Confini. Intervista a Francesco Tomada

di Claudia Zironi

 

Francesco Tomada, poeta, insegnante di materie scientifiche nella scuola superiore, abita una terra di confine, in senso letterale, visto che la sua città Gorizia è divisa in due tra Italia e Slovenia. Tomada vive una vita di scrittura appartata dal rumore dei social media concedendo la sua presenza attiva solo al lit-blog Perigeion. Nonostante non faccia nulla per mettersi in mostra, è noto e stimato nell’ambiente poetico italiano e, come ho avuto occasione di dire in altro contesto, viene letto non solo dai lettori che frequentano la poesia ma anche dai colleghi poeti, con interesse e passione – non con l’occhio tecnico di chi sorveglia le produzioni altrui (sic) – probabilmente perché, come pochi, sa coniugare nella sua scrittura capacità espressive originali e contemporanee con l’apertura e l’accoglienza al mondo, andando oltre i confini individualistici e retorici.

In questa intervista cercherò di toccare vari ambiti ma la parola o solo l’idea di “confine” tornerà ancora.

 

CZ: – Benvenuto Francesco. Inizierei contestualizzando la tua presenza artistica in un territorio molto fecondo di arte e di parola che è il variegato ambito culturale del Friuli Venezia Giulia…

FT: – Prima di tutto grazie per la tua attenzione.

Difficile dare lettura di un panorama culturale vivendoci dentro, si rischia di mancare di una visione di assieme. In generale però mi sembra di poter dire che nel Nordest (estenderei la visione geografica almeno al vicino Veneto) si è assistito negli anni a una fioritura di validissime voci poetiche, di autori nati più o meno a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, che hanno seguito percorsi individuali e solitari ma comuni per tematiche e approccio: penso a Franzin, Casagrande, Di Palmo, Crico, Fierro, Obit, Mattiuzza, Benedetti, Micelli e molti altri a cui chiedo scusa per non averli nominati. Si tratta in generale di una generazione con i piedi ancora nella cultura rurale e la testa immersa nelle conseguenze di quello che avrebbe dovuto essere il “miracolo economico”, una generazione che ha vissuto il disfacimento del tessuto cattolico e contadino a favore di una polverizzazione sociale senza più radici. La mia impressione è che il livello raggiunto da questi autori sia molto elevato, però quella stessa marginalità che ne ha rappresentato la forza propulsiva dal punto di vista artistico ha finito per limitarli per quanto riguarda il riconoscimento pubblico (Cappello e Villalta, ad esempio, rappresentano in questo senso delle eccezioni): da tanti percorsi isolati non si è riusciti a trarre un movimento. Ecco, a prescindere da quello che può essere il valore dei miei lavori, se appartengo a un ambito culturale è probabilmente questo, dove non a caso trovo alcuni fra gli amici più cari.

 

CZ: – Gorizia è per certo una città attraversata da un palese confine geografico. Ma con quanti confini “fantasma” si devono misurare la tua vita e la tua scrittura?

FT: – Per cominciare voglio dire che mi piace il modo in cui hai posto questa domanda, e ti spiego perché. Io mi sono trasferito a Gorizia da adulto, e sono rimasto letteralmente affascinato e rapito da questa terra attraversata dal confine come se fosse una cicatrice, un libro di storia a cielo aperto. Allora ne ho parlato a lungo, così a lungo da ritrovarmi io stesso ingabbiato in questo profilo di “scrittore di confine” che adesso sopporto a stento. Quindi grazie perché mi chiedi di altri confini, quelli che esistono qui come altrove, esattamente allo stesso modo.

So che può sembrare banale e scontato, ma il confine più grande è quello dell’egoismo e dell’incomunicabilità. Non è qualcosa con cui si deve misurare la mia vita, ma la vita di tutti: qualcuno magari si accontenta o si rassegna più di altri, io per indole tendo a scomporre i comportamenti, ad analizzarli quasi per istinto, cercando di identificare difese e sovracostruzioni. C’è una dose di finzione importante nel nostro agire, e la mia reazione è stata per molti anni quella di una rabbia presuntuosa e quasi adolescenziale verso il prossimo.

