Diario d’autunno. Poesie, alberi, animali
di Francesca Matteoni
Nel mese di agosto ho cambiato casa e vita. Le prime settimane sono state occupate dal trasloco e dall’abituare Ariel, il mio gatto, al nuovo ambiente. Dalla fine di settembre ho cominciato a sentire il peso del distacco. Un lento trauma inevitabile, che viene con la scelta. Come chi si trovasse d’improvviso nello spazio aperto, dopo essere stata rinchiusa in un micro-mondo che credeva perfetto. L’aria fresca punge e rafforza, ma porta anche smarrimento. Volti, gatti, anni che sfumano dall’altra parte della città e nella pandemia. Li rivedrò, certo, come rivedrò la gente del paese-famiglia, non appena sarà sicuro muoversi, senza la paura di portare o ricevere contagio. Ariel è con me. Arrivato minuscolo nell’estate del 2018 dopo due brutte perdite di felini amati, l’ho forse viziato troppo, siamo quasi simbiotici. Cammina seguendomi nella boscaglia. Mi aspetta, perché ha paura delle persone che non conosce e dei cani. Mi sento colpevole, ma ho bisogno di lui. Lui ha bisogno di me. E poi le letture. In questi mesi a volte leggere è stato difficile, ma ciò non vale per la poesia, che ha la funzione di un talismano: posso aprire il libro e ritrovare versi familiari, che mi scuotono e schiariscono la visione delle cose.
Nel primo autunno mi hanno accompagnato bei testi di poesia di recente pubblicazione. Esco al mattino e vado a sedermi sulla sedia che ho sistemato nell’erba, accanto alla macchia boschiva. Ariel si aggira, prendendo confidenza, tenendomi d’occhio. Io apro il libro. È Noi, di Laura Pugno (Collana A27, Amos), un poema in più sezioni che sembrano emanate da due corpi in una storia d’amore.
luce corvina del corpo che ti è accanto
Non è per amore, sebbene con la sua luce che ricorda l’ombra, che ho scelto? La luce di chi ho accanto ricorda il buio eppure contiene il sole: l’amore ci avvicina alla nostra radice mortale. Non ci sono solo due amanti, qui. C’è la casa che si frantuma, c’è il bosco che la ricompone. Cosa vuol dire essere ricomposti dal bosco, mi chiedo, mentre alle mie spalle l’incolto è quasi impenetrabile, ho dovuto spezzare i rami per raggiungere Ariel nelle sue esplorazioni.
vedrai allora la casa, da dentro
di nuovo visibile, bosco, foresta
Segno la mia appartenenza perdendomi ogni volta. Segno l’amore con un patto di coraggio. Lascio entrare le parole nell’aria e poi all’interno – come se frusciando le pareti fossero tutte le case che ho abitato, e soprattutto i corpi di chi con me le ha rese vive. Ma i corpi sono come il bosco, per questo fanno e distruggono la casa. Resistono sotto ogni illusione di stabilità, ci portano via mentre ci abbracciano.
non avrai casa, è ora di andare,
sarà sempre, la stessa ora fino all’ultima
Seguo gli amanti che si dicono la verità, spezzano il mondo. Che si liberano dall’angoscia di possedere qualcosa o qualcuno. Si dicono di lasciare entrare il bosco, che vuol dire crescita incontrollata, ricchezza del sottosuolo, ostilità prima della bellezza. Che vuol dire accettare che non ci sia un io, ma un noi, una coralità in continua resa. L’altro fa luce dove non lo si può toccare, anche se ramifica nella memoria e nel sogno. Mi ritrovo qui:
verso una casa mai vista,
che lo stesso
è casa, non c’è altra,
è casa e il bosco
è entrato dentro, non c’è fuori,non sarà mai
più solo, l’alba
viene di nuovo
perché tu la vedi,col corpo prima che con gli occhi
Le cose accadono prima della loro comprensione: lasciarsi andare al dialogo significa imparare a tacere, mentre l’altro parla. Anche se parla di assenza.
