TINA. Storie della grande estinzione
Per Aguaplano è uscito recentemente TINA. Storie della grande estinzione. TINA è un autore collettivo coordinato da Matteo Meschiari e Antonio Vena; come prima esplorazione del libro, ospito qui un vasto contributo di uno degli scrittori coinvolti nel collettivo: Stefano Trucco.
STEFANO TRUCCO
Io e TINA
‘Stefano, questa cosa qui sembra fatta per te’.
Ricordo perfettamente in che stato ero quando un amico mi segnalò, l’autunno scorso, che qualcuno stava cercando autori per un romanzo collettivo, anzi ‘diffuso’, per mezzo di una open call su Facebook.
Ero in uno stato di torpida stagnazione, a voler essere generosi. Scazzato, per usare un’espressione più pop. Il mio secondo romanzo, pubblicato qualche mese prima, non mi aveva portato né fama né fortuna. Rimanevo un aspirante scrittore conosciuto giusto da qualche amico, ‘troppo letterario per il genere e troppo di genere per il letterario’, e non potevo nemmeno lamentarmi, perché quello era esattamente il modo in cui volevo e riuscivo a scrivere e non potevo certo convincere il pubblico a farselo piacere se non ne voleva sapere – già tanto aver trovato un editore coraggioso che aveva avuto pietà di me.
Quindi ero in pieno ‘chi me lo fa fare?’, dato che scrivere è piacevole sì ma anche faticoso e la mancanza di qualsiasi riconoscimento alla lunga mina la volontà. Dai, lascia perdere, un paio di testimonianze scritte le hai lasciate, magari fra un secolo le riscoprono. Torna a leggere.
Sì, tornare a leggere, come ho sempre fatto. Ma cosa? Perché anche lì c’era un problema. Quell’autunno ero sempre più immerso nel passato; quel giorno in particolare stavo leggendo con immenso piacere la biografia di Maria Stuarda a opera di Antonia Fraser e sentivo di non voler mai più uscire dall’epoca moderna. Il mio rifiuto del contemporaneo stava raggiungendo livelli patologici.
Da vero uomo del Novecento continuavo a informarmi, più o meno bene: non riesco a fare meno delle notizie, a partire dalla striscia del TG5 con le previsioni del tempo al mattino quando mi sveglio per andare al lavoro e dal Secolo XIX al bar insieme al cappuccino e alla focaccia con le cipolle. Mettici poi, nel corso della giornata, il Post, il Guardian e il New Yorker – ma basta, che oltretutto ogni notizia non sembrava nemmeno più uno shock o una ferita quanto proprio un insulto e chi me lo faceva fare di essere insultato? Mi informavo perché ero abituato e per quelle informazioni necessarie a chi si è ritrovato a vivere in questo here and now e non può farci niente.
Ma il piacere che provavo leggendo di Maria Stuarda che in compagnia di pochi fedelissimi fugge dalla Scozia dopo la battaglia di Langside per consegnarsi nelle mani della sua mortale nemica, la regina Elisabetta d’Inghilterra, si stava colorando di un certo fastidio: stavo affondando nel passato e non era una buona cosa. Il rifiuto del presente non è mai una buona cosa: avevo letto troppa storia per non saperlo.
Così mi trovavo particolarmente ricettivo quando l’amico mi segnalò l’open call di Tina per un romanzo diffuso dell’Antropocene. Avevo bisogno di stimoli nuovi, come scrittore e come umano.
Antropocene, quindi. Il termine non mi era nuovo ma ovviamente non avevo approfondito. Approfondii. Ci stava, corrispondeva a qualcosa di reale e a qualcosa di contemporaneo e non se era nuovo nella sua realtà effettuale lo era nella percezione culturale e mediatica. Ecco, pensai, potrebbe essere un buon punto di partenza per riprendere contatto col mondo d’oggi.
Nota bene: dei quattro motivi per cui secondo George Orwell si scrive io sottoscrivo pienamente solo il primo, la vanità. ‘Desiderare di sembrare intelligente, essere al centro di discussioni, essere ricordato dopo la morte, avere il giusto riconoscimento dagli adulti che ti snobbavano quando eri bambino, ecc. ecc.‘.