Devo dire però che sono più bravo a giudicare il prossimo che a cambiare me stesso. Negli ultimi anni (sarà l’età?) l’aspetto con cui mi scontro di più è la mia incapacità di comunicare: riconosco in me stesso gli stessi limiti che così a lungo mi hanno infastidito negli altri. Forse è ora che anche io cominci a crescere, a essere un po’ meno indulgente verso i miei confini invece di infastidirmi per quelli altrui.

 

CZ: – E quante sono le lingue della tua poesia?

FT: – Rispondere purtroppo mi è facile: una sola, l’italiano. Ho perso il friulano perché faccio parte di quella generazione a cui i genitori parlavano solamente in italiano, così da evitare che le costruzioni linguistiche e sintattiche del friulano diventassero una penalizzazione in ambito scolastico. Io stesso, fino a pochi anni fa, ho avuto un rapporto più di odio che di amore con la cultura friulana. Quando poi ho cercato di recuperare ciò che avevo lasciato per strada era già tardi, quindi la mia unica lingua è l’italiano. Pur vivendo sul confine, inoltre, sono entrato in contatto con lo sloveno da pochi anni, anche in questo caso troppo tardi per impadronirmene. Penso, sogno, scrivo e impreco solo in italiano, è il mio recinto.

 

CZ: – Ogni tanto ti cimenti anche con la traduzione di poesia pur non essendo un traduttore professionista: secondo te per tradurre poesia è più utile avere competenze tecniche nell’ambito della traduzione o avere sensibilità per la metrica e per la figura retorica?

FT: – Ho iniziato a tradurre dall’inglese per caso. Non mi sentivo minimamente all’altezza e quindi lo facevo solamente “per uso personale”, ma poi è accaduto che alcuni autori abbiano apprezzato le versioni delle loro poesie e mi abbiano chiesto di continuare, per cui ne sono derivati anche lavori più complessi. Ti direi che per la traduzione serve tutto: la conoscenza della lingua e degli strumenti della poesia trasposti in quella lingua, così come la capacità di immergersi nella scrittura di un autore, di entrare a farne parte. Per me – e sottolineo “per me”, che non sono un professionista – quest’ultima è la condizione necessaria per iniziare: se non riesco a ritrovarmi nella poetica di chi devo tradurre, le mie competenze sono troppo limitate per permettermi di portare a termine un lavoro accettabile soltanto grazie alla professionalità, all’utilizzo della tecnica.

 

CZ: – Cosa ti spinge all’attività di traduzione? E cosa ti lascia?

FT: – Oltre alla possibilità di studiare un autore che amo, quello che mi spinge è anche una sfida: la traduzione è un equilibrio molto precario fra devozione per la poesia di un altro e orgoglio personale. Bisogna dimenticare se stessi per mettersi a disposizione della poesia che si traduce, ma è necessario anche trasformarla, renderla in parte propria, perché nella trasposizione da una lingua all’altra molto andrà sicuramente perso e quindi questo è l’unico modo per poter dare un valore aggiunto, direi una prospettiva nuova, al testo tradotto. Come dicevo, il limite da raggiungere ma da non superare è difficile da individuare, per cui paradossalmente traducendo autori che amo ricevo un duplice regalo: attraversare la loro poesia e comprendere di più me stesso, le mie possibilità e le mie lacune. In alcuni momenti questa esperienza mi è stata davvero utile, soprattutto in passaggi in cui la mia scrittura sembrava essersi fermata.

 

CZ: – Non solo poesia: mi hai detto di avere pronto all’uscita un romanzo fiabesco-politico ambientato nel 1931 sul confine italosloveno, che hai scritto a quattro mani con Anton Špacapan Vončina. Ci regali un’anticipazione su titolo e trama?

FT: – Per quanto riguarda il titolo non posso rispondere perché ne esiste solo la versione slovena, il nostro “working title” mentale, ma la traduzione in italiano sarebbe davvero indecente. Quindi non è stato ancora deciso.

Il lavoro è nato in modo imprevisto e sorprendente a partire dal soggetto per un film elaborato da Anton e da un altro caro amico, Luca Chinaglia. Il film per ora è rimasto in standby, anche perché i finanziamenti necessari sono decisamente ingenti; io mi sono letteralmente innamorato della storia, quindi con Anton abbiamo deciso di provare a svilupparla in ambito letterario. Non si tratta di un romanzo tratto da un film, da un certo punto in poi le strade si sono divise completamente e oggi non hanno più nulla a che fare l’una con l’altra.