Rientro nella mia abitazione, composta di due locali e un bagno. Nei libri la lingua si moltiplica, recupero molte me stesse in un alfabeto che disegna i corpi fra i secoli. Nel Settecento il filosofo inglese David Hartley scrisse di un unico “filamento vivente” da cui si sono sviluppati tutti gli animali a sangue caldo. Il nonno di Darwin riprese questo concetto nei suoi studi naturalistici che influenzarono la teoria dell’evoluzione del nipote Charles. Un filamento di materia, così facile da rompere o aggrovigliare. Forse quel filamento è la parola quando viaggia scarna da una voce all’altra. Filamenti (Einaudi) è il titolo dell’ultimo libro di poesia di Elisa Biagini, che si apre così:
Avvicinati allo specchio dello scrivere:
mordere terra, mangiare ombra
Scrivere come vedersi nella nostra parte più dura e comunque impalpabile (terra, ombra). Scrivere per avvicinarsi a ciò che è vero: non padroneggiarlo, ma registrare quel processo di ricerca che non è poi tanto diverso dal ritrovarsi senza la casa che credevamo di abitare.
Qui si va scalzi,
dicono, non le
calze promesse o
le pantofole andate
al calcagno: deve
risalirti quell’aria
al polmone, quella
che soffia nei cassetti
della terra.
Il dialogo avviene con due figure del passato, la cui voce rinasce nell’invenzione poetica. Uno è il fisico serbo Nikola Tesla, il padre dell’elettricità e dunque della luce che rischiara le nostre case, ora che i giorni si accorciano, che le piogge riversano lampi come scariche potenti dal cielo.
la luce che ci
asciuga fa questa
carne elettrica
L’altra è Mary Shelley, che ci parla da un diario personale, ovvero dall’opera-ombra dietro la scrittura. Il mostro di Frankenstein diventa il tentativo di rianimare la madre Mary Wollstonecraft, morta pochi giorni dopo averla partorita. O forse, mi chiedo, vuole resuscitare un ibrido fra la madre e l’amato? La scrittrice infatti prese il cognome dal marito Percy Bisshe Shelley, il “mio” poeta del vento, che da adolescente sognavo di incontrare fuori dal tempo. Morì in un naufragio nel Mar Tirreno quasi trentenne. Quando amiamo accettiamo di essere mortali, ho scritto. Quando amiamo riportiamo indietro qualcosa dalla morte, qualcosa che ci rende prossimi, solidali. Con dolore.
Ti ascolto, hai il respiro pesante. Rivivi le scosse del tuo tornare in vita. Un orecchio alla parola e uno al silenzio.
Riporto me stessa in un mondo, lasciandone un altro. I filamenti sono punti di sutura. Cosa sto imparando? Ottobre trascorre come la nostalgia di un periodo incantato, precluso. Con la paura della pandemia che cresce, ci restituisce la nostra originaria fragilità, ci mostra il lato selvaggio del mondo, lo stesso che è anche in noi e non ha nulla a che vedere con corse e grida su spiagge incontaminate. Quante volte la sensazione di ripartire da capo? Quante volte l’impressione che questo ulteriore inizio non sia che uno strato di pelle morta che cede, alimentando un fuoco dei miei resti? Sfoglio Brevi scene di lupi (Ponte alle Grazie), un’antologia poetica della canadese Margaret Atwood, tradotta in italiano da Renata Morresi. Ho libri di poesia della Atwood in originale e in traduzione. Il primo libro di poesia che lessi, in un’altra casa a Londra, era suo: The Door. Qui, inciampo in “Partenza dalla terra selvaggia”. Eccola
Io ero stata cancellata
dal fuoco, sono stata invasa
dal verde strisciante
(come
è lucida la stagione)Col tempo gli animali
sono arrivati ad abitarmiprima uno per
uno, di nascosto
(le loro tracce abituali
bruciate); poi
marcati i nuovi territori
sono tornati, più
convinti, anno
dopo anno, due
a duema inquieti: non ero pronta
affatto a quel trasloco in meLoro capivano che ero
troppo pesante; rischiavo
di rovesciarmi;avevo paura
dei loro occhi (verdi
o ambra) che mi brillavano dentronon ero compiuta; di notte
non riuscivo a vedere senza una fiamma.Lui scrisse, Stiamo partendo. Io dissi
non ho neanche un vestito
rimasto da indossareVenne la neve. La slitta fu un sollievo;
il suo binario si allungava dietro
spingendomi verso la cittàe dopo la prima collina fui
(all’istante)
svissuta: loro non c’erano più.C’era qualcosa che mi avevano quasi insegnato
Venni via senza imparare.