No apologies, per dirla con Bon Jovi. E nessuna scusa anche per una profonda diffidenza per quell’arte che vorrebbe mettersi al servizio di un’idea o di un progetto politico, o anche solo voglia dimostrare una tesi e non sia solo (solo?) crocianamente espressione di un sentimento individuale che si proietta sul mondo. Sono e rimango uno scrittore individualista e fermamente tradizionale.
Eppure…
Eppure eccomi felicemente parte non solo di un testo al servizio di un’idea ma pure sostanzialmente anonimo, uno dei cento e più contributori di TINA, fra autori e illustratori, elencati alla fine in rigoroso ordine alfabetico. Non solo, mi sono pure impegnato, informalmente, a non rivelare quali sono i pezzi che ho scritto e infatti non lo farò, per quanto mi costi.
La prima cosa che notai era che la lista di scenari pubblicata sul blog La Grande Estinzione da Matteo Meschiari e Antonio Vena era una lista di scenari storici, e io ho letto sempre più storia che narrativa. In più gli scenari per i quali si chiedevano contributi andavano dalla Grande Ossidazione alla Brexit passando per tutti i ‘cigni neri, clusterfuck, collassi, catastrofi, battaglie militari, calamità post-natura, shift culturali estremi, crisi dell’umano ecc.’ che hanno caratterizzato la nostra carriera come specie, e erano scelti con una certa originalità. Ce n’erano di ovvi e di per niente ovvi, fra cui, un episodio storico vagamente ridicolo e pochissimo noto che attirò subito la mia attenzione dato che io invece lo conoscevo bene. La maggior parte degli scenari erano già stati prenotati ma non quello, ovviamente. Mi feci avanti. Accettato. Poi un altro che nessuno pareva volere. Imbaldanzito, ne proposi uno su un’area storico-geografica sottorappresentata, che fu accettato. Ma scusa, non hai appena detto che volevi uscire dall’ossessione per la storia? Sì, ma qui c’era un punto di vista diverso e per me nuovo.
Mi misi al lavoro. Entrai in contatto con Meschiari e Vena. Entrai in contatto con altra gente interessante. Provai la per me nuovissima e un po’ unheimlich sensazione di far parte di un collettivo (il lavoro che mi paga le bollette non conta). Mi tornava la voglia di scrivere. Consegnai i miei tre pezzi con rapidità e efficienza, così che quando qualcuno diede buca mi trovai a scriverne altri: la mentalità da scrittore di genere ha i suoi lati positivi. Scoprimmo, con una certa meraviglia ma anche piacere, che il libro sarebbe stato illustrato da una gran numero di illustratori, coordinati da Rocco Lombardi. Poi i curatori proposero una serie di scenari futuribili. Fantascienza! Il mio genere di origine e di cuore, anche se poi, per qualche motivo, ho finito per scrivere di tutto tranne che fantascienza. Comunque, romanzo storico e fantascienza, i gemelli biovulari fra i generi. Il progetto assumeva dimensioni impreviste e anche più interessanti. Studiavo. Anonimato e tutti gli eventuali diritti d’autore vanno a Extinction Rebellion – d’accordo.
L’8 febbraio ci fu una presentazione pubblica a Parma, alla libreria Diari di Bordo, presenti i curatori e parecchi degli autori. Potemmo finalmente vedere un primo draft del libro. Clima festoso. Non c’era ancora un editore ma intanto si avanzava. L’editore, Aguaplano, arrivò. Intanto avevo cominciato un nuovo romanzo: i temi erano del tutto miei e non dovevano intellettualmente nulla a TINA e all’Antropocene ma psicologicamente gli dovevano tutto. Mi ero svegliato. Mi avevano svegliato.
Solo che eravamo sull’orlo dell’abisso e nel giro di un mese eravamo tutti chiusi un casa, stretti fra la catastrofe pubblica e i pericoli privati. Nulla poteva dimostrare meglio l’interesse di un progetto come La Grande Estinzione ma il piano di presentarlo al Salone di Torino a maggio saltò insieme al Salone.
