La Parigi occupata di Sartre
(Pubblichiamo l’introduzione della curatrice e traduttrice a Jean-Paul Sartre, Parigi occupata, il melangolo 2020, che ringraziamo anche per la foto. A seguire, il primo testo della raccolta antologica: La Repubblica del silenzio).
di Diana Napoli
«Senza averla preparata, scatenammo un’“offensiva esistenzialista” […] Nelle settimane che seguirono la pubblicazione del mio romanzo, uscirono i primi due volumi de I cammini della libertà. Al Club Maintenant io e Sartre tenemmo delle conferenze, io sul romanzo e la metafisica, Sartre L’esistenzialismo è un umanismo? Venne messo in scena Le bocche inutili. Sollevammo un tumulto che ci sorprese. […] Non passava settimana senza che si parlasse di noi nei giornali. “Combat” commentava con approvazione tutto quello che scrivevamo e dicevamo. “Terre des hommes”, un settimanale fondato da Herbart e che uscì solo per qualche mese, ci dedicava in ogni numero molte colonne amichevoli o agrodolci. Ovunque c’era l’eco nostra e dei nostri libri. I fotografi ci assalivano per le strade, i passanti ci fermavano per strada. Al caffè Flore ci guardavano e sussurravano. Alla conferenza di Sartre vennero molte più persone di quelle che la sala poteva contenere: fu un parapiglia incredibile, addirittura molte donne svennero».
Con queste parole Simone de Beauvoir raccontava lo straordinario e “inaspettato successo” riportato da Sartre nell’immediato dopoguerra, consacrandolo come filosofo, scrittore, drammaturgo impegnato che, “prigioniero della sua epoca, l’avrebbe scelta contro l’eternità”[1]. Come del resto aveva intuito de Beauvoir, Sartre ha varcato di gran lunga i confini della sua epoca e ancora oggi potremmo dire che la sua figura si staglia nel nostro immaginario come “l’idea regolatrice della vocazione intellettuale”[2].
Filo rosso dell’itinerario sartriano è il richiamo costante all’irriducibilità del soggetto che resta “solo e senza scuse”. Da La Nausea, pubblicato nel 1938, alla Critica della ragione dialettica, uscito nel 1960 che indica la soggettività come il motore della storia tentando di conciliare il materialismo marxista con la libertà da parte dell’uomo di inventare il mondo (partendo dai suoi bisogni, dalla sua condizione di alienato o sfruttato), passando per i romanzi e per il teatro, al centro della sua riflessione rimane, per usare le sue stesse parole, lo “scandalo di un idiota che diventa genio”[3]; lo scandalo di un soggetto che, per giustificare la sua esistenza, non può fare riferimento al determinismo, alla “natura umana”, alla necessità storica, ma solo alla scelta di diventare un genio, un vile, un eroe continuando a restare (e avendo il coraggio di riconoscersi) comunque: “Solo un uomo, fatto di tutti gli uomini: li vale tutti, chiunque lo vale”[4].
Ripercorrendo l’evoluzione del pensiero di Sartre, tutti gli studiosi hanno sottolineato il ruolo centrale, il significato di vera e propria svolta, costituito dall’esperienza della guerra. Era stato mobilitato allo scoppio del secondo conflitto mondiale, vivendo quell’alienante situazione bellica che era stata la drôle de guerre per essere poi catturato dai tedeschi, dopo la firma dell’armistizio tra Francia e Germania nel giugno del 1940[5], e passare circa nove mesi in un campo prigionia, riuscendo a evadere nel marzo del 1941. Sono mesi in cui Sartre racconta di aver scoperto le forme dell’esistenza collettiva fuoriuscendo dall’individualismo che aveva fino a quel momento scandito il suo percorso. Ne è testimonianza la scrittura che consegna ai suoi Carnets de la drôle de guerre, vero e proprio laboratorio del suo pensiero filosofico in forma di diario, una scrittura che traccia, nel marzo del 1940, un autoritratto sicuramente poco compiacente:
Io sono il prodotto mostruoso del capitalismo, del parlamentarismo, del mito della centralità di Parigi e dell’ideologia del funzionario. […] A tutte queste astrazioni messe insieme devo il fatto di essere un uomo astratto e sradicato. […] Questo è il personaggio che mi sono costruito in trentaquattro anni, proprio quello che i nazisti chiamano “l’uomo astratto delle plutocrazie”. Non ho per lui alcuna simpatia e voglio cambiare. Quello che ho capito è che la libertà non è affatto il distacco stoico dai beni o dalle passioni; al contrario, essa suppone un radicamento profondo nel mondo[6].
