Totò Modo
Scherza con i fanti e, soprattutto, con i Santi…
di Gigi Spina
Avevo conosciuto Paolo Isotta al convegno napoletano Diagonale Totò, nel giugno 2017 (Atti non ancora pervenuti, purtroppo). Quando l’avevo visto elencato fra i relatori (io avrei parlato del latinorum di Totò), ero stato molto contento. Avrei finalmente stretto la mano a un critico musicale, professore, musicologo, autore di saggi eruditi e coinvolgenti … e tanto altro che, rarus nans o, se preferite, vox clamantis in deserto, scriveva ‘gli opera omnia’ e non, come quasi tutti, ‘l’opera omnia’, espressione che attribuisce a omnia (come una volta avevo segnalato a Michele Serra) lo statuto di aggettivo femminile, sinonimo di completa, intera, ragion per cui, sostenevo, avrei voluto essere omnio anche io. Mi presentai e glielo dissi, a Paolino – come l’avrei poi chiamato in questi quasi quattro anni, con privilegio di amico – che ero curioso di conoscerlo, proprio in quanto filologo classico. Il mio intervento gli piacque molto (vedi a p. 70).
L’ho pubblicato con qualche ritocco in una benemerita miscellanea, Compagni di Classici (2018), del Club di Cultura Classica Ezio Mancino di Torino, col titolo Il latinorum di Totò: castigat ridendo grammaticos, e poi l’ho portato in giro come conferenza, facendone addirittura uno spettacolo a Solofra con Enzo Marangelo.
http://luigigigispina.altervista.org/wp-content/uploads/2020/01/SpinaToto%CC%80.pdf
Mi sono soffermato su qualche dato autobiografico, spero non invadente, per giustificare perché mi senta doppiamente autorizzato a parlare del libro postumo di Paolo Isotta, San Totò, la cui Avvertenza risulta completata il giorno del suo settantesimo compleanno, 18 ottobre 2020 (p. X). Paolo Isotta è morto il 12 febbraio 2021 (giorno, 110 anni prima, della nascita di mio padre, Francesco).
Il libro, un libro di devozione, che mancava, in questa esplicita veste, nella ricca bibliografia totoiana, è stato scritto «in ricordo del mio Papà, che per primo mi portò per mano a vedere i films di Totò e mi raccontò di lui a teatro». Devozione per il padre, che gli trasmise la devozione per Totò, attraverso un contatto diretto con i films (rispetto le ‘fissazioni’ linguistiche di Isotta), ma soprattutto attraverso i racconti sul teatro di Totò, le vere fondamenta della sua arte somma. L’educazione totoiana è dunque antica e si imprime in Isotta sin da ragazzino.
Isotta è stato un critico implacabile come un estimatore senza mezze misure. Dalle nostre parti, in Campania, si dice: ‘dove vede e dove ceca’. E Isotta era così: se approvava, lo faceva ai massimi livelli; se criticava, lo faceva distruggendo. Ne hanno fatto le spese in molti e molte, fra cantanti, musicisti, direttori d’orchestra, politici e intellettuali (un esempio: la citazione non proprio lusinghiera, forse imperdonabile, di Sandro Pertini, pp. 45-46). Con Totò, la cui qualifica di Santo aveva preso in prestito da Federico Fellini, ma anche visto certificata, per così dire, da chi si recava a pregare sulla tomba del Principe, Isotta si sentiva al riparo da ogni possibile miscredenza:
«Per me Totò è un Santo: per l’altezza della sua arte, per la gioia da lui per decennî donata a milioni di persone: gente del popolo, piccola borghesia, poi persino alta, ma anche autentici reietti. Per essere riuscito, con la risata che suscitava, a far per un attimo dimenticare a tutti, non solo ai reietti, le loro tragedie. E, incredibile, per essere l’idolo dei ragazzi di ogni ceto, da molte generazioni. Affatto disgiunti dalla realtà storica e sociale che aiutò a generarne l’arte, vedono i suoi films e pronunciano le sue battute, entrate misteriosamente nel loro gergo» (p. VIII).
Il libro di Isotta nasce da questa devozione, espressa senza alcuna remora.
Erano da poco in libreria due nuovi volumi su Totò: La paura fa Totò. Le parodie thriller e horror del principe della risata, di Giuseppe Cozzolino e Domenico Livigni (CentoAutori 2020); e, di Emilio Gentile, Caporali tanti, uomini pochissimi. La Storia secondo Totò (Laterza 2020), anch’esso nato da una passione adolescenziale favorita dai genitori, ma forse non da una devozione. Isotta è andato avanti deciso nel suo atto d’amore (non credo avesse particolare curiosità di conoscere questi volumi), che non immaginava certo avrebbe suggellato la sua vita di studioso. Anche questo dato della sorte sembra paradossale: Isotta stesso, nell’Avvertenza, spiega bene perché, pur non essendo un critico cinematografico né uno storico del cinema, né un cinefilo, sentiva di poter parlare di Totò, argomento universale, con qualche arma in più, in quanto capace di esprimersi nel napoletano ‘vero’ e quindi più vicino a un’anima e a una persona come Totò. Chi ha frequentato Isotta sa che alternava la cura di un parlare forbito e cadenzato – attento, nel trasformarsi in scrittura, al rispetto delle tradizioni – alla graffiante, colorita e spiazzante espressione dialettale, con un passaggio rapido e improvviso che non turbava, ma immetteva subito in una dimensione più a pelle, popolaresca, ma di quel popolare dei gentiluomini napoletani.
