Note d’altrove #1 – Gianluca Cangemi
Note d’altrove # 1
di Gianluca Cangemi
Il sassofono e la badessa
Riascoltavo oggi – in un pomeriggio pandemico uguale a e diverso da tutti gli altri – il master fonografico appena chiuso di un solo per saxofono contralto, composto e suonato dall’amico e collega Nicola Mogavero. Lungo quasi undici minuti una linea limpida muove da ‘O virga ac diadema’, canto composto dalla antica collega Hildegard von Bingen (Bermersheim vor der Höhe, 1098 – Bingen am Rhein, 1179); il canto va poi in eco, la linea s’apre, ai margini si sfrangia in screziature e baluginii, e – provocata da increspature che rischiano, con saggio insuccesso, di metterla in pericolo – trascolora in evocazioni di passi arabo-andalusi (IX-XV secolo); così diviene, aperta in punti e danza, seguitando però sempre a risonare in una cattedrale interiore, luogo di tutte e tutti, collettivo, che, col suo riverbero, impedisce la rottura del canto. Il racconto torna infine al canto iniziale dell’antica badessa, ma adesso la linea è illuminata e arricchita dalle memorie del sogno d’altrove che ha vissuto, e noi con lei (e “…io vivo altrove…”, canta Léo Ferré in ‘Tu ne dis jamais rien’ per noi).
Tutto questo accade, nel bel brano di Nicola, attraverso il suo strumento, il saxofono. Strumento – dicono i burocrati – d’invenzione molto recente (fu brevettato il 22 giugno del 1846), dai più associato a stili del XX secolo, e comunque – così insiste il bottegaio euclideo che ormai tutte e tutti ci abita – strumento inappropriato a una donna in un monastero tedesco del XII secolo o a un mîzân risonante tra corde di oud e ribeche da qualche parte nella Spagna islamica.
‘Trayectorias 30S’, si intitola questa composizione all’ascolto generosa e semplice. È in un’opera fonografica, ‘Leiðarvísir‘, cui ho contribuito sia come compositore che come produttore, in pubblicazione entro quest’anno 2020. ‘Leiðarvísir’ (“itinerario, guida, viaggio” in islandese) è album d’esatti viaggi e luoghi e storie, per vie di canto d’oggi e di ieri, abitate e raccontate da specifici individui ma che – scritte e ritessute – per ciò stesso sono esperienze collettive: di, con e attraverso tutte e tutti. Qualcosa di cui oggi – forse, spero ancora – abbiamo bisogno, chiusi come siamo in casa spaventati arrabbiati, spaesati dal tracollo tremendo di decenni d’individui astratti, orfani di racconti e luoghi e tessiture collettive intelligenti, e per questo privi di cure.
Finito l’ascolto della composizione di Nicola, gli scrivo per ringraziarlo:
“Riascolto ‘Trayectorias 30S’. È un gran pezzo. Credo tu abbia appena contribuito grandemente a farmi formare una immagine mentale mia del saxofono. La comprensione del tuo strumento è faccenda piuttosto complessa per un compositore. In apparenza è“ovvio” e “facile” da capire, ma in realtà ha una ricchezza tale di origini e parentele, e sviluppi in una tale quantità di stili e tradizioni, che farsene una immagine – non ideologica, stilizzante o astratta – è difficilissimo. Ci ho messo decenni. Sento che con il tuo ‘Trayectorias 30S’ è accaduta questa ideazione mia, o almeno può accadere.
Si può comporre per saxofoni anche senza avere questa immagine, ovviamente, ma non è la stessa cosa. Non è quel livello d’abisso chiaro e nettezza dei punti, delle linee, degli spessori e colori, che caratterizza il comporre profondo. E questo comporre profondo puoi averlo solo e soltanto anche una volta compresa la natura-cultura totale dello strumento per cui stai componendo. Altrimenti tutto resta solo spessori, punti e linee e pantoni e null’altro: nella migliore delle ipotesi tocchi lo stile, sfiori la musica, e t’appoggi a pretesti, opure resti all’esercizio calligrafico, da ultimo involuto nel paradosso dell’autoreferenzialità, resti alla burocrazia, fai oggetto masturbatorio oppure – in certi casi è lo stesso – prodotto da mercato, per giunta oggi fuori tempo massimo magari per far soldi. Credo che ora questa prima comprensione mia del saxofono ce l’ho o la posso avere. Ti ringrazio”.
Ringraziato l’amico generoso, guidato dalle risonanze di memoria dal suo sax udito di fresco, m’accorgo di associare spesso gli strumenti musicali a esseri viventi complessi, non a oggetti inerti. Naturalmente lo faccio a partire dalla considerazione per cui uno strumento è uno strumento: a fare il suono e poi la musica, a partire dal pensiero – attraverso, appunto, lo strumento – è l’essere umano. Però nella mia mente gli strumenti musicali – ogni strumento – sono spesso associati a esseri complessi: entità biologiche e sociali. Del resto il continuum tra corpo e strumento è evidente: basti pensare alla voce umana e al fischio, alla percussione col corpo stesso, o, per alcuni giocosi dotati d’orecchio assoluto, magari al fare del cul trombetta.