L’inquieta e meravigliosa tregua estiva, quando pensavamo di avercela fatta e di essere stati bravi, consentì di lavorare ancora sul testo. Doveva uscire in ottobre. Ci sarebbe stata una nuova presentazione pubblica, a Bologna. Solo che non ci fu: con invidiabile tempismo era arrivata la seconda ondata. Non eravamo stati bravi come pensavamo. La Grande Estinzione era veramente il libro dell’anno 2020, in tutti i sensi.
Ora eccolo, è qui. Posso finalmente vederlo e toccarlo e niente, è proprio un bell’oggetto, dalla copertina, alle illustrazioni, alla pura e semplice cura con cui è stato creato da Aguaplano. Soprattutto posso leggerlo, come un lettore qualsiasi.
Non è il caso di recensire un testo cui ho partecipato (e fra l’altro – full disclosure – pubblicato dal mio stesso editore) ma descriverlo un po’ sì. Proprio da lettore perché fino all’uscita io non sapevo nulla degli altri contributi.
I più di 150 scenari sono raggruppati, in un cenno di saluto al Decamerone di Boccaccio citato in esergo, in 7 giornate tematiche – Collasso, Shock Cognitivo, Spettri (del futuro, del ripetibile), Il problema di Grendel, Archeologie dell’orrore, Estinzione, Il fato delle forme – ma chiaramente l’effetto è estremamente accidentato. Gli scenari sono estremamente diversi fra di loro, per tono, per stile, per tecnica. Gli eventi storici e futuri dialogano sopra l’abisso del tempo e si passa rapidamente dalla guerra greco-gotica al naufragio della Medusa, dalla Grande Ossidazione alla Brexit, dalla fine dei Neanderthal alla carestia ucraina, dalla battaglia di Gaugamela a Boko Haram, dall’anno senza estate all’invasione mongolica, dal collasso dell’Isola di Pasqua alla Guerra dei Mondi di Orson Welles per poi proseguire con il blackout di Internet nel 2025, la distruzione atomica di Belgrado nel 2043, il catastrofico programma di geoingegneria europeo del 2052, la Grande Depressione psichica del 2074 e, ominosamente, la scoperta, nel 2104, che siamo assolutamente soli nell’Universo e che nessuno, assolutamente nessuno, ci può aiutare.
Tecniche diverse, dicevo: si va dal micro-saggio storico al ‘piccolo romanzo fiume’, dalla scena di film alla pagina di diario, a volte si sfiora la poesia, a volte si sguazza nel trash, chi punta al comico, chi abbraccia la tragedia, chi dialoga e chi descrive. Per quanto mi riguarda, dico solo che per i miei pezzi scelsi la narrazione. C’è un forte sentore di Wunderkammer, di Grunes Gewolbe e le sorprese sono continue.
Di TINA si può dire tutto tranne che scorra. Scorrere sarà pure un feticcio del romanzo industriale ma non lo butterei via; noi aspiranti scrittori di genere in genere l’apprezziamo, la scorrevolezza. Georges Simenon, la cui mente non era praticamente mai sfiorata da un’idea, scorreva che è un piacere e provateci voi, se ci riuscite.
Ma la scorrevolezza, appunto, può essere un feticcio e un limite, proprio come la leggerezza calviniana, quello che scorre può farlo da un orecchio all’altro e non lasciare alcun residuo, e ci sono altri modi per narrare, per esempio l’epica e l’epica può fare tutto tranne che scorrere, l’epica deve restare. Meglio fare un po’ più di fatica, compensata dalla varietà dei panorami e degli incontri, e affrontare il sentiero di montagna che rimanere sempre sull’autostrada che ti porta da A a B.