Il volume si divide in due parti: la prima si intitola Tentiamo un ritratto e conta quasi 80 pagine. La seconda, più corposa, fino a p. 302, bibliografia e indici compresi, contiene le schede di tutti i films di Totò, con trama, curiosità, osservazioni ed eventuali critiche. Schede del tutto personali, nello stile di Isotta. Un piacere leggerle e ricordare i films o, magari, trovare lo stimolo per rivederli – chi li vedesse per la prima volta sarebbe stato sicuramente appellato con appropriato formulario napoletano dall’Autore.
La prima parte si apre con la morte di Totò e col suo memorabile funerale in tre tempi cui l’allora sedicenne Isotta prese parte nella sequenza napoletana. Nel giro di un paio di pagine (5-7) Isotta ha modo di citare: Federico Fellini; un sommo artista, il direttore d’orchestra Giuseppe (Pippo) Patanè; Sil’vestr Ščedrin, che ritrasse, in un quadro che Isotta possedeva, la basilica del Carmine; Nino Taranto, che pronunziò l’orazione funebre; il compagno di scuola Fabrizio Perrone Capano; Torquato Tasso e Giambattista Marino e, infine, il suo amato Ovidio. Perché Isotta non riusciva a tener fuori dalla sua prosa e dal suo eloquio la sua cultura e le sue passioni umane. Per questo era bello ascoltarlo, ogni volta ci si immergeva in racconti, aneddoti, mai neutri o oggettivi ma sempre vitali, pieni di pathos. Anche nel ritratto ‘tentato’, che occupa gli otto capitoli della prima parte, i nomi si affollano e partecipano alla messa in scena prima dell’infanzia, poi della presenza scenica e infine di quella filmica di Totò; introdotti e ‘catalogati’ dalla voce di Isotta, in continuo dialogo con Totò nel cuore di Napoli. Il teatro; il ruolo e i nomi delle cosiddette ‘spalle’; la vita sentimentale di Totò; le riflessioni più intime, quella che a Isotta piace chiamare l’essenza di Totò; le quattro Napoli della ‘rappresentazione spettacolare’; l’ipotesto della fescennina iocatio, cioè il patrimonio comico e satirico della cultura romana e dell’arte dell’improvvisazione teatrale su un esile canovaccio; infine il Totò musicista e poeta. Questa prima parte termina con il ricordo del convegno Totò Diagonale e di un bell’intervento su Aristofane, quasi improvvisato all’ultimo momento, di Gennaro Carrillo, professore del Suor Orsola Benincasa, la cui sintesi Isotta ha meritoriamente inserito nel volume.
Frazionate in una periodizzazione che ha forse una sua intima ragione (1937-1949; 1950-1959; 1960-1967), le 98 schede, che comprendono films ed episodi di films non sono un’arida elencazione di dati e contenuti, ma corrispondono, con dimensioni diverse, a una rivisitazione del tutto personale di ciascun film. Farò un solo esempio: Miseria e nobiltà, del 1954, con regia di Mario Mattoli, sceneggiatura di Ruggero Maccari, produttori Carlo Ponti e Dino De Laurentis. La scheda si estende da p. 160 alle prime 6 righe di p. 169. Si tratta di un film che rivedo continuamente e conosco quasi a memoria.