Entità biologiche e sociali, gli strumenti, ognuno quindi con una sua storia, e storie, una sua formazione, una o più attività professionali, errori e successi, un suo carattere complesso (perciò anche contraddittorio e dunque aperto al molteplice) e relazioni con altri – parenti, amici, antenati, filiazioni, e così via. E ogni strumento, anche, ha una sua “biologia”: me lo figuro più o meno come un corpo animale, quindi con fisiologia e funzionamento estremamente affini (fino ad apparire identici) a quelli di ogni altro suo simile, ma con caratteristiche anatomofisiologiche specifiche individuo per individuo, ciascuno con propri tratti e variabili genetiche. E ogni strumento – ogni singolo strumento – ha pure singolarità determinate dall’influenza dell’ambiente circostante (fisico e culturale, nel tempo), uno stato di salute variabile, e un concetto di sanità e malattia tra il difficile e l’impossibile da fissare con binaria esattezza, che molto dipende da fattori culturali e, vorrei dire, magari dai suoi rapporti e da sue proprie inclinazioni individuali. Una cosa che trovo meravigliosa e vibrante – valida per tutti gli strumenti ma evidente in modo particolare in chi ha componenti organiche determinanti (per esempio il legno degli strumenti ad arco) – è che esiste anche una influenza specifica che giunge dall’umano che utilizza quello specifico oggetto. Influenza udibile, sensibile. No, non è magia: adesso non ho davvero tempo e voglia di recuperare e dare fonti – attività del resto poco à la page – ma ricordo di aver letto anche studi seri che portano a queste conclusioni o almeno le suggeriscono con basi ragionevolmente convincenti.
Non sono uno strumentista, cioè non so suonare con decenza davvero nessuno strumento, ma da compositore penso, e convintamente, che non si possa fare “composizione profonda” (la chiamiamo così per mancanza di migliori parole) senza avere una immagine compiuta degli strumenti con e per cui componi. Immagine che è possibile solo e soltanto accogliendo l’Altro (in questo caso lo strumento) con curiosità sincera per la totalità del suo essere, per le sue relazioni, le sue storie, e per le sue potenzialità, i suoi plus e i suoi minus e per le cause di questi, e così via. Perché ogni strumento è, appunto, un complesso essere vivente con cui relazionarsi, dotato di anima poiché distillato cangiante di storie in una fisiologia: come tutti gli oggetti con noi umani, e magari come noi stessi dal punto di vista di dio. Dunque se non hai questa immagine totale di uno strumento – quindi la disponibilità anche irrazionale all’Altro – ovviamente puoi comporre parti per ogni strumento che ti pare – anche enormemente complicate e razionalmente appropriate – ma non starai facendo composizione profonda. Ciò per lo stesso motivo per cui puoi utilizzare gli esseri umani (nonché del pari altri esseri animali) per scopi solo connessi all’utile economico, e puoi anche farlo con strategie molto scaltrite, tali da minimizzare la percezione dello sfruttamento razionale che stai agendo – anche fino a rendere la tua violenza invisibile e, se sei molto abile, perfino encomiabile dal punto di vista di alcuni; sì, puoi farlo, ma così facendo non entrerai in un rapporto profondo tra la tua umanità-animalità di radice e quella dell’altro, per cui – alla fine di una complessa rete di cause ed effetti tra loro varissimamente intrecciati – finirai in vario grado per fare danno all’umanità (anche la tua).
Sono passati alcuni minuti, forse mezz’ora – in questo pomeriggio pandemico diverso e uguale a tutti gli altri – e il canto del saxofono di Nicola è ora diventato voce di donna. E io sento che tutto ciò ha qualcosa a che fare con la rivoluzione: le storie, gli oggetti e i luoghi (il tempo e le case), gli spiriti che abitano gli uni e le altre, e li e le animano. Ecco, appunto: l’anima. Anemos. Il soffio, il fiato, l’anima, il respiro: tutte parole oggi disseccate, tanto fastidiose agli schizoidi stizziti governi della pandemia, quanto tetramente impronunciabili dentro una terapia intensiva. Che siano queste anime liberate, questi respiri ricreati, i primi venti di rivoluzioni possibili? Aperti in casa, suonando il saxofono da qualche parte in al-Andalus, con una badessa artista, maestra di canto e pensiero, che la cura porta – appropriata con uno strumento o l’altro – dalla casa alle sorelle ai multiversi del mondo, da te all’altro con te che sei tu. Sì, voi vivete asserragliati nell’Algoritmo d’Inverno, noi viviamo altrove.
Gianluca Cangemi, compositore e produttore, lavora quotidianamente alla fioritura di musiche e altri prodotti dell’ingegno per sale da concerto, supporti fonografici, lavori teatrali, di danza e performativi, videogiochi, installazioni e film. Lo fa cercando e riconoscendo chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, per farlo durare e dargli spazio.
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