Comunque l’effetto di frammentazione è attenuato dal tessuto connettivo fra i vari racconti, che non vengono abbandonati a se stessi ma tenuti insieme dal commento continuo di Matteo Meschiari e Antonio Vena, un commento che oscilla costantemente fra il saggio e la fiction. Il tono di questa ricca cornice in cui sono incastonati gli scenari è informativo, sapienziale, ipotetico e teatrale. Teatrale nel senso di eloquente: nella vulgata moderna per teatrale si intende di solito ‘falso’; io invece penso al tono teatrale come quel tono che ‘accentua’ tutto ciò che racconta, un tono che anche quando vuol essere naturale è sempre sottolineato e in corsivo. In breve, il tono che vuole dare importanza alle cose importanti e vuole che ve le ricordiate.
Una delle caratteristiche di TINA è la ricchezza di idee, praticamente in ogni pagina c’è uno spunto di riflessione o un dato o un’immagine, tanto da ricordarmi certi miei autori feticcio come Marshall McLuhan e Leslie Fiedler – a volte persino troppo ma in questo caso meglio troppo che troppo poco. Un’altra è la proiezione mondiale: gli autori sono, credo, tutti italiani ma il palcoscenico è il mondo, tutto il mondo, e il tempo, tutto il tempo. A occhio direi che gli scenari strettamente italiani sono pochi. Per una volta possiamo abbandonare i nostri meravigliosi e soffocanti centri storici e la povertà del dibattito culturale italiano recente e respirare. Ed è un bel respirare perché non è la riproposizione all’amatriciana di un qualche schema socio-culturale anglofono ma una cosa sostanzialmente nuova e originale. Italiano nel senso di inserirsi in modo originale in tutta la nostra lunga tradizione storico-realistica, l’asse portante della nostra letteratura declinato per il XXI secolo e libero da modelli logori e un po’ oppressivi.
Sul concetto di Antropocene e sulle idee che sottostanno a tutto il progetto non vorrei dire molto: sto ancora studiando. Ma restando al tono una cosa si può dire (e specifico che l’opinione è mia e non necessariamente dei curatori): TINA fa parte di un sentimento molto contemporaneo e cioè quello per cui non è più tempo di allarmi ma che la catastrofe è già cominciata. Non si tratta più (o non solo) di combattere il cambiamento climatico o di difendere la biodiversità perchè ormai ci siamo dentro, il cambiamento è cominciato e tornare indietro non è possibile. Non ci sono soluzioni ‘sostenibili’ che ci permettono di tirare avanti come prima e non è nemmeno possibile ‘cambiare tutto perchè non cambi nulla’. Che siamo nel bel mezzo di un meccanismo di sfida-risposta e la risposta è sempre e comunque un cambiamento e che il passato, che comunque ha la curiosa abitudine di non passare mai veramente, quando torna lo fa per finta, un futuro travestito da tradizione.
L’idea sottostante al progetto è anche riassunta nel motto ‘Fiction is action’, perchè TINA, che pure non è avaro di suggerimenti pratici, vorrebbe ricaricare l’immaginario collettivo e individuale per prepararlo ai suoi nuovi compiti, compiti che non sono facoltativi e direi che il 2020 ci ha ampiamente informati della cosa. Vasto programma, si potrebbe dire, ma uno usa le armi che si ritrova per le mani e cerca di acquisirne di migliori e più potenti. La open call potrebbe aver segnalato chi saranno gli scrittori italiani di domani – dita incrociate.
Non è che per forza io segua in tutto Meschiari e Vena. Ho già detto che tipo di scrittore io sia. Ho già fatto la mia dichiarazione di fede in Don Benedetto Croce e nel fatto che la conoscenza sia intuitiva oppure logica, per la fantasia o per l’intelletto, dell’individuale o dell’universale, dei singoli o delle loro relazioni, e che in definitiva produca immagini oppure concetti. Però so anche che non basta. Non basta più. Meschiari soprattutto torna spesso nei suoi libri sul tema dei saperi e a volte è piuttosto sarcastico nei confronti dei letterati odierni e della loro allergia al buon vecchio sapere le cose e a me, vecchio novecentesco, tornano alla mente gli intellettuali di un tempo, i Calvino, i Moravia, gli Eco, gli Arbasino, i Pasolini, le Ginzburg, persino i Soldati, con le loro competenze enciclopediche e la loro necessità di essere sempre al corrente di tutto – politica, arte, scienza etc – e non solo dei romanzi o film o serie da non perdere in uscita. Modelli che forse avevo scaricato e che forse non era il caso.
