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Et tournoie…

 

di Sharon Vanoli

 

«Sotto quelle cupole vaghi, come apprendista di luce ti affanni»
Anna Maria Ortese – Il porto di Toledo

 

«And with my opened mouth I join the singing light»
Son Lux – Flickers

 

Torna a casa dopo cena, ogni sera, quando ormai è buio e non ha più niente da fare, fuori. Entra dalla finestra, che lascio socchiusa – non per lei: per la voce dei bambini, giù in cortile, che giocano fino a tardi; per l’odore di pomodoro e di aglio, che raggiunge il mio balcone quando le donne dei primi piani iniziano a cucinare, e io sto andando a letto. Afferro un libro; mentre sfoglio le pagine, gli occhi mi si chiudono. Sento un fruscio, accanto al mio corpo, allora li apro: è tornata.
La guardo appena: mi osserva. In silenzio e senza giudizio: con amore. Ma non è me che ama. Nemmeno mi odia. Forse ignora il nostro passato, o l’ha dimenticato: non ricorda che l’ho cacciata io. Oppure, forse, è incapace di odiare – di odiare qualunque cosa, eccetto il buio. La osservo, ora, mentre si rannicchia sul fianco sinistro – come facevo anch’io, una volta – e tutta la luce diafana della sua figura tremola, insieme al respiro, di paura, a un ritmo così veloce che quasi pare in preda a convulsioni, questa luce. Io lo so: non desidera altro che addormentarsi in fretta, e che subito sia mattino. Lo so, io ricordo. La notte è morte; dormire, una violenza. 

Il dissenso tra noi è sorto, in origine, per una questione sensibile. Prima che mi trasferissi a T., due anni fa, ho sofferto di un duraturo calo di sensazioni. Mi dispiaceva alzarmi dal letto, leggere, mangiare. Il dispiacere stesso mi disturbava, perché debole, privo di vero impatto sui miei pensieri – mi raggiungeva da lontano, come tutto. In due parole: non sentivo. A una condizione simile non ero abituata. Sono sempre stata fortemente influenzabile – dalla luce, dai colori, dai suoni –, e questo era per me vivere, il mio modo di frequentare il mondo.
Se fosse dipeso da me sola, avrei aspettato il ritorno delle sensazioni, senza fretta. La noia dell’attesa, come tutto, non faceva in tempo a indolenzirmi che già l’avevo scordata. Eppure c’era una zona, dentro di me, che languiva profondamente, e si intestardiva, contro la mia volontà, a considerare il calo di sensazioni e le sue conseguenze – quel profondo languore – come un fatto della massima serietà. C’era una voce, impaziente e febbrile, che qualche volta mi diceva: “Senti come pulsa, questo sentimento di urgenza”. Oppure: “Non posso sopravvivere a un altro giorno così, non-possiamo-più-aspettare”. 