La vicenda è ambientata a Čepovan, un paese di mezza montagna che oggi si trova in Slovenia a una quindicina di chilometri dal confine, ma che ovviamente nel 1931 era sotto il controllo italiano e, come tutta la zona, era sottoposto a un processo spesso brutale di “italianizzazione”. Durante l’inverno l’arrivo di un nuovo contingente militare porta a una brusca accelerazione dell’operazione, e nella comunità isolata di Čepovan si sviluppa una serie di reazioni che vanno dalla connivenza all’indifferenza, fino alla reazione violenta. Tutto è racchiuso nel volgere di circa un mese, periodo in cui si sviluppa il contrasto fra il tenente italiano Angelo Ottavi e l’anziana maestra slovena Majda Žled: preso in qualche modo in mezzo a loro è Srečko, un ragazzino costretto passare fin troppo velocemente dall’infanzia all’adolescenza, a operare una scelta assumendosene le conseguenze e fronteggiando il fatto che da nessuna parte esistono i buoni senza colpa o i cattivi senza pietà.

 

CZ: – Sempre restando sul romanzo: mi incuriosisce la definizione che ne dai “fiabesco-politico”. Come si coniugano questi due termini nella realtà?

FT: – Si tratta indubbiamente di un libro politico: per quanto lo scopo di un romanzo non sia quello di risultare didattico, anzi è un rischio che speriamo di essere riusciti a evitare, il concetto centrale attorno a cui ruota il lavoro è quello di “Resistenza”. Resistenza non è soltanto quella degli sloveni al processo di italianizzazione: è piuttosto un’idea di comportamento etico e in questo senso mi sembra più attuale che mai, per quanto la storia si sviluppi in un momento storico ben preciso. Esistono infatti numerosi riferimenti a situazioni reali, alcune delle quali sono state riportate a galla di recente, ad esempio nel libro di Adriano Sofri “Il martire fascista” edito da Sellerio. Però l’idea non era costruire un romanzo storico, quanto cercare di incastonare in un quadro temporale delimitato e definito anche una presenza assolutamente irrazionale e fiabesca, in qualche modo mitologica, cercando di farla risultare credibile anche se ovviamente non può essere stata reale. Abbiamo cercato di costruire un affresco che mi piacerebbe poter definire “verosimile”, questa è stata la sfida: sappiamo benissimo che il confine fra l’inventiva e la banalità è labile, ma senza rischiare non si arriva da nessuna parte, né del resto avevamo alcuna comfort zone da difendere.

 

CZ: – Ancora sulla prosa: vorrei sapere come vi siete organizzati per scrivere un intero romanzo a quattro mani: un capitolo a testa? O ogni frase l’avete concordata? O, ancora, uno dei due metteva le idee e la ricerca e l’altro la capacità di resa scrittoria?

FT: – Quando Anton mi ha chiesto di collaborare nella stesura del romanzo, inizialmente gli ho risposto di no perché non mi sentivo minimamente all’altezza per formazione e capacità. Poi, a causa delle sue insistenze e del rapporto di amicizia che ci lega, ho accettato, con la condizione che fossimo impietosi per davvero: nel rispetto reciproco avremmo dovuto criticarci, tagliarci, correggerci senza alcuna remora e alcun risentimento. A conti fatti penso che questa sia stata una fortuna. Nella scrittura in sé siamo stati indipendenti, nel senso che non abbiamo mai lavorato insieme sulla prima stesura nemmeno di una singola pagina; nella pianificazione, nella revisione e nella correzione invece ci siamo confrontati continuamente, modificando, tagliando, cambiando, al punto tale che – in tutta sincerità – ci sono molti passaggi di cui davvero non ricordo nemmeno chi sia stato il primo autore, e altri completamente stravolti rispetto alla versione originale. Aggiungo anche che un ruolo fondamentale lo hanno avuto le illustrazioni, perché Anton è anche un grafico; probabilmente nel libro non saranno incluse se non in minima parte, ma sono state un elemento insostituibile di ispirazione e suggestione.

