L’Anno del Fuoco Segreto – Il camicino da morto
La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI.
di Loredana Lipperini
Il camicino da morto non era una vera e propria camicia: era una maglietta bianca di lana fine con un paio di ghette in tinta, sempre candide come capelli di demone. La zia di Camilla l’aveva preso grande, 3-6 mesi e non 0-3, perché, diceva, ai bambini i vestiti sfuggono, neanche il tempo di metterglielo una volta e già non entra più. Dovrai, diceva, rimboccargli le maniche e rigirare in vita l’elastico delle ghette, ma vedrai che lo sfrutterà. E’ roba buona, diceva ancora, una bella lana morbida, che non irrita la pelle.
Camilla aveva passato la mano sulla lana: effettivamente era morbida, effettivamente era di qualità, ma le sue dita sopra quel bianco sembravano di cera, e dovette chiedere scusa e sedersi. “Mi manca l’aria”, aveva sorriso. La zia aveva sorriso a sua volta: “Eppure sei nel trimestre migliore. Il sesto mese è il più bello: meno disturbi, tanto appetito, bei sonni filati. Approfittane”. Camilla avrebbe voluto alzarsi, prendere il coltello per il pane che sporgeva dalla brocca blu e piantarlo nella gola della zia. Il camicino da morto non sarebbe stato più bianco ma rosso scuro e il suo bambino si sarebbe salvato. Perché è questo che aveva visto nella maglietta e nelle ghette: un neonato livido in una bara bianca, con le piccole mani chiuse a pugno sul petto, gli occhi serrati, vestito con quell’orribile regalo che sicuramente era dovuto a buone intenzioni, perché tutti hanno sempre buone intenzioni quando vanno a trovare una donna incinta e portano regali, che poi i regali non si dovrebbero fare prima della nascita, Camilla aveva un cassettone pieno di camicine della fortuna scarlatte, tute gialle e verdi e azzurre, scarpine, magliette così piccole che la riempivano di costernazione.
Come avrebbe potuto tenere in braccio una creatura minuscola come quella che stava per venire al mondo? Lei non era capace di far nulla, o quasi, non sapeva girare una chiave nella serratura senza il terrore di non riuscire a compiere il giro, e l’avrebbe sicuramente spezzata e sarebbe arrivato un fabbro brontolone che l’avrebbe guardata malissimo (e non avrebbe, allo stesso modo, spezzato il bambino?). Era arrivata a trent’anni pencolando in un corpo che non sapeva manovrare, e infatti a lungo l’aveva trattato malissimo, quel corpo, affamandolo fino allo sfinimento e rifiutando altro che non fosse uno spicchio mela a pranzo e uno a cena. Poi però se l’era ripreso, il corpo, anche se ancora oggi, quando invitavano amici a cena, continuava a dimenticare le portate. Serviva un vassoio di mozzarella fresca e pomodori (la pasta no, la pasta mai) e doveva alzarsi per prendere l’olio, e di nuovo per portare a tavola il sale, e poi ancora il basilico che pure aveva colto e lavato con cura, ma che misteriosamente era rimasto in cucina. La testa funzionava, quello sì, funzionava benissimo, due lauree, una in filosofia e una in psicologia, che non riusciva a mettere a frutto, se non scrivendo saggi poco accademici e molto onirici che nessuno pubblicava, ma serviva a tenersi occupata, quell’attività inconcludente, fin quando, così diceva Marco, sarebbe arrivato il bambino, e tutto sarebbe andato a posto, la testa congiunta al corpo, saldata, finalmente, dopo tutti quegli anni in cui fluttuavano ognuno in reami separati.
Da quando era rimasta incinta, in effetti, aveva vinto il corpo. Era stato un sollievo. Aveva dormito e mangiato e fatto tutto quello che non si era permessa di fare per anni (persino divorare una pizza a giorni alterni) e aveva cominciato a pensare che finalmente aveva trovato quel che cercava da quando era nata.
Finché non era arrivata la zia, col camicino da morto. Il camicino da morto era, in origine, una fiaba dei fratelli Grimm che le aveva sempre fatto paura: c’era questo morticino, un bambino bello e buono di sette anni, che continuava ad apparire in giardino, in casa, ovunque, perché la madre continuava a piangere e il camicino si inzuppava e lui non poteva dormire, e finalmente la madre smette e il bambino muore del tutto, e la Camilla bambina non se ne capacitava. Piangere doveva, quella madre, per tenere il bambino fantasma nel giardino, in cucina, dovunque volesse restare, invece di lasciarlo andare nella terra per l’eternità. Quindi, davanti al regalo della zia aveva avuto quello che si chiama presagio, e adesso, lo sapeva, il presagio si sarebbe avverato, e naturalmente sarebbe morta anche lei, subito dopo, perché a nulla sarebbe servito avere un corpo a quel punto. Una strega, la zia. Lo aveva sempre pensato, con quella faccia grassa e gentile, tutti i grassi e gentili nascondono cose orribili. Dunque, quel coltello. Dicevamo.