Quando vidi la città di T. per la prima volta, una sera di marzo, il cielo era scuro, come nel luogo da cui venivo; era coperto, e quindi basso. Non dava spazio ai pensieri, e questo era bene, a detta del torpore: non voleva pensare. La zona di languore, invece, dentro di me, ebbe come un sussulto, per un attimo, mentre trascinavo le valigie lungo un ciottolato a dislivelli, in salita.
Il mio nuovo appartamento era nei toni del grigio: pareti grigio ardesia, piastrelle grigio antracite; persino la trapunta del grande letto al centro della stanza aveva uno sfondo grigio, sul quale spuntava un ricco motivo che a un primo sguardo, nell’ombra, mi era parso astratto. Poi accesi la luce, e per la poca confidenza con l’interruttore subito la spensi di nuovo, cosicché per un solo istante vidi apparire, sul tessuto del letto, i fiori e le foglie che lo rivestivano. Per un solo istante vidi, sotto la luce fredda e bianca del lampadario, quei fiori d’arancio salire, dallo sfondo grigio, come un assalto di colore – colore forse arrabbiato, perché sorpreso, nel buio, dal mio ingresso nella stanza, con quella luce gelida che veniva dal soffitto, e che aveva abbagliato anche me. Pensai a questo, immobile sulla soglia, ma fu un attimo prima che la scena tornasse nera e nascosta. A quel punto, ripresi a perlustrare la nuova casa.
Il giorno seguente mi svegliai, a T., con un cielo già chiaro alle sei del mattino. Avevo fretta di familiarizzare con le strade della città, che sapevo contorte, elusive; così mi preparai svelta e uscii. Non c’era ancora movimento, per le vie, salvo qualche lavoratore silenzioso. Eppure percepii – nei ciottoli, sulle facciate – un calore, una frenesia crescente, come se il mondo delle cose fosse invece sveglio, e quindi vivo. Mentre camminavo lungo i marciapiedi stretti e storti, in continua discesa, guardavo le pareti scrostate dei palazzi, già illuminate dal sole, e, non so perché, immaginai di sentirle chiacchierare, pigre ma allegre, soltanto tra loro, e darsi il buongiorno, noncuranti di noi passanti, giù in fondo, risucchiati dai vicoli. Portai con me questa fantasia per diversi chilometri; intanto cercavo, nella memoria, una frase di poche parole, che avevo letto in un romanzo molto tempo prima – in un periodo della mia vita anteriore al calo di sensazioni – e che ricordavo piena di suggestioni. “Disperdere, dispiegare…”, ripetevo tra me, senza mai riuscire a concludere. Intanto, sovrappensiero, avevo raggiunto il centro storico.
Lo attraversai più volte, incurante della direzione, e non badando al fatto che mi perdevo, a ogni passo, e non avevo idea di dove fossi. Una sola cosa seguivo che continuamente si spostava, saliva e scendeva tra i ciottoli, le finestre, le insegne sporgenti dei negozi, e le bancarelle di libri usati che i venditori cominciavano proprio allora a trasportare all’esterno dei locali – la luce. La seguivo, e non capivo – la mia gioia di seguirla, né lo spazio intorno a me: un vicolo era cupo, angusto, come avvolto in se stesso, e un attimo dopo, ecco che la luce vi si riversava dentro, come una piena, trasfigurandolo tutto; oppure lo tagliava in due, e io dal marciapiede in ombra vedevo le facciate, sull’altro lato della strada, improvvisamente dorarsi. Mi piacque, poi, durante tutta quella mattina, capitare per caso in una delle numerose piazzette che decorano il centro di T. Lì, la luce poteva creare potenti e maestosi abbagli gialli, che io osservavo, girando su me stessa, con gli occhi lucidi per il dolore del sole.
Tornando verso il mio appartamento, in capo a qualche ora, quasi correvo, lungo le scalinate che non finivano mai, nonostante la pesantezza alle gambe e il sudore sul viso. L’euforia mi bruciava nel sangue. O forse non era il sangue. Era un’altra zona, dentro di me, che gioiva profondamente. E rumorosamente, perché a un certo punto la sentii dire, molto scossa: “L’ho trovata.”
E io: “Che cosa?”
“La frase che cercavi.”
“Sentiamo.”
“Dispiegare in luce i muri.”
“Non era proprio così”, risposi, dopo averci un po’ riflettuto.
“Non importa. Così è più bella.” 