Scrive Isotta: «Miseria e nobiltà è una delle più belle commedie di Scarpetta: il testo è di tale valore che continua a essere in repertorio a onta della trasposizione cinematografica: oltre tutto l’Autore l’ha dotata di una comicità surreale che pare richiedere la presenza di Totò, come se in parte lo inventasse. La sceneggiatura di Maccari si discosta poco dall’originale, ma aggiunge strepitose battute e strepitosi gags dei quali non si riesce a tenere il conto». In questa breve premessa c’è il modo di ‘schedare’ i film: filologia ed erudizione, entusiasmo e acutezza di sguardo e orecchio dello spettatore. La scheda si dipana tra piccoli gioiellini linguistici, come la descrizione di Luisella (Dolores Palumbo), convivente di Felice Sciosciammocca (Totò) come «una vera janara, una strega», inseriti anche in utili spiegazioni: «Pasquale [Enzo Turco] e Felice , per non incontrare il padrone di casa, si nascondono presso una bella modista torinese che abita al piano di sotto: Franca Faldini è doppiata occorrendole un marcato accento taurinense». Quanto poi al cafone che detta a pagamento la lettera a Felice scrivano, ecco la precisazione di Isotta: «Ricordo solo ai non napoletani, e ai napoletani che hanno dimenticato la loro lingua, che ‘cafone’ non è solo un aggettivo ma, in primis, un sostantivo: significa ‘abitante del contado’ e viene dal latino caupona, ‘trattoria di campagna’. All’origine non significa, dunque, persona grossolana: ciò discende naturalmente dal fatto che gli abitanti del contado erano solitamente rozzi e ignoranti; e si lavavano poco o mai: un tempo». Alle precisazioni servono anche le note (poche) a pie’ di pagina, come quella (22, p. 162) che puntualizza il dialogo fra Felice e Pasquale per la vendita del cappotto: «dallo charcutier alla cantonata. E chi è questo sciacquettiere? Il casadduóglio?». Ecco la nota: «In italiano casadduóglio si dice ‘venditore di generi alimentari’ o più velocemente ‘salumiere’. L’etimo del vocabolo è il matrimonio fra caso (‘cacio’) e uóglio (‘olio’)». E poi la stoccata critica: «Il punto debole del film è il personaggio di Gaetano Semmolone. Noi ce lo immaginiamo rozzo, ignorante, ridicolo: un vero plebeo napoletano che tira fuori le manie di grandezza e le arie, salvo avere una feticistica venerazione per i parenti nobili di Eugenio. Ma l’interprete, Gianni Cavalieri, uno scarto della compagnia di Baseggio, ha un così marcato accento padovano da rendere del tutto implausibile la parte in tal modo recitata». Per converso, Isotta valorizza (alla nota 24, p. 166) la resa comica del toscaneggiare fasullo dei finti nobili (Felice e Pasquale innanzitutto), ma per tirare una nuova stoccata ad alcuni suoi concittadini: «La toscanizzazione forzata, l’abolizione delle doppie, con risultati di involontaria ed enorme comicità, vengono ancora praticate presso i pezziente sagliute, i parvenus, che oggi abitano prevalentemente la via Petrarca, con le sue splendide vedute. Ne do un esempio che a Scarpetta non cede in nulla. Una massaia trasferitasi, appunto, a via Petrarca, diceva a una mia amica: “Signò, i’ po’ ’a casa l’aggia fatta nova, d’ ’a capa ’o ’pere. Primma cosa, aggio fatto l’intera topolatura!”. La ‘zoccolatura’ le appariva un parlar sconveniente, per via del traslato zoccola, letteralmente ‘topaccio di fogna, in puttana, come vien e abitualmente adoperato il vocabolo». Eppure, proprio alla fine della scheda Isotta è impreciso; peccato non possa più chiedergli come mai: «Nell’andarsene, Luisella così insulta a Felice: “Uheeee! Funicolare senza corrente!”». Ora, questa, che è uno dei più fantasiosi insulti napoletani, abbastanza unico, non è rivolto da Luisella a Felice, il suo convivente, bensì alla moglie di Pasquale, Concetta (Liana Billi), che era intervenuta nella lite, tant’è che Pasquale precisa, con battuta ancora più comica: “No, mia moglie la tiene la corrente”. Funicolare senza corrente è insulto rivolto a persona inutile e per di più ingombrante, quale, appunto, Luisella ritiene Concetta.
Le schede di Isotta sono, dunque, un continuo invito a rivedere il film, a cercarne i particolari che sfuggono, a commentarlo insieme. Schede, quindi, molto diverse da quelle che appaiono in alcuni titolo della bibliografia totoiana.
Concludo con un’ultima precisazione, che non coinvolge, però l’Autore, bensì l’editing del volume. Nell’indice dei nomi appare uno Spina, Luigi, citato a p. 70 e a p. 255. Dal momento che lo nacqui, Spina Luigi, mi riconosco in quello citato con affettuosa amicizia da Paolino a p. 70, mentre rilevo che a p. 255 si tratta di Grazia Maria Spina, Isabella nel film Totò contro il pirata nero (regia di Fernando Cerchio, 1964). Grazia Maria Spina, che in realtà – ho scoperto solo ora, per l’occasione – si chiama Spinazzi, non è mia parente, però … però, una volta venne a Salerno per uno spettacolo (direttamente dalla Televisione Italiana, si diceva allora), quando io avevo una decina d’anni. Mio padre – questi padri, quante cose ci hanno insegnato, anche con il solo esempio! – volle che andassimo a salutarla. Ci presentammo, disse che ci chiamavamo Spina anche noi. Ricordo che lei sorrise e ci congedò gentilmente. Peccato non poterne ridere, ora, con Paolino, peccato davvero.