È lo stesso Sartre a ricordare, in più occasioni[7], il momento quasi di cesura che la guerra aveva costituito nel passaggio “dalla nausea all’impegno”, come ben sintetizza il titolo di un testo che ne ricostruisce la biografia intellettuale[8]. Nel 1945, a guerra finita, Sartre è subito una celebrità filosofica e letteraria all’insegna dell’engagement, testimoniato anche dalla fondazione nel 1945 della rivista “Temps modernes” la cui presentazione ribadiva con fermezza le responsabilità dello scrittore come colui che sempre “è in situazione nella sua epoca”. Questa “svolta” evidentemente radicale a livello biografico affonda però le sue radici nel complesso percorso di riflessione della filosofia sartriana[9] la cui eco si fa sentire anche nei contributi raccolti in questo volume. Si tratta di alcuni testi scritti subito dopo la liberazione di Parigi, tra il 1944 e il 1945 (solo l’invettiva contro Drieu La Rochelle è del 1943) e che non hanno lo scopo di parlarci del Sartre “resistente”[10], ma costituiscono invece una profonda e lucida disamina della Resistenza e delle attese che essa aveva veicolato. Sartre scrive per diverse riviste clandestine[11] da “Combat”, di cui Camus era stato per un periodo caporedattore, a “Lettres françaises”, organo del Comité national des écrivains (CNE). Quest’ultimo era stato creato su iniziativa dei resistenti comunisti, grazie all’attività instancabile di Louis Aragon e al contributo di Jean Paulhan, che, da storico direttore della prestigiosa “Nouvelle Revue française”, era stato tra i promotori dell’ingresso alle edizioni Gallimard di Sartre, accolto però nel CNE solo nel 1943. Era stato probabilmente ostacolato dai comunisti che lo guardavano con sospetto a causa della sua vita privata considerata sregolata, della sua frequentazione della filosofia heideggeriana e anche forse della sua amicizia con Paul Nizan che in seguito al patto Ribentropp-Molotov aveva abbandonato il Partito Comunista Francese[12].
I contributi che presentiamo, senza perdere nulla della loro bellezza documentaria (come nel caso della cronaca dell’insurrezione di Parigi), sono capaci di trasmetterci lo slancio ideale di quell’irripetibile esperienza storica che è stata la Resistenza al nazifascismo; testimoniano l’orizzonte di aspettative che essa era stata in grado di convogliare e la fiducia nella politica come capacità di cambiare il mondo, come la cornice di una possibilità autentica della condizione umana intesa quale sovversione permanente dell’esistente. Nelle parole di Sartre, la Resistenza era stata innanzitutto la scoperta della propria radicale libertà che aveva trovato una formulazione nella frase “piuttosto la morte che…”, una frase che obbligava ad una scelta le cui conseguenze si pagavano nella solitudine più assoluta perché i resistenti (non solo l’élite dei partigiani, ma anche tutti quelli che semplicemente sapevano qualcosa) combattevano una lotta clandestina in cui ciascuno era solo di fronte alle torture, ai supplizi, alla deportazione e alla morte.
Nella Repubblica del Silenzio e della Notte che era la Resistenza “Ogni cittadino sapeva che dava se stesso per tutti e tuttavia poteva contare solo su se stesso. Ciascuno realizzava nell’abbandono più totale il proprio ruolo storico. Ciascuno, contro gli oppressori, si impegnava a essere se stesso, irrimediabilmente, e scegliendosi nella libertà, sceglieva la libertà per tutti”[13]. Sartre traccia, speculare all’uomo della Resistenza, il ritratto del collaborazionista, che però non viene connotato semplicemente dagli elementi tipici dell’ideologia o dell’immaginario fascista. Prima di ogni ideologia, all’opposto della Resistenza troviamo la resa all’empiria, al dato, l’adattamento a una situazione che non può mai essere diversa da quella presente. Incapace di immaginare, il collaborazionista invece di giudicare la realtà “in base al diritto”, “[fonda] il diritto sui fatti” ed è quindi l’incarnazione della “docilità ai fatti” nobilitata col nome di realismo che serviva solo a mascherare un “odio di sé diventato un odio dell’uomo”. Il collaborazionista rappresenta la malafede che cerca scuse per negare la libertà profonda e assoluta che ogni scelta invece realizza; veste la contingenza con gli abiti della necessità e rinunciando a progettarsi, a rischiare trascendendo l’immediatezza, sceglie la viltà, chiamandola “senso del dovere”.