***
Non c’erano quando la casa è stata costruita. Sono arrivati sul colle piuttosto tardi, all’inizio della pensione, che li ha colti di sorpresa perché si sentivano ancora i ragazzi che erano stati quando si erano conosciuti, o i giovani genitori nervosi in cui si erano trasformati, e invece si trovavano a studiarsi, le caviglie gonfie di lui, i colpi di tosse da fumatrice di lei, e a rimproverarsi finché non si innervosivano a vicenda, e quello che prendeva il rimprovero più forte usciva di casa per non litigare. E’ stato proprio per smettere di uscire di casa e di litigare che una mattina – la tosse di lei era più cavernosa e le caviglie di lui violacee – , si sono seduti al tavolo della cucina, davanti a una tazza di caffè. Ha preso lei l’iniziativa.
Dovremmo andarcene, ha detto. Lui l’ha guardata subito, attento, mentre abitualmente doveva ripetergli la frase due o tre volte perché era distratto, lo era sempre stato ma ultimamente di più, quindi significava che stava pensando la stessa cosa e non aveva ancora trovato il modo di dirglielo. Si è sentita incoraggiata, e l’ha incalzato. La casa è troppo piccola. Abbiamo fatto bene a traslocare qui e a lasciare quella grande a nostra figlia. Adesso però ci diamo sui nervi a vicenda. Siamo quasi in pensione. Amiamo la montagna, ci andiamo tutte le estati, trasferiamoci.
Era cominciata così, poi era diventata un’occupazione divertente, simile a quando, da sposi giovani, sceglievano i mobili per le loro prime case. Lei immaginava una cosa, lui un’altra. Lui disegnava piantine precise, lei assemblava nella sua testa colori, tessuti, velluti incompatibili con la praticità. Avevano deciso subito la regione: dovevano essere le Marche, dove erano sempre andati, le Marche delle colline, fresche d’estate, secche e nevose d’inverno, con curve dolci e sentieri da percorrere, e anche città dove andare in cerca di una libreria o di un cinema, se ne avessero sentito il bisogno.
Partirono a fine marzo, passarono per Castelluccio di Norcia, addolorandosi per il paese ancora in rovina dopo il terremoto e per la brutta struttura che ospitava i ristoranti. Si fermarono a mangiare un panino pensando che stavano consegnando la vecchiaia a una terra che tremava ogni dieci, vent’anni. Pazienza, si era detta lei. E poi si chiese da dove nascesse il desiderio di sentirsi al sicuro. Facevano parte di una generazione che aveva avanzato controvento, era solo l’età? No, non lo era. Condividevano tutti la stessa incertezza. Lo stesso terrore, diciamolo pure. Ma sul terrore non si costruisce nulla.
Arrivarono nel piccolo borgo sopra Vallescura per comprare ricotta fresca e una forma di formaggio da riportare a casa. La pecoraia disse che c’erano due case in vendita, non molto lontano. Una era, disse, spettacolare, l’altra era una villetta comoda, con un piccolo giardino, non lontano dall’altra. Ma dovete vedere la prima, disse. L’ha costruita un famoso architetto spagnolo negli anni Settanta. Non c’è niente di simile qui. E’ tenuta su da enormi sostegni di cemento armato, sembra la casa delle streghe. E non viene giù neanche a cannonate. Il terremoto non le fa niente, a quella là.
Era bellissima, è vero. Ma finirono per comprare la villetta comoda, perché qualcosa nella casa spettacolare la rendeva inquieta, come se da quei tiranti giganteschi potesse emergere qualcosa che aveva dimenticato. Era proprio una casa stregata: una casa di spettri, ma senza spettri, piuttosto uno specchio riflettente del passato, aveva pensato, che per curve insondabili ti riporta indietro anche quando vuoi dimenticarlo. Marco era comunque contento. E lei pensava addirittura che avrebbe ritrovato quella serenità torpida che aveva provato durante la gravidanza del loro primo figlio e che era finita per sempre dopo la sua morte, trasformandosi in accettazione. Oh, certo, erano andati avanti, lei non era morta e non era impazzita, anche se nel primo anno aveva sviluppato una dipendenza da Valium che era stata difficile da vincere. Però era passata, e aveva trovato uno strano equilibro, una conversione alla normalità che sembrava impossibile per la creatura terrorizzata e nervosa, ma a suo modo geniale, che era stata in giovinezza. Si era trasformata, come gli animali che mutano il pelo, o le crisalidi, o semplicemente come gli umani, che cambiano perché non possono fare altro. E pensare che era stata a un passo dal rimanere com’era. Se avesse davvero preso il coltello, tanti anni fa, e avesse ucciso la zia. Se si fosse uccisa, quando il bambino era nato e dopo pochi giorni era morto ed era stato davvero sepolto con la maglietta e le ghette bianche. Non era avvenuto, e non aveva neanche pianto.