Ogni poesia mi conduce altrove, mentre accetto ciò che ho scelto. Nella scelta sappiamo le ragioni, ma non sappiamo come reagiremo. Per questo, penso, a volte è più facile restare dove si è, anche se stiamo rinunciando a toglierci uno strato morto di pelle. Ma io non voglio il facile. Io voglio vivere. Così semplice ed enorme, questo fatto.
Qua vicino, dall’altra parte della strada, c’è un campo con una quercia. Decido che io e la quercia faremo amicizia, perché ho bisogno di un albero. Olivi, querce, storie antiche. La passeggiata alla quercia è breve, poi siedo a guardare le montagne che da sempre sono le vere mura della casa. Loro mi dimenticano continuamente. Continuamente mi fanno da madre. Grandi schiene che ci portano addosso come bambini inuit. Ho con me lo stesso libro, da giorni. È di Robert Macfarlane, lo scrittore naturalista e dell’artista Jackie Morris. Sono poesie dette dagli animali e dalle piante. The Lost Spells (Hamish Hamilton Books), gli incantesimi perduti, seguito ideale di un libro dal formato gigante, The Lost Words, composto da poesie e immagini per mostrare ai bambini le vite che rischiano di non conoscere mai. Ripenso a quando, in una libreria a Green Park, chiesi al commesso Tarka, la lontra di Henry Williamson: Tarka, the Otter. Il commesso era un ragazzo. Mi guardò: What is an otter? Pensai che fosse colpa della mia pronuncia, così glielo scrissi. Non lo sapeva davvero. Io non ho mai visto una lontra, ma so chi è. Penso che abitare in un mondo dove i bambini non sanno chi sono le lontre deve essere terribile. O i barbagianni. O le trote argentate. O le falene dai tanti nomi che devo ancora scoprire.
Leggo una poesia ogni tanto, centellino le immagini perché l’incantesimo duri più a lungo. Quando mi smarrisco sono gli animali a dirmi che va tutto bene anche se tutto va male. Il loro esistere oltre la mia lingua. Per molti anni ho trovato rifugio nella betulla della casa materna, poi si è ammalata senza rimedio e infine ha nutrito il fuoco di un camino. Una volta, nell’Inghilterra del sud, presa dall’angoscia, mi riparai per qualche ora presso un olmo, in un campo.
I castagni, i faggi, gli ontani dei luoghi dove sono cresciuta oppure ho abitato. Gli olivi così frequenti che quasi me li dimentico, come si dimenticano le vite millenarie. E qui: corbezzolo, un cipresso, biancospino delle fate, querce, questa quercia. “Impara a stare ferma”, mi consiglia. Non c’è altro modo per far pace col tempo.
“Quando mi smarrisco sono gli animali a dirmi che va tutto bene anche se tutto va male. Il loro esistere oltre la mia lingua.” Il loro esistere oltre la mia lingua: molto ben detto.
Bellissimo, Francesca, complimenti, non ho altre parole.
vi ringrazio moltissimo per questi commenti e queste letture. Ogni tanto mi piace aggiornare il “diario” qui su Nazione Indiana, meglio se è anche un dialogo con la poesia.