L’appello al senso del dovere era stato l’asse attorno a cui il Maresciallo Pétain aveva cercato di costruire il consenso verso lo Stato di Vichy, incitando al pentimento tutti i francesi che avevano dimenticato i loro doveri facendo sprofondare la Francia nella corruzione che la disfatta militare del 1940 aveva semplicemente sancito. Contro questo discorso si era schierato Sartre con la rappresentazione de Le mosche nel 1943, fatto che, come la pubblicazione de L’Essere e il Nulla sempre nel 1943 (e la messa in scena di A porte chiuse nella primavera del 1944)[14], aveva segnato sicuramente una distanza sostanziale da coloro che durante la guerra avevano deciso di non pubblicare se non nelle edizioni clandestine o all’estero, anche se si era trattato di una scelta, in particolar modo in relazione a Le Mosche, che aveva condiviso con il CNE ricevendone il sostegno.
In continuità con il ritratto del collaborazionista dev’essere letto il Ritratto di un antisemita[15]. Indipendentemente dalle contingenze (la pervasività dell’antisemitismo nella società francese, la debolezza costitutiva della Terza Repubblica, la generale tolleranza verso l’antisemitismo inteso come un’opinione tra le tante), Sartre ci descrive l’antisemita come un uomo che sceglie di essere impermeabile all’esperienza al punto che se l’ebreo non ci fosse, lo inventerebbe. Avendo scelto di interpretare la realtà in base a una passione, l’odio, l’antisemita non ha bisogno di ragionare ed è impossibile convincerlo perché non ci sono buoni argomenti per chi ha deciso di non lasciarsi influenzare dall’esperienza, non c’è un confronto possibile per chi non crede per principio alla serietà delle parole o alla consequenzialità delle argomentazioni. Per l’antisemita tutto si riduce a un gioco con le parole, al disorientamento e al discredito dell’avversario. La sua convinzione è forte non perché si nutre dei fatti, ma proprio perché egli ha deciso, in principio, di non farsene influenzare in quanto ha intenzione non di cercare il bene, il vero, di mettersi in gioco, di valere qualcosa, ma solo di cedere alla sua perversa fascinazione per il male.
È un uomo che ha paura. Non certo degli ebrei, evidentemente, ma di se stesso, della sua coscienza, della sua libertà, dei suoi istinti, delle sue responsabilità, della solitudine, del cambiamento, della società e del mondo. Di tutto, tranne che dell’ebreo. È un vigliacco che non vuole riconoscere la sua vigliaccheria, un assassino che rimuove e censura la sua tendenza all’omicidio senza poterla però frenare del tutto e che quindi ha il coraggio di uccidere solo per interposta persona o nell’anonimato della folla. Un infelice che non ha il coraggio di ribellarsi per paura delle conseguenze della sua ribellione”[16].
Sartre, nella sua fenomenologia del collaborazionista e dell’antisemita, non ci consegna semplicemente il profilo di un uomo che aderisce al fascismo e al nazismo, ma disegna una postura nei confronti della realtà fatta di sottomissione all’empiria e di incapacità di vedere oltre, di immaginare qualcosa d’altro. Ed è su questo punto che la sua filosofia ci può venire in aiuto, con un testo del 1940, proprio per dimostrare che la cesura della guerra, benché significativa e imprescindibile, si situa all’interno della complessa articolazione del suo pensiero. Immagine e coscienza[17] si concentra infatti sull’immaginazione come cifra della libertà della coscienza nei confronti della realtà, costituendo la capacità di “irrealizzare” il mondo, di negare cioè il mondo da cui la cosa immaginata è assente. All’interno di una psicologia fenomenologica, Sartre analizza la libertà della coscienza come il riferimento intenzionale a un orizzonte noematico, il mondo, che reca però in sé la propria possibilità di negazione. L’immaginazione quindi, indica la libertà della coscienza verso la realtà o, detto altrimenti, la coscienza che immagina trascende il suo essere-nel-mondo. Senza questa “funzione” la coscienza perderebbe la sua intenzionalità, il suo tendere a un significato. Ma è proprio questo elemento che manca al collaborazionista o all’antisemita: essi non sanno “irrealizzare” il mondo e possono solo sottomettersi al fatto compiuto, disprezzando (perché sono incapaci di assumerla) la condizione stessa di uomo come soggetto radicalmente libero. Se la libertà viene tradizionalmente definita come la possibilità di scegliere con piena consapevolezza delle conseguenze, quella dell’antisemita è la libertà di sottrarsi alle responsabilità, prima di tutto a quella di essere uomo.