Insomma, la mole di scritti e di materiali che abbiamo prodotto è davvero enorme, e da questa abbiamo cercato di distillare – e qui il plurale è un plurale vero, sarebbe bello se anche in italiano ci fosse il duale, come in sloveno – la storia nella sua versione finale con un rapporto assolutamente paritario. Devo dire che per me, che nella scrittura sono un testardo e lavoro sempre da solo, è stata un’esperienza meravigliosa e commovente, soprattutto dal punto di vista umano. Sarò riconoscente per sempre a chi mi ha permesso di viverla, e ti confesso senza falsa modestia che il risultato finale mi ha sorpreso e mi convince.

 

CZ: – Secondo te un buon poeta è sempre anche in grado di gestire la prosa e un buon romanziere ha in sé il germe della poesia o le due attività hanno in comune solo il supporto cartaceo e la penna? Tu ti senti, ora che hai fatto anche questa esperienza, più vicino alla prosa o alla poesia?

FT: – Al di là della padronanza dello strumento linguistico, mi sembra che l’approccio mentale alla prosa e alla poesia siano piuttosto differenti: la prima richiede una disciplina che può invece risultare un freno per la seconda, la prima esige una costruzione rigorosa a priori mentre spesso la seconda identifica solo alla fine il percorso compiuto. Senza voler essere categorico, quindi, credo che non sia affatto scontato che un valido prosatore sia anche un valido poeta e viceversa. Non voglio però sembrare integralista, e so bene che, per fortuna, esistono confini impalpabili fra i generi letterari e splendide eccezioni al concetto che ho appena espresso.

Per quanto mi riguarda, rimango sicuramente più vicino alla poesia: il mio modo di pensare è più puntiforme, naif, occasionale, e sono mediamente incapace di progettare un lavoro a priori o scrivere in modo disciplinato e rigoroso; piuttosto mi lascio portare per poi cercare di capire dove sono andato a finire. Il mio impegno e la mia dedizione stanno nell’ascolto, nella prospettiva, ma ho proprio dei “tempi di attenzione” piuttosto brevi: è un dato di fatto, anche se in questo senso l’età mi ha cambiato rispetto a un approccio che in passato era ancora più frammentato ed episodico. Non è detto che ciò sia un bene, perché mi rendo conto di avere perso qualcosa in visionarietà e naturalezza. Spero, in cambio, di averne guadagnato da altri punti di vista, ma non sta a me giudicarlo.

 

CZ: – Per quanto riguarda la scrittura in generale, sappiamo che ti sono cari concetti come verità e onestà. Ma sappiamo anche che di norma la scrittura è finzione. Come concili queste due contrapposte posizioni?

FT: – Non le concilio per il semplice fatto che non credo che la scrittura sia finzione, o almeno non per come la vivo io: anche in quelle (poche) volte in cui riesco a uscire dalla dimensione autobiografica – e vorrei essere capace di farlo molto più spesso, ma mi sembra di diventare didattico e didascalico – deve essere presente una componente di interiorizzazione che mi permette di essere parte di quello che racconto, un coinvolgimento che mi dà il diritto di scriverne. Se non fosse così mi sembrerebbe di mentire, di lavorare su un artificio. Per tornare al romanzo, per anni mi sono trovato a pensare come un tenente fascista o un ragazzino sloveno, a livelli che in certi momenti sono diventati quasi destabilizzanti. A maggior ragione, poi, questo vale per la poesia, dove a mio avviso l’autore deve essere presente e nella sua presenza c’è la certezza di quello che Stefano Guglielmin, con una espressione illuminante, definisce come “valore di verità” della scrittura.

 

CZ: – Come stai vivendo tu e come sta reagendo la tua scrittura a questo prolungato periodo emergenziale di semi clausura, di lutti e di sgretolamento delle certezze relazionali e economiche?

FT: – Stiamo parlando di una tragedia assurda, quindi non si può viverla bene. All’inizio, come si fa nelle emergenze, ho cercato di tenere la barra diritta e un profilo ottimistico, soprattutto per rispetto delle persone che ho vicino, anche se per carattere non sono fra coloro che partecipano ai flash mob sui terrazzi e ho assunto dei comportamenti piuttosto schivi. Adesso che è passato un anno faccio sicuramente più fatica, le relazioni mi mancano perché vivo di relazioni. In certi giorni vado avanti per inerzia, anche se so di essere fra i fortunati almeno dal punto di vista economico, perché lo stipendio non mi è mai mancato.