Non voleva piangere, questa era la verità. Aveva paura che piangendo il bambino le sarebbe tornato davanti, correndo con piedini leggeri come polvere nella stanza che aveva preparato per lui, e che le sarebbe salito in braccio mentre sedeva a leggere, e lei non se ne sarebbe accorta perché in quanto spettro non aveva peso, ma a un certo punto una piccola mano fredda le avrebbe accarezzato la guancia. Per vivere, non doveva avere fantasmi intorno. Neanche quello di suo figlio.
Un anno dopo il trasloco, decise di arrivare fino alla casa misteriosa. I tiranti in cemento armato spiovevano diagonalmente, rendendola simile a una baita interrata per metà nel terreno, in cima alla collina. Era ancora vuota. Venivano a vederla, questo sì, ma poi non se la sentivano di prendere un impegno troppo grande, in un punto così isolato. Ma lei sapeva cosa respingeva i visitatori, invece. L’aveva saputo fin dall’inizio, e forse era per questo che, dopo aver tossito tutta la notte e aver sentito nelle ossa i dolori di quella che non poteva che essere vecchiaia, aveva deciso di andare.
Sapeva anche dove, mentre saliva lentamente, ansimando quando la salita si faceva più ripida. Appena sotto la porta d’ingresso, chiusa da anni, c’erano strani, piccoli tumuli di terra. Come tombe. Le talpe, le avevano detto quando erano andati a visitare la casa. Non erano talpe, pensava. E’ che ognuno di quei tumuli aspettava il visitatore giusto. Avrebbe riconosciuto il suo.
Era quello più lontano dalla porta, infatti, e più minuscolo ancora degli altri. Si inginocchiò a terra, scavò con le mani, nulla di difficile, la terra sembrava persino fresca. La trovò quasi subito: non era neanche troppo sporca, la maglia bianca di lana fine, e neppure le ghette candide che erano subito sotto. Se la portò al viso, cercando l’odore dolce del latte che per quel bambino non c’era stato.
“Non hai mai pianto”, disse una voce, ed era una voce di uomo, dietro lei. “Non una sola lacrima”.
Camilla scosse la testa e poi, come era giusto, si sdraiò e chiuse gli occhi.
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Immagine di Francesco D’Isa.
Loredana Lipperini è una scrittrice e conduttrice radiofonica (Fahrenheit su Radio3). Tiene corsi di letteratura fantastica e fa parte del comitato editoriale del Salone del Libro di Torino. Gli ultimi libri pubblicati sono L’arrivo di Saturno, Magia nera e La notte si avvicina (Bompiani). Il suo blog si chiama Lipperatura.
Meraviglioso, Loredana. Grazie per questa perla.
Stefano
Grazie!
Ah! Ho immaginato una delle tante Vallescura della mia vita all’ombra dei Sibillini, ho immaginato la seconda casa della mia famiglia nel borgo, ho ricordato i miei sogni giovanili di scappare in città, a Roma, e il sogno di poter vivere in paese, sui monti, da adulto. Sogno infranto (o quantomeno ridimensionato) dal terremoto, dalla malattia della mia mamma molto anziana, dalle tremende crisi di panico e di insonnia che mi perseguitano da quel 24 Agosto di 5 anni fa. Ma cosa sono gli incubi se non dei continui assaggi della (nostra) morte? Se gli assaggi ci fanno trasalire, l’incontro reale con la disgrazia ci porta alla Morte per darci requie. E così, cacciata dalla porta, la Nera Signora è prepotentemente tornata a ricordarci che fa parte della Vita. Anzi, che è Vita. Grazie, Loredana, per averle dato voce potente e lieve al contempo.
Cara Loredana l’ascolto alla radio da tanti anni ed è la prima volta che leggo un suo racconto.
Un racconto così dolce, così malinconico ma allo stesso tempo vitale.
La vita tante volte ci ferisce ma ci dà anche cure, tempo, spazio per riprenderci e proseguire il cammino.
Grazie per questo racconto .
Un caro saluto e abbraccio
Anna Daminato
Grazie Loredana