Quanto la Resistenza sia stata, contro la fissità del presunto realismo, un orizzonte di aspettative, emerge soprattutto nel “reportage” dell’insurrezione di Parigi. Per descrivere i giorni dell’agosto del 1944 in cui i parigini sono insorti in attesa dell’arrivo degli alleati, Sartre riprende un’espressione dello scrittore André Malraux ne L’Espoir, uno dei testi emblematici della guerra civile spagnola: “l’esercizio dell’Apocalisse”. Le aspettative che avevano animato l’insurrezione riprendevano – ripercorrendo le tappe della rivoluzione intesa come scelta radicale della libertà per se stessi e per gli altri – le questioni lasciate in sospeso dal 1789, dal 1830, dal 1848 e dal 1871 (che sempre erano state seguite da una controrivoluzione). Parigi, infatti, insorge nel 1944 in un’atmosfera di festa che sembrava riprodurre la ritualità rivoluzionaria non solo per i grandi momenti tragici che la scandiscono, ma anche per il richiamo irresistibile della piazza che spinge le persone a uscire di casa e scendere in strada. È un clima che ricorda quello del 1936, quando la classe operaia aveva invaso le città della Francia per festeggiare la vittoria alle elezioni del Fronte Popolare.
Di fronte alle imponenti manifestazioni, la borghesia si era impaurita, e aveva scambiato una semplice espressione collettiva di gioia per l’inizio di una rivoluzione. Quest’incomprensione, come aveva osservato Marc Bloch ne La Strana disfatta, era all’origine del “grande malinteso dei francesi”[18], cioè del fatto che una parte della nazione aveva smesso non solo di credere alla solidarietà, ma anche di riconoscere la legittimità delle aspirazioni delle classi più in difficoltà a condizioni di vita migliori e a una più piena partecipazione alla vita politica. La Parigi del 1944 ci riporta a questo scenario. Ci riporta non alla massa – al conformismo, alla ricerca di un capo, al linciaggio del “colpevole” – ma alla folla rivoluzionaria che agli angoli delle strade, cantando la Marsigliese e improvvisando balli popolari, festeggia “l’occasione inattesa di un ancoraggio all’utopia”[19]. Il grande malinteso dei francesi, per riprendere le parole di Marc Bloch, ci riporta al discorso ufficiale dello Stato di Vichy e in generale al clima del collaborazionismo che avevano guardato con compiacimento alla disfatta, quasi un male minore perché aveva significato la fine della corrotta Terza Repubblica e messo un punto a tutte le pericolose aspirazioni al cambiamento che il 1789 aveva gettato sulla scena della storia.
Mentre Sartre scriveva i testi qui raccolti, anche l’Italia viveva un’esperienza simile a quella da lui raccontata. Nel 1943 l’Occupazione tedesca aveva diviso il Paese in due dando vita allo Stato fantoccio della Repubblica Sociale Italiana con capitale Salò. Anche in quest’Italia divisa c’era chi, di fronte alle azioni dei partigiani, faceva appello alla concordia nel tentativo di limitare eventuali insanabili lacerazioni tra gli italiani. Giovanni Gentile, sul “Corriere della Sera”, pubblicato nella RSI, aveva scritto il 28 dicembre del 1943 un articolo dal titolo Ricostruire che nei contenuti riecheggiava l’invito all’unità nazionale e alla fedeltà al fascismo del Discorso agli italiani, pronunciato in Campidoglio il 24 giugno 1943, circa un mese prima dello sbarco degli alleati in Sicilia e della destituzione di Mussolini.