La mia scrittura ha reagito molto peggio di me. Non ho scritto praticamente nulla su questa situazione, un po’ per pudore, un po’ perché da dentro non mi esce niente. In compenso ho rallentato la scrittura anche su tutto il resto, probabilmente a causa della mancanza di stimoli dovuta all’isolamento. La sola vera conseguenza è stata probabilmente la necessità interiore di andare verso testi in qualche modo non dico più ottimisti, ma almeno più sereni anche a costo di sembrare infantili. Ho scritto talmente tanto del dolore in passato – perché sono un uomo ombroso, questa è la verità – che non lo reggo più; in un momento in cui il dolore stesso diventa paesaggio collettivo, io non mi sento in grado di consolare nessuno ma al tempo stesso non posso e non voglio lasciarmi affondare. Piuttosto mi rifugio in una ingenuità consapevole; passati i cinquanta reclamo il diritto di essere stupido.

 

CZ: – Tu collabori con l’Associazione dei Benandanti di Portogruaro, connessa al servizio di salute mentale della zona, e anche a Gorizia operi come volontario con persone disagiate. Poesia come cura: secondo te è vero? La poesia serve a curare o piuttosto al contrario destabilizza?

FT: – Premetto che la prospettiva qui deve cambiare: non parliamo più di poesia per il suo valore artistico, vero o presunto che sia, ma per il suo valore umano e per il suo significato nel divenire di una persona. E devo dire che forse è un ambito in cui mi trovo più a mio agio, perché nello scrivere non ho mai avuto una visione artistica: se ho scritto è stato per necessità, e se poi è accaduto che a volte questo si trasformasse anche in una forma di arte si è trattato di una conseguenza, una fortuna, ma non un’intenzione.

La poesia può essere una cura? Sì e no.

No nel senso che la poesia, per la sua struttura, non è una medicina e non offre risposte. A volte temo che una poesia didattica sia una poesia morta, e ciò vale a maggior ragione quando si addentra nella profondità di un individuo e nei suoi lati irrisolti. Quindi no, la poesia non è una medicina.

Però forse può essere una terapia, questo sì. Per la sua natura, che affonda le radici nell’irrazionale, per il suo originarsi, che è un processo di cui l’autore ha solamente in parte il controllo, la poesia può rappresentare uno strumento per scandagliare profondità che altrimenti non riuscirebbero a emergere. A me è capitato di spaventarmi per alcune cose che ho scritto, al punto di chiedermi se l’autore fossi davvero io e se quello rappresentasse ciò che avevo dentro. Quindi immagino che la poesia destabilizzi piuttosto che curare, ma che si tratti di una destabilizzazione necessaria, ti dice: ecco quello che hai dentro, se vuoi arrivare da qualche parte è da qui che devi partire, sono questi gli angoli oscuri che non puoi fingere di non vedere.

 

CZ: – Ci regali un tuo inedito?

FT: – Un inedito di quelli leggeri di cui parlavo prima può andare bene?

Magari gli troverò un titolo, un giorno.

Quanta ostinazione nei cipressi

altre piante perdono le foglie

loro invece no, che non sia mai

mio nonno ripeteva di continuo:

nella vita bisogna stare sempre

con la schiena diritta

dicono che gli alberi sappiano ascoltare

ed eccoli nel grigio di novembre

rigidi e puntati verso l’alto

come se dovessero

tenere su le nuvole

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3 Commenti

  1. Ohh, finalmente sono riuscita a leggere questa intervista e me la sono goduta! Grazie.
    Le poesie di Francesco le ripasso più volte all’anno e mi fanno sempre emozionare, come la prima volta, quando mio figlio mi chiese di accompagnarlo a Cividale del Friuli alla presentazione de “L’infanzia vista da qui”, libro del suo prof. di biologia…
    Già gioisco per il romanzo e attendo con ansia di poterlo leggere.
    Speriamo in qualche presentazione in presenza.

  2. Di chiunque sia il mestolo.. io ringrazio costui,
    per averlo usato delicatamente ed in profondità, delimitata.

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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