Claudio Kulesko: nella macchina “caosmica”
Ospito qui un estratto da un saggio di Claudio Kulesko, Macchine Composite. La natura come intelligenza sintetica, contenuto nel libro Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido a cura di Massimo Filippi e Enrico Monacelli.
«Questi testi fanno emergere l’umido viscidume del vivente (i rettili, i mostri partoriti dalla nostra testa, gli insetti, le zanne ricoperte di bava, le squame rilucenti, una fitta moltitudine di genitali ectopici…) per consegnarci a una natura radicalmente aliena, ma a cui partecipiamo con passione e senza scarto, soprattutto nella gioia incontenibile che percepisce il senso di una libertà condivisa, allo zenith della dépense, della disseminazione, della catarsi, dentro le beanze del reale e del godimento» scrivono i due curatori nell’introduzione al volume. E ancora: «Questa psicanalisi della natura, che fa ritornare il rimosso dell’im/mondo, secerne vie di fuga e indica in direzione della Cosa che, come nel film di Carpenter, riposa in/tra noi, l’animale che dunque siamo.»
Leggendo il saggio di Kulesko si ha come l’impressione che il viscidume non sia solo una provincia tematica, ma un modo d’invertebrare la ricerca, un umore primario, la misura di uno studio filamentoso e tentacolare; che la bava sia teoria liquefatta, archeologia che s’infila ovunque nei pertugi delle storia e delle diverse “scienze”. Kulesko, mettendoci al corrente della «macchina “caosmica” nella quale ci si costruisce e si è costruiti nel medesimo istante», ci guida attraverso una vertigine prospettica, mutando radicalmente lo sguardo sulla “natura” e sull’esclusività dell’intelligenza umana.
Scrive Kulesko: «Poggiamo sulle nostre abitudini irreflesse che, a loro volta, poggiano sulle abitudini contratte dalla natura nel corso di miliardi di anni. Questi habitat filogenetici costituiscono dei veri e propri “resti fossili”, tracce che ci consentono di comprendere come la natura non sia che un’immensa memoria, fissatasi gradualmente sulla materia -una sedimentazione di frammenti e relazioni tra frammenti.»
Siamo questa turbinante relazione tra frammenti. La visita al compostaggio della “storia naturale” e lo studio delle sopravvivenze -dei “fossili danzanti” di warburghiana memoria- risultano quindi pratiche sempre più necessarie per fornire nuovi modelli operativi attraverso i quali costruire e sperimentare scenari altri – calandoci nell’intreccio di relazioni e tempi, congendandoci dalle gerarchie tra i diversi ordini di realtà.
Tavole dell’informe, assemblaggi, vie di fuga nell’invisto: questo studio viscido è una disciplina dell’esserci di traverso, per mezzo della quale ripensare non solo il nostro “stare al mondo”, ma anche i “resti” del passato come possibili contenitori di prodigi concettuali da riscattare, o addirittura da de-estinguere. Penso dunque alle forme ruotanti e ai fenomeni d’inversione del Medioevo Fantastico -che già Alessandro Dal Lago esplora in apertura a Divenire invertebrato- , oppure ad alcune righe di Luis de León (uno dei massimi autori del rinascimento spagnolo), dedicate proprio alla “macchina dell’universo”: «[…] si abbracci e si concateni tutta questa macchina dell’universo, e si riduca a unità la molteplicità delle sue differenze, e restando non mescolate si mescolino, e rimanendo molte, non lo siano.»
Forziamoci a riflettere su questa prodigiosa macchina e sul continuo emergere di zone d’attrito, trasformazioni, ritorni, mescolamenti. Forziamoci ad invertebrare le impalcature della ricerca, riformulando una “scienza senza nome” come risposta alla molteplicità danzante: una scienza (una vita!) plastica, concertata d’incompiuto.