Gli argomenti di Gentile ricalcano la triade di Vichy “Lavoro, Patria, Famiglia”, così come tutta la panoplia collaborazionista della “docilità ai fatti” e della sottomissione al senso del dovere evitando la violenza[20], tranne quella contro i partigiani, ridotti a semplici “sobillatori, traditori, venduti o in buona fede, ma sadicamente ebbri di sterminio”[21]. A questo appello alla concordia risponde Concetto Marchesi, uno degli esponenti di spicco della Resistenza italiana di cui la sua Lettera aperta, pubblicata il 24 febbraio 1944 sul quotidiano socialista “Libera stampa”, potrebbe essere considerata un manifesto. Nella lettera viene messa in evidenza l’impari lotta tra il partigiano – che può contare solo su se stesso ed è “tutto esposto alle conseguenze micidiali del suo atto micidiale” – e il potere nazifascista che non esita a ricorrere alle rappresaglie, parola con cui si legittimava un “assassinio in massa su persone necessariamente innocenti”. Accomodarsi a questa situazione, essere “docili ai fatti”, essere “realisti” significa solo, per Concetto Marchesi, cedere a una “residenza inerte e fangosa di delitti e di smemorataggini”. Rivolgendosi a Gentile osserva:
Ma guardate, signor professore, quello che succede ora nelle città della vostra Italia repubblicana. […] Con chi devono accordarsi ora, i cittadini d’Italia? Coi tribunali speciali della repubblica fascista o coi comandi delle S.S. germaniche? […] Concordia è unità di cuori, è congiunzione di fede e di opere, è reciprocanza d’amore; non è residenza inerte e fangosa di delitti e di smemorataggini. Quanti oggi invitano alla concordia, invitano ad una tregua che dia temporaneo riposo alla guerra dell’uomo contro l’uomo. No: è bene che la guerra continui, se è destino che sia combattuta. Rimettere la spada nel fodero, solo perché la mano è stanca e la rovina è grande, è rifocillare l’assassino. La spada non va riposta, va spezzata. Domani se ne fabbricherà un’altra? Non sappiamo. Tra oggi e domani c’è di mezzo una notte ed un’aurora”[22].
[1] S. DE BEAUVOIR, La force des choses, I, Paris, Gallimard “Folio”, 1963, pp. 60 e ss. tr. it. di B. Garufi, La forza delle cose, Torino, Einaudi, 2008
[2] Pierre Bourdieu nella prefazione a A. BOSCHETTI, L’impresa intellettuale. Sartre e “Les Temps modernes”, Bari, Dedalo, 1984, p. 6.
[3] J.-P. SARTRE, L’Idiot de la famille. Gustave Flaubert de 1821 à 1857, Paris, Gallimard, 1971-1972, tr. it. di G. PAVOLINI, L’Idiota della famiglia. Gustave Flaubert dal 1821 al 1857, Milano, Il Saggiatore, 2019.
[4] Si tratta del finale di Les mots: “Tout un homme, fait des tous les hommes et qui les vaut tous et vaut n’importe qui” (J.-P. SARTRE, Les Mots, Paris, Gallimard, 1964, p. 213, tr. it di L. de Nardis, Le parole, Milano, Il Saggiatore, 1965. È, in parte, anche il significato dell’opera teatrale Il Diavolo e il buon Dio (1951) in cui il protagonista fallisce nel compiere sia il bene che il male assoluto quando si prende per Dio e non gli resta, alla fine, che riconoscersi solo come uomo.
[5] L’armistizio aveva sancito la divisione della Francia in una zona Nord occupata dai tedeschi e in una zona Sud, lo Stato di Vichy, con a capo il maresciallo Pétain, che aveva sostituito la triade repubblicana “Liberté, égalité, fraternité” con quella, di ispirazione fascista, “Travail, famille, patrie”. La zona sud venne comunque occupata dai tedeschi alla fine del 1942 in seguito allo sbarco (e alle conseguenti vittorie) degli Alleati in Nordafrica.
[7] “Ce que je vois de plus net dans la vie, c’est une coupure qui fait qu’il y a deux moments presque complètemet séparés, au point que, étant dans le second, je ne me reconnais plus très bien dans le premier, c’est-à-dire avant la guerre et après” (Intervista del 1975 a Michel Contat, citata da P. SABOT, Littérature et guerre. Sartre, Malraux, Simon, PUF, Paris, 2010, p. 15.)
[9] Perfettamente delineato da Pier Aldo Rovatti, per cui Les mots riescono a “portare avanti le esigenze espresse nella Critica alla ragione dialettica: la necessità di fondare il discorso storico-dialettico rimandandolo alla singola prassi soggettiva per ricostruire il processo a partire dalla individuazione concreta. È dunque lecito affermare che già in Les mots si realizza il progettato secondo tomo della Critica”. Rovatti cita a questo proposito un articolo di Paci per cui Les mots potrebbero costituire il secondo volume della Critica (P.A. ROVATTI, Che cosa ha veramente detto Sartre, Roma, Astrolabio, 1969, p. 6).