Molti mesi trascorsi a T. in quella smania di luce. Non c’era niente, per me, di più esaltante che scorgere, tra le fessure delle ante, l’infiltrazione dei raggi che annunciavano l’arrivo del mattino.
Non potevo soffrire l’obbligo del sonno, della notte. Così dormivo poco e male, irrequieta; continuamente rigirandomi sotto i fiori accesi della mia trapunta. Mi sembrava di sentirli ondeggiare, intorno al mio corpo, boccheggiare. Forse erano irrequieti, anche loro. Come me, aspettavano il mattino.
Per tutto il giorno camminavo ed era chiaro che avevo la febbre – lo avvertivo nello sfinimento delle gambe che, tuttavia, come isteriche, non si fermavano mai. Avevo la febbre: di sensazioni.
Camminavo, e nient’altro. Le vie del centro mi piacevano in modo speciale. Ormai le conoscevo a memoria, ma somigliandosi tutte – strette e storte come i marciapiedi – non mi era difficile perdermi, se avanzavo distrattamente, o perdere di vista l’orientamento che avevo dato ai miei passi. In ogni caso finivano per portarmi, che lo volessi o no, nel posto che più di ogni altro preferivo: la piazza – circolare, relativamente ampia – che si apriva accanto al più antico monastero di T. C’era un tale silenzio, sopra a quei ciottoli chiari – e che emanava, forse, da quegli stessi ciottoli chiari, raccolti in preghiera sotto lo sguardo solenne della luce.
Quando mi lasciavo alle spalle il centro storico e riprendevo la strada del grande viale che collega quello al mare, mi dispiaceva la massa di studenti e lavoratori che nel frattempo – era ormai, in genere, tarda mattinata – aveva invaso la città. Avrei voluto avere T. solo per me, poter sfogare i miei eccessi di esaltazione, liberamente, e dare una festa per le vie, tra me e le mie sensazioni soltanto. 

Le ho chiesto di andarsene circa un anno fa. Leggevo su un tronco di albero caduto, ormai secco, in fondo all’unica spiaggia balneabile di T. Dal mare mi ero sempre tenuta a una certa distanza. Se nel corso delle mie passeggiate lungo la costa mi fermavo a osservarlo, per prendere fiato, resistevo qualche minuto appena, poi le gambe mi incalzavano a proseguire. Non potevo sostenere il suo sguardo – placido, indagatore. Non so come, giudicante. Sembrava volermi ricordare, ogni volta, la mia incapacità di stare calma, e ferma, senza smanie né febbre. Non sopportavo che mi scrutasse in quel modo, così andavo oltre.
Quel pomeriggio in spiaggia, tuttavia, ho desiderato che mi parlasse.
“Dimmi, potrò mai guarire?”, ho chiesto al mare.
“Da che cosa?”, il mare a me.
“Da questa malattia. La malattia della luce.”
Per molte ore abbiamo discusso. Scuotendo via i granelli di sabbia dalle scarpe, mi sono infine risoluta. Ho esortato quella zona dentro di me a unirsi alla conversazione. Mi sono schiarita la gola, un paio di volte; poi, guardando in terra, e testimone il mare, con tono fermo ho detto: “Devi andartene.”
Lei ha esitato, prima di rispondere; l’ho sentita tremolare.
“Non sei più felice con me?”
“No. Tu mi fai male.”
Credevo stesse esitando, di nuovo, in cerca delle parole giuste con cui replicare. Attendevo una reazione violenta. Sbagliavo. Nessuna risposta è giunta dall’interno. Quando ormai ero pronta a lasciare la spiaggia, e già sollevavo la mano per salutare il mare, l’ho vista. Così era uscita, infine, dal mio corpo. L’ho vista allontanarsi piano piano, fluttuando goffamente, e con grande debolezza, appena sopra la superficie dell’acqua. Non credo avesse mai volato prima di allora, ma presto ha preso confidenza con la sua nuova forma. Quando ha raggiunto l’altezza dei tetti, sulle cime dei palazzi della costa, la scorgevo ormai a malapena. Poco dopo, l’ho persa di vista. Così se n’è andata, al modo di un’ombra – la mia ombra di luce. 

Da un anno vivo sola, senza smanie né febbre. Ogni tanto vado ancora nel centro storico di T., non inseguo niente a parte gli acquisti da fare. Se avanza un po’ di tempo, mi fermo a sfogliare qualche libro tra le bancarelle all’aperto. Capita a volte che ci incontriamo, io e l’ombra. La vedo salire e scendere lungo le vecchie facciate, insieme alla luce – entrambe inesauste, come torrenti. Ma è un attimo, e sono già oltre.
Dopo cena, ogni sera, torna a casa. Io sono già a letto. Finché gli occhi reggono, leggo. Poi mi volto su un fianco e cado velocemente in un dormiveglia senza immagini. Lei tremola, dietro di me, fino al mattino.

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mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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