Poesia e ragionevolezza
di Franco Buffoni
C’è una scena dell’Amleto di Laforgue che mi viene sempre in mente quando si tratta di definire che cosa sia per me «poesia». Amleto si rivolge a Orazio, l’amico assoluto, e lo prega di precederlo, per dire in sua vece, entrando, quelle parole «che lo uccidono».
Poesia come ancora di salvezza, dunque, in primis per chi la compone. Poesia mai stanca di ripetere quelle due o tre cose essenziali concernenti l’etica e l’estetica che magari non si ha più la forza o il coraggio di dire ad alta voce. Poesia come portavoce delle intermittenze del cuore attraverso gli anni.
Ma poesia anche come privilegio, grazie alla possibilità di parlarne agli studenti nei corsi di letteratura, e di tradurla (con la giustificazione a sé stessi di star lavorando), così da tenere sempre in esercizio – come ben tese corde di violino – le facoltà essenziali del poiêin.
«Fu una faccenda di piogge, di laghi, e di discorsi in un gran parco verdissimo», scrive Luciano Anceschi circa la genesi della poetica di «linea lombarda» nei primi anni Cinquanta. Una poetica nella quale, pur con gli inevitabili aggiustamenti e le necessarie trasformazioni, continuo a riconoscere una delle tre matrici essenziali del mio fare poetico: particolarmente nella pratica dell’understatement, nel rifiuto del vittimismo, in una misura etica individuale e sobria, in una linea “analitica” di ragionevolezza piuttosto che continentale di razionalismo.
L’altra matrice – geograficamente più ampia – e forse più significativa per la mia formazione (perché assorbita negli anni dell’adolescenza) credo di poter individuare nella tradizione otto-novecentesca italiana che lega Pascoli a Gozzano; infine, appartiene agli anni della formazione universitaria, la terza – e ben più vasta – matrice che mi riconosco, e che vede la frequentazione delle grandi letterature europee sia di area romanza sia di area germanica in un rapporto linguistico e filologico diretto.
Volendo richiamare quali sono state le principali matrici stilistiche – e proprio di «elaborazione» – che mi sono trovato a perseguire, posso empiricamente suddividere l’insieme dei miei componimenti poetici in quattro principali gruppi:
– testi di lenta stratificazione;
– testi associativi;
– testi-dono-degli-dei;
– racconti in versi.
Per testi di lenta stratificazione, intendo composizioni che sono andate con lentezza strutturandosi attorno a un’idea-cardine: un’idea che, volendo, avrei potuto sviluppare anche in prosa, ma che percepii più naturale per me di esporre in versi.
Il testo intitolato Come un polittico, per esempio, nasce dalla necessità di esprimere la consapevolezza ormai acquisita di non essere più in grado di abbracciare contemporaneamente (in un unico ricordo, in un’unica grande immagine come avviene da ragazzi) la propria esistenza. Ormai – capivo, sulla soglia dei trent’anni – cominciavo anch’io a procedere per frammenti, isole, tranche de vie. Da qui la similitudine con il polittico che custodisce in sé la grande storia a colori sgargianti, ma non la mostra: all’esterno appaiono solo alcuni frammenti della storia a colori smorzati.
La differenza di procedimento compositivo con quelli che descriverò come i componimenti del secondo gruppo sta nel fatto che qui l’idea non venne osservando un polittico in una chiesa di Spagna. L’idea esisteva già, e si sarebbe comunque concretizzata in poesia, magari tramite un’altra similitudine. Il termine di raffronto – dunque – non mosse nulla: venne scelto a freddo perché ritenuto oggettivamente più efficace di altri. In questa poesia delle logopeia (avrebbe detto Pound) dovevo insomma fare un ragionamento: si trattava di rivestirlo nel modo esteticamente più valido.
Come un polittico che si apre
E dentro c’è la storia
Ma si apre ogni tanto
Solo nelle occasioni,
Fuori invece è monocromo
Grigio per tutti i giorni,
La sensazione di non essere più in grado,
Di non sapere più ricordare
Contemporaneamente
Tutta la sua esistenza,
Come la storia che c’è dentro il polittico
E non si vede,
Gli dava l’affanno del non-essere stato
Quando invece sapeva era stato,
Del non avere letto o mai avuto.
La sensazione insomma di star per cominciare
A non ricordare più tutto come prima,
Mentre il vento capriccioso
Corteggiava come amante
I pioppi giovani
Fino a farli fremere.
Circa il secondo gruppo di composizioni, definite «associative», Mario Luzi in Vicissitudine e forma ha scritto che il grande momento poetico, concentrato talvolta anche solo in pochi versi all’interno di una poesia, può essere visto come una sintesi tra due concetti, due sentimenti, due ordini di percezione o «universi di discorso» che non erano mai stati posti in relazione tra loro in precedenza. In pratica – secondo Luzi – poesia avviene solo quando si trovano a coincidere («in modo assolutamente misterioso»), da un lato «uno stato emotivo e una capacità artistica» del poeta, e dall’altro un particolare momento («quello e non un altro») dell’essere universale. Perché il fatto saliente dell’avvenimento poetico è il ritrovamento – momentaneo magari, fugace – della coincidenza dell’esistenza con l’essenza vitale. Il lavoro poetico, infine, non è che la ricerca di questa coincidenza.