[10] Come suggerisce, peraltro in maniera molto critica verso Sartre, S.R. SULEIMAN, Crises de mémoire. Récits individuels et collectifs de la Deuxième Guerre mondiale, Presses Universitarires de Rennes, 2012, pp. 19-39.
[11] Subito dopo la prigionia, Sartre aveva fondato un gruppo clandestino, Socialisme et liberté, che però si era sciolto dopo pochi mesi di fronte al delinearsi delle grandi correnti della Resistenza.
[14] Per una ricostruzione del contesto e delle reazioni in merito alla pubblicazione e alle rappresentazioni delle opere di Sartre durante l’occupazione, cfr. I. GALSTER, Sartre sous l’Occupation et après, Paris, L’Harmattan, 2014 e ID. Sartre, Vichy et les intellectuels, Paris, L’Harmattan, 2001.
[15] La versione pubblicata in Situations, II, Paris, Gallimard, 2010 nuova ed., è la prima parte del più ampio saggio Réflexions sur la question juive pubblicato nel 1946 (tr. it. di I. WEISS, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, Milano, Ed. di Comunità, 1947).
[17] Cfr. J.-P. SARTRE, L’imaginaire, Paris, Gallimard, 1940, tr. it. di E. Botasso, Immagine e coscienza, Torino, Einaudi, 1960.
[18] Cfr. M. BLOCH, L’étrange défaite, Paris, Gallimard, 1990 (1946), p. 194 e ss. (tr. it. di R. COMASCHI, La strana disfatta, Torino, Einaudi, 1995). È interessante leggere in parallelo le osservazioni di Sartre sui collaborazionisti raccolte in questo volume e l’analisi della disfatta del 1940 di Bloch.
[19] Cfr. Introduzione, M. OZOUF, La fête révolutionnaire (1789-1799), Paris, Gallimard, 1976, tr. it. di F. Cataldi Villari, La festa rivoluzionaria, Bologna, Patron, 1982.
[20] Gentile era stato fatto oggetto di numerosi attacchi da una parte della stampa della RSI che aveva fabbricato di sana pianta delle accuse contro di lui, ritenuto colpevole di essersi tenuto in disparte in alcuni momenti della storia del fascismo. Sulle prese di posizione di Gentile a favore di Mussolini e del suo desiderio di essere utile alla RSI cfr. M. FORNO, Intellettuali e Repubblica sociale. L’osservatorio del “Corriere della sera”, in “Contemporanea”, 5, aprile 2002, pp. 315-328.
[22] Ivi, pp. 449 e ss. Canfora ricostruisce anche le diverse versioni e la storia della circolazione del testo di Marchesi.
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di Jean-Paul Sartre
Non siamo mai stati così liberi come sotto l’occupazione tedesca. Avevamo perduto ogni diritto e prima di tutto quello di parlare; ci insultavano apertamente, ogni giorno, e dovevamo tacere; ci deportavano in massa, come lavoratori, come ebrei, come prigionieri politici; ovunque – sui muri, sui giornali, sugli schermi – ritrovavamo l’immagine immonda e insulsa che i nostri oppressori volevano darci di noi stessi: ma proprio per questo eravamo liberi. Il veleno nazista si insinuava nel profondo dei nostri pensieri e quindi ogni pensiero giusto era una conquista; una polizia onnipotente cercava di costringerci al silenzio e quindi ogni parola diventava preziosa come una dichiarazione di principio; eravamo braccati e quindi in ogni nostro gesto gravava il peso dell’impegno.
Le circostanze spesso atroci della nostra lotta ci rendevano finalmente in grado di vivere, senza trucchi e senza veli, questa situazione straziante, insostenibile che chiamiamo la condizione umana.