Quindi bene, ci sto. Però penso anche che il romanzo ‘borghese’ o ‘neoliberale’ non sia per forza il Male. Le storie incentrate sugli individui e sui loro rapporti interpersonali hanno un loro pubblico e lo avranno sempre e non producono solo stanchi collage di clichè e strategie editoriali perdenti ma anche testi e immagini che ci dicono qualcosa di noi. Detto questo, è giusto, è persino necessario, che la letteratura italiana recuperi il mondo, recuperi la storia, recuperi la natura, recuperi l’immaginazione, recuperi l’epica, e questo a me pare un buon primo passo.
E non è nemmeno solo una questione di letteratura, è qualcosa di un po’ più grande e decisivo. Come mi è capitato di leggere di recente non ricordo dove (ne sai qualcosa, Giorgiomaria?) : “La finzione al suo grado massimo vincola il reale, lo forza a generare un piano di attualizzazione; per questo colui che partecipa alla creazione delle immagini influenza attivamente il tessuto storico, ne devia i flussi, le narrazioni; ne manipola la psicomachia”.
Per concludere, che io mi sto divertendo ma voi non so e vi vedo guardare l’orologio: Meschiari e Vena spesso parlano dell’esaurimento della narrazione distopica e suggeriscono di ricorrere all’ucronia. Lei? La vecchia ‘storia alternativa’ o ‘universo parallelo’? ‘La svastica sul sole’? ‘Il complotto contro l’America’? ‘Contro-passato prossimo? ‘Pavana’? Uno dei miei generi preferiti ma tutto sommato un genere minore? Sì, lei, un genere minore appunto ma anche una chiave per qualcosa di più grande. Uno dei miei miti personali, Niklas Luhmann, ha in qualche modo suggerito che l’Arte al fondo sia tutta un Ucronia. In Luhmann Arte e Negazione sono in stretto rapporto simbiotico, perchè la possibilità di dire No alla realtà è ciò che ci rende umani e fa evolvere la società. Mi autocito (ehi, ve l’ho detto che scrivo per vanità): “In Luhmann la Negazione ha un primato funzionale, che permette di mantenere accessibile il mondo nonostante l’inevitabile selettività operativa dei sistemi sia sociali che psichici. La Negazione rimanda a altre possibilità oltre a quelle effettivamente attualizzate e permette di costituire il senso di ogni comunicazione e di ogni pensiero. Non per niente, il senso, che è il centro di tutto il sistema luhmaniano, è una forma specifica con due lati, reale e possibile, ma anche attuale e potenziale. Nella teoria la negazione ha qualcosa in comune con l’Arte, il mezzo di comunicazione generalizzato simbolicamente che aspira a riattivare delle possibilità rimosse in quanto altre possibilità sono diventate reali, mostrando come sia possibile in quest’ambito un ordine dotato di una sua necessarietà insita esclusivamente nell’opera stessa che però rimanda alla possibilità del mondo – che è un po’, secondo me, quel che vuole fare il Progetto TINA”.
E dopo questo gran finale a orchestra spiegata mi limito a ricordarvi che La Grande Estinzione ‘can be a lot of fun’.
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Stefano Trucco è nato nel 1962 a Genova, dove vive e lavora come bibliotecario. Ha pubblicato i romanzi ‘Fight Night’ (Bompiani, 2014) e ‘Il Gran Bazar del XX secolo’ ( Aguaplano, 2019) e il racconto lungo ‘1958. Una storia dell’Età Atomica’ (Intermezzi, 2018).
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Grazie a Giorgiomaria e complimenti a Stefano!
le litigate tra Matteo Meschiari e Giulio Milani cosa più imbarazzante del web paraeditoriale 2020