Più banalmente posso esemplificare la differenza con le composizioni del primo gruppo sostenendo che qui non preesiste nessuna idea da trasformare in poesia: esiste – fortissima – soltanto la «coincidenza». Per esempio in “Grande Germania”, un testo datato gennaio 1990, scritto a poche settimane dalla caduta del Muro di Berlino.
E mi si fanno vicine
La poesia di Sereni su Amsterdam
Del cinquantasette
E quella di De Libero
“Settembre tedesco” del quarantatré.
Claudio bambino odoroso di pelle nuova
Che non si addice al mattino tedesco
Ucciso perché ride non si allontana
Senza gli avanzi del rancio.
E a Sereni l’olandese che ammette
Sono tornati come turisti li accogliamo
E diamo loro anche informazioni
Ma non una parola di più.
Ancora con riferimento alle composizioni del secondo gruppo, non necessariamente il momento esterno deve essere particolare (tanto da appartenere alla coscienza e poi alla memoria collettive): può essere anche qualcosa di meno appariscente, un dettaglio che solitamente sfugge. Nella poesia “Il circuito di Pergusa”, la coincidenza avvenne tra lo studio che andavo compiendo in quel periodo sul racconto del Mercante nei Canterbury Tales (dove tra i personaggi appaiono Plutone e Proserpina) e la telecronaca di una gara di «formula tre» (da qui i nomi reali dei piloti Moreno e Martini). Sta di fatto che l’antro da cui – secondo la leggenda – emerse Plutone per rapire Proserpina si trova in Sicilia nei pressi del lago di Pergusa. Un lago particolare che, per i riflessi delle alghe sul fondo, sovente assume una colorazione rossa. Come le auto dei corridori. Come le loro tute e le insegne. Perché il circuito automobilistico è stato costruito attorno a quel lago. Il telecronista diceva «… qui dal lago di Pergusa». Non capii subito che il nome che avevo lasciato sui libri nello studio mi aveva seguito in cucina tra l’acqua minerale e il riso in bianco.
Martini fa da freno agli avversari
E il distacco di Moreno sta aumentando:
Nell’ora dei dolci motori
Inanellati giovanotti di latta
Risuonano come narcisi
Nel rosso
Il brasiliano ha la macchina ben bilanciata,
Proserpina come Moreno
Brasiliano piloto del sole
Plutone Plutone
Sale.
Per i testi definiti «dono degli dei» credo che l’espressione sereniana sia quanto mai esplicita. Sereni tuttavia la riferiva (citando Valéry) al primo verso, lasciando intendere quanto invece «il resto» fosse opera di bulino. Per esperienza posso estendere la definizione a certe brevi composizioni (quattro-cinque versi in tutto) scritte di getto nei momenti più svariati e passate indenni attraverso le successive e severe recollections in tranquillity. Il breve testo “L’aspide” potrebbe costituire un buon esempio per questi testi della fanopeia (per ricorrere nuovamente alle categorie poundiane).
L’odore di resina e c’era
Tra le fessure di roccia i fili d’erba
Rosso il capino dell’aspide.
Un garofanino di montagna.
Sta di fatto che versi aventi questo tipo di matrice compositiva possono ritrovarsi anche in testi più complessi. Per esempio il finale melopeico (per chiudere con le categorie poundiane) del già citato componimento “Come un polittico” («Mentre il vento capriccioso corteggiava come amante / i pioppi giovani. / Fino a farli fremere») o i versi iniziali della poesia “Lafcadio”:
La chiesa vaticana a riguardo
Segreto secreto dalle sue labbra oscure
Ripropone bromuro
Dato per secoli a’ soldati suoi cavalli e collegiali (…)
Naturalmente all’espressione «dono-degli-dèi» potrebbe ben più verosimilmente sostituirsi un’oggettiva riflessione su inconscio, conscio e pre-conscio, in virtù della quale gli dei farebbero il dono a chi se lo merita; anzi, non sarebbe affatto un dono, ma il naturale output di quanto seminato precedentemente in decenni di letture e rinunzie e vita appartata (input onnicomprensivo). Ma tutto sommato mi sembra più espressivo continuare ad usare l’espressione di Sereni e Valéry.
Più complessa da esemplificare la genesi dei racconti in versi, i quali – a loro volta – possono essere di tipo palesemente narrativo, oppure più sfumati, più lirici. A questo secondo gruppo di racconti in versi appartengono la storia di Jucci – apparsa nel 2014 nello Specchio – e Monte Athos, Pelle intrecciata di verde, Spiga di grano matto. Tra i racconti in versi più esplicitamente narrativi posso citare Aeroporto contadino, Cinema rosa e Suora carmelitana. Questi racconti, raccolti sotto il titolo Suora carmelitana e altri racconti in versi, dopo ventidue anni sono stati ristampati nel 2019 da Guanda nei Tascabili.
Testo tratto da: Franco Buffoni, Gli strumenti della poesia (Interlinea, 2020)