L’esilio, la prigionia, ma soprattutto la morte, che in epoche più fortunate riusciamo abilmente a dissimulare, erano diventati gli oggetti perpetui delle nostre preoccupazioni perché avevamo imparato che non si trattava di accidenti evitabili o di minacce costanti ma esterne: ci giocavamo la nostra partita, erano il nostro destino, la fonte profonda della nostra realtà di esseri umani. Ogni istante vivevamo in tutta la sua pienezza il senso di questa semplice frase banale: “Tutti gli uomini sono mortali”. La scelta che ciascuno faceva per sé era autentica perché era compiuta di fronte alla morte e avrebbe potuto sempre esprimersi nella forma: “Piuttosto la morte che…”. E non sto parlando dell’élite costituita dai veri Resistenti, ma di tutti i francesi che a qualunque ora del giorno e della notte, per quattro anni, hanno detto no. Proprio la crudeltà del nemico ci spingeva all’estremo della nostra condizione di uomini, costringendoci a porci quelle domande che generalmente eludiamo in tempo di pace: tutti quelli che erano a conoscenza di qualche dettaglio sulla Resistenza – e a quale francese non è capitato almeno una volta – si domandavano con angoscia: “Se sarò torturato, resisterò?”. La questione della libertà sta in questi termini, è il momento in cui siamo portati ai limiti della conoscenza più profonda che possiamo avere di noi stessi. Il segreto di un uomo, infatti, non è il suo complesso di Edipo o di inferiorità, ma il confine stesso della sua libertà, il suo potere di resistenza ai supplizi e alla morte.
Per tutti coloro che si sono trovati coinvolti in attività clandestine, le modalità della lotta sono state l’occasione per un’esperienza nuova, perché non combattevano alla luce del sole, come fanno i soldati di un esercito; braccati nella solitudine, arrestati nella solitudine, si trovavano a resistere alle torture nell’abbandono e nella più completa privazione. Erano soli e nudi davanti ai loro boia ben rasati, ben vestiti e ben nutriti che si prendevano gioco della loro miserabile carne e a cui una coscienza soddisfatta e un potere sociale smisurato offrivano tutte le apparenze della ragione. E tuttavia questi uomini, nella solitudine più profonda, difendevano gli altri, tutti gli altri, tutti i compagni di resistenza. Una sola parola era sufficiente per provocare dieci, cento arresti. E questa responsabilità totale nella solitudine totale che cos’è se non il disvelamento della nostra libertà? L’abbandono, la solitudine, il rischio elevato, erano gli stessi per tutti, non solo per i capi, ma per qualunque uomo. La pena era la stessa per chi portava messaggi di cui ignorava il contenuto, come per chi prendeva le decisioni: la prigione, la deportazione, la morte. Non c’è nessun esercito al mondo in cui ci sia una tale uguaglianza di rischi per il soldato e per il grande generale. Ed ecco perché la Resistenza è stata una vera democrazia: per il soldato come per il capo, stesso pericolo, stessa responsabilità, stessa assoluta libertà nella disciplina. Così, nell’ombra e nel sangue, si è costituita la più forte delle Repubbliche. Ogni cittadino sapeva che dava se stesso per tutti e tuttavia poteva contare solo su se stesso. Ciascuno realizzava nell’abbandono più totale il proprio ruolo storico. Ciascuno, contro gli oppressori, si impegnava a essere se stesso, irrimediabilmente, e scegliendosi nella libertà, sceglieva la libertà per tutti. Ogni francese doveva conquistare e difendere contro i nazisti, istante per istante, questa repubblica senza istituzioni, senza esercito, senza polizia. Eccoci ora alle soglie di un’altra repubblica: possiamo solo augurarci che sappia conservare le austere virtù della Repubblica del Silenzio e della Notte.
9 settembre 1944
[1] Questo testo, subito diventato famoso, è stato pubblicato nel primo numero non clandestino di “Lettres françaises”, il 9 settembre 1944 per essere poi ripreso in “L’Éternelle Revue”, 1, nuova serie, dicembre 1944, rivista diretta da Louis Parrot. È stato inserito nella prima edizione di Situations, III (1949), dedicato a Jacques-Laurent Bost, allievo e poi amico di Sartre e di Simone de Beauvoir.
Le austere virtú della Repubblica del Silenzio e della Notte….Caspita se sapeva scrivere Sartre, idem la compagna della sua vita…..Maitres á penser della vita intellettuale di Parigi e oltre? L’ídealizzazione di un Che Guevara in visita a Parigi e poi a Cuba? Che Guevara? E Pol Pot forse anagramma dell aggruppazione Politique Potentiel sempre a Parigi? Certo che capita di sbagliarsi, eccome,,,,Ma noi che siamo postumi per etá non per valutazione critica, vogliamo continuare con le messe funebri?