vita, in cui si è pronti ad afferrare tutto ciò di cui si ha voglia e in cui si scopre solo con considerevole ritardo che si ama o che si sta soffrendo.
L’amore per Marthe, una ragazza più grande di lui, fidanzata e poi sposa di un militare in servizio durante la prima guerra mondiale, era ispirato a un’esperienza realmente vissuta da Radiguet – e stimolerà poi Cocteau, che scrive Le Grand écart nel 1922, mentre i due soggiornano al Grand Hôtel di Lavandou, in Provenza. Il protagonista sente da subito di essere trascinato in un’avventura «in cui un uomo fatto avrebbe provato imbarazzo», in qualcosa che è quindi en avant rispetto a sé e ai suoi anni: la grazia di questo romanzo sta nella maniera limpida, «classica», in cui Radiguet è riuscito a raccontare il vortice della vita che travolge un quindicenne alle prese con la passione – a descriverne l’inconsapevolezza, l’apertura a ciò che accade, il modo in cui il ragazzo osserva il suo cuore inesperto «come un parvenu osserva i propri gesti a tavola», e quella lucidità adolescenziale che è «solo una forma più insidiosa dell’ingenuità». È a questo che Cocteau si riferisce quando scrive che, nel Diavolo, sembra di leggere la storia di un animale o di una pianta che si raccontino; l’immagine gli piace così tanto che la riutilizzerà nel Grand écart.
Oltre che per la sbrigliata sensualità, nominata sin dalla prima pagina, il testo destò scandalo perché, all’indomani della guerra, quando ancora si contavano le vittime, descrive quegli anni come una serie di «ininterrotte vacanze» per chi era molto giovane, uno strano periodo in cui il narratore è colpito dalla «poesia delle cose» e si muove tra i paesaggi descritti come se il conflitto non esistesse: i paesini di provincia sulla Marna (quel fiume «talmente nostro che le mie sorelle parlando della Senna dicevano “una Marna”»), le campagne, Parigi sono appena sfiorati dalla vicende belliche, poiché il loro scopo sta innanzitutto nel far da sfondo all’intreccio amoroso; la Storia è messa da parte.
Le Diable au corps conta almeno una decina di versioni in italiano, un numero davvero elevato per un romanzo del genere, già indice dell’interesse costante verso l’opera più nota del «plus jeune romancier de France», nelle parole usate dall’editore Grasset all’epoca del lancio pubblicitario; il libro vendette più di cinquantamila copie in un mese. La traduzione di Yasmina Melaouah ha il merito di trasferire nella prosa italiana la limpidezza così fortemente voluta dall’autore, che nasce dalla sintassi, dalla concatenazione di frasi brevi e sapientemente congegnate: «efforcez-vous d’être banal» era uno degli imperativi più noti di Radiguet, laddove per banalità bisogna intendere l’«invisibilità» di cui sopra. Da un lato, rispetto ad altre edizioni che pure hanno avuto grande diffusione, come quella Garzanti a cura di Gian Piero Bona (1987), questa ritraduzione offre nuovamente al lessico la modernità che lo aveva caratterizzato alla sua uscita editoriale, modernità fatta dell’assenza di uno stile artefatto («avoir du style au lieu d’avoir un style», scriveva Cocteau in D’un ordre considéré comme une anarchie), restituendo naturalezza a espressioni della lingua parlata che si erano complicate nel passaggio all’italiano, o cancellando qualche svista di registro (come «dupe» tradotto con il popolare «minchione»); dall’altro, riconsegna al testo la struttura spesso articolata in paragrafi brevi all’interno di già brevi capitoli, talvolta costituiti da un’unica frase, come l’interrogativo «Dove dormire?» che il protagonista si pone durante la fuga notturna con Marthe, quasi una mise en abyme della «solitude des mots» già menzionata. Questa nuova edizione Bompiani costituisce dunque un’ottima occasione per leggere o rileggere Il diavolo in corpo godendo di tutta la sua «spontaneità» – una spontaneità forse accuratamente orchestrata, come rilevava Giovanni Macchia nel saggio che chiude Il paradiso della ragione, ma che ancora Cocteau non esitava a paragonare alle musiche di Georges Auric e Francis Poulenc.