[ Ringrazio Ombrecorte per la gentile concessione ]
L’INTELLIGENZA ARTEFICE
Sebbene sia emersa gradualmente, facendosi largo tra il caos e l’assenza di forme ‒ anziché essere preesistente alla formazione dell’universo, in quanto Intelligenza Creatrice ‒ l’intelligenza non sarebbe un’invenzione degli organismi. L’intelligenza della natura si sarebbe “occasionata” nel corso di eventi singolari, dai quali sarebbe stata prodotta, plasmata ed esercitata ricorsivamente, per poi differenziarsi e specializzarsi, nel corso di miliardi di anni, fino a giungere, per via contingente, agli organismi biologici e alle macchine artificiali (transitando occasionalmente, appunto, da intelligenze individuate a base di carbonio a nuove intelligenze individuate a base di silicio). Se, come fa notare Monod, è così difficile distinguere tra oggetti “naturali” e oggetti “artificiali”, non è unicamente a causa delle evidenti affinità funzionali ma anche perché tali affinità non fanno che rinviare a pattern di un’attività comune ‒ quella dell’adattamento intelligente, mediato dalla selezione. L’intelligenza, definita come facoltà impersonale di contrarre e fissare (in)varianze, complica e sconvolge i confini che separano natura e artificio, in direzione di una continuità di tipo “naturculturale”. La capacità di fare memoria, di categorizzare e filtrare informazioni, di dare forma a nuove configurazioni, accomuna tutta la materia, come sembrerebbe dimostrare il fatto che esiste qualcosa anziché nulla, sebbene questo “qualcosa”, le cosiddette “quattro forze fondamentali della natura” (l’elettromagnetismo, la gravitazione e le due interazioni nucleari, debole e forte) non siano in alcun modo necessarie, ossia “fondamentali” in senso prettamente ontologico. Se, tuttavia, possono essere dette a buona ragione fondamentali è poiché rappresentano il fondamento a partire dal quale l’intero impianto della natura ha potuto gradualmente svilupparsi. Ogni struttura e ogni ricorsività, in quanto elaborazioni relative a problematiche concrete, sono per certi versi delle invenzioni tecnologiche, ossia il prodotto di una serie di convenzioni e “giochi adattivi”:
«La tecnica non è un’invenzione degli uomini […]. Anche l’organismo vivente più semplice, gli infusori o le piccole alghe sintetiche sui bordi delle pozzanghere, già da qualche milione di anni sono un dispositivo tecnico. È tecnico qualunque sistema materiale che filtri informazioni utili alla sua sopravvivenza, le memorizzi e le tratti, e che induce, a partire dall’istanza regolatrice, delle condotte che assicurino quanto meno il suo perpetrarsi»[1].
Nel tentativo di espandere le caratteristiche creative e performative alla materia inorganica si potrebbe provocatoriamente suggerire che l’intelligenza della natura sia, al contempo, un genere di intelligenza prettamente “artificiale”, ossia incentrata sull’artificio. Lo sarebbe in un duplice senso e secondo due modalità differenti: da una parte, come abbiamo già visto, l’intelligenza della natura corrisponderebbe a una facoltà “sintetica”, a una primordiale capacità di estrarre campioni da serie di elementi differenti, producendo pattern ricorsivi. D’altra parte, tale produzione di strutture architettoniche non potrebbe in alcun modo essere definita “seriale”. A ripetersi, di fatto, non è un’identità (una matrice archetipica), giacché la differenziazione è possibile unicamente a partire dalla ripetizione di singole variazioni, le quali si manifestano sotto forma di errori, scarti e slittamenti prospettici. Benché in diversi casi le singole particelle o i singoli atomi e molecole possano essere correttamente definiti “identici”, ciascuna composizione di atomi, molecole e cellule è assolutamente singolare e unica nel suo genere, in virtù di variazioni infinitesimali. Ogni struttura, di conseguenza, è “fatta ad arte”, in quanto prodotto di un’attività di assemblaggio, raffinamento e specializzazione relativa a un pyhlum tecnologico, a una successione storica e a una stratificazione di adattamenti selettivi (organici o inorganici). Si tratta di una caratteristica individuata persino dalle scienze naturali, nel cui ambito l’apprezzamento estetico viene spesso tradito da espressioni quali “eleganza”, “simmetria”, “ordine”, “perfezione” e “bellezza”.
Le differenze evolutive tra architetture appartenenti a diversi ordini di realtà (come, ad esempio, animali e minerali) sarebbero pertanto attribuibili a differenze di modalità, velocità e intensità: in certe situazioni la selezione delle componenti è operata da agenti esterni, come nel caso della domesticazione, in altre da fattori strettamente ambientali; certe strutture mutano nel corso di milioni di anni, altre nel giro di poche generazioni; le mutazioni possono comportare effetti estremamente evidenti o sottili variazioni sul tema.
La campionatura di memoria e la produzione spontanea di nuovi pattern sono attività che, tendendosi come i capi di una fune sull’oceano dell’esperienza, rivelano la stupefacente continuità che collega le prime molecole, i primi organismi e le più rudimentali intelligenze meccaniche. Come fa notare Butler nel meraviglioso Libro delle macchine:
«se, per ipotesi, nel più antico periodo geologico, una qualche forme primitiva di vita vegetale fosse stata dotata della facoltà di ragionare sulle prime manifestazioni della vita animale, essa avrebbe pensato che gli animali potevano un giorno raggiungere al massimo il livello dei vegetali; e già questa idea le sarebbe parsa estremamente audace. Ma, tuttavia, il suo errore sarebbe stato meno grave di quello che commetteremmo noi se immaginassimo che, siccome la vita delle macchine è molto diversa dalla nostra, essa non può raggiungere un livello superiore al nostro; o che, siccome la vita meccanica è molto diversa da quella umana, non può essere considerata veramente vita»[2].
Viviamo all’interno di questo vortice iper-costruttivista, in questa macchina “caosmica” nella quale ci si costruisce e si è costruiti nel medesimo istante e nella quale le possibilità concrete oltrepassano qualunque immaginazione.
NOTE
[1]Jean-François Lyotard, L’inumano. Divagazioni sul tempo, trad. it. di E. Raimondi e F. Ferrari, Lanfranchi, Milano 2001, pp. 29-30.
[2]Samuel Butler, Il libro delle macchine, in Erewhon (volume I), a cura di L. D. Demby, Adelphi, Milano 1975, p. 190.