Sopra una fotografia di camion nella notte (opinioni di un disadattato)
di Giorgio Mascitelli
Molti di noi tratterranno a lungo nella mente la fotografia in cui i camion dell’esercito trasportavano di notte le salme dei morti di Covid 19 da Bergamo ai crematori dell’Emilia. Credo che il motivo sia, al di là delle ovvie circostanze emotive, che questa è una foto di altri tempi o quanto meno di altri luoghi. Benchè questa non sia un’immagine parlante e in futuro avrà bisogno di una didascalia che ne spieghi il contesto e l’oggetto preciso e la morte non sia richiamata direttamente nella città spettrale in cui passano i mezzi, è evidente che una colonna di camion militari nella notte non solo non evoca nulla di buono, ma soprattutto nulla di quanto il senso comune ritiene che ci sia prossimo.
La recente epidemia con il suo luttuoso lascito ha portato una ventata di interesse e di riletture della tesi dello storico francese Ariès sulla tendenza delle società capitalistiche a tabuizzare la morte. Ariès sostiene infatti che, a partire dal Duecento contestualmente alla diffusione della dottrina del giudizio individuale dell’anima immediatamente dopo la morte corporale e non più solo alla fine dei tempi nel quadro del giudizio universale, si passa lentamente da una concezione della morte come evento quotidiano da trattare quasi con confidenza alla morte come evento straordinario e luttuoso, che raggiunge il suo culmine nel Romanticismo, invece a partire dal Novecento si assiste a una rimozione della morte e del lutto dalla vita sociale come se fosse un evento privato e un po’ sconveniente, sostituendosi al sesso come tabù principale. Ariès precisa che questa tendenza è lungi dall’essere univoca, per esempio, quando scrive alla metà degli anni settanta, dice che essa non ha ancora attecchito nei paesi europei di cultura cattolica e anche negli Stati Uniti, paese d’origine di questo nuovo tabù, sussistono non solo sacche di resistenza ma anche controtendenze. Insomma la morte come tabù appare essere per Ariés una tendenza importante ma non assoluta della nostra società. In effetti, se analizziamo la fotografia di Bergamo alla luce di questa tesi, si nota che da un lato essa non mostra la morte, dall’altro vi allude proprio nella sua sobrietà e nel suo essere indiretta e per così dire bisognosa di didascalia. Certamente è lontana anni luce dai modi mediatici di rappresentazione della morte attraverso la sua spettacolarizzazione, che è un modo per rispettare il tabù di cui sopra anestetizzando il pubblico per sovraesposizione: si pensi alle lucine verdi da videogioco con cui la televisione nel 1991 rappresentava il bombardamento di Baghdad o alla fotografia di un uomo che moriva di AIDS per una campagna pubblicitaria di maglioni.
Naturalmente il valore dell’immagine non è solo un fatto intrinseco alla sua forma, ma nasce anche dalla sua ricezione: per spettacolarizzare la morte nei bombardamenti di Baghdad non bastavano le lucine verdi, ma ci voleva qualcuno disponibile a credere che in fondo fosse soltanto un videogioco, così la sobrietà tragica della fotografia dei camion nasce da una disposizione d’animo diffusa a guardare cose a cui, comprensibilmente, non si guarda volentieri. E’ probabile che se questa fotografia non fosse stata presa e diffusa durante il periodo della quarantena, cioè in un periodo di sospensione forzata dei normali ritmi temporali della nostra vita sociale, si sarebbe persa nel rumore di fondo e nel ciclo rapido di apparizione e scomparsa delle immagini tipico dei nostri media e non si sarebbe colta la sua qualità dirompente rispetto al tabù della morte. E invece, nella disarticolazione e confusione seguite all’introduzione della quarantena, perfino gli operatori mediatici più tradizionali sono stati liberi di dare espressione a una loro umana emozione. Certo è chiaro che questa ricezione dipende anche dalla vicinanza dei luoghi e dei fatti, è da immaginare che questa fotografia in altri paesi non abbia avuto il medesimo impatto, così come è accaduto tante volte a parti inverse ovviamente.
Furio Jesi ne Il tempo della festa scrive che l’unica esperienza possibile nel mondo moderno della festa nel senso tradizionale del termine è quella della festa crudele, cioè quella che ha al centro il dolore e il lutto, per chiarire sceglie come esempio di feste crudeli sia l’assalto al forno delle Grucce sia la peste di Milano descritti nei Promessi sposi e ai quali Renzo si trova a partecipare involontariamente. Ora questi esempi, un moto di piazza e un’epidemia, chiariscono che la qualità essenziale della festa per il mitologo non consiste nella sua periodicità o ritualità o tanto meno nel suo spirito ludico, ma nel fatto di essere un momento collettivo di sospensione del normale ordine temporale di una società. Il festivo è insomma ciò che è fuori della scansione abituale del tempo. La fotografia di Bergamo naturalmente non è un’immagine festiva in questa particolare accezione perché la dimensione spettrale della città notturna confligge con l’aspetto collettivo dell’esperienza festiva, anche se triste ( nei Promessi sposi anche durante la peste c’è sempre in giro qualcuno: monatti, sbirri, untori, preti, Renzo stesso); come anche la quarantena è stata un’esperienza di rottura e grave da sopportare, si pensi a single abituati a un’intensa vita sociale per esempio o a coloro che vivono in appartamenti molto piccoli, in ragione proprio della sua natura innanzi tutto solitaria ed esclusiva.
Eppure nella quarantena un aspetto festivo c’è stato ed è quello della sospensione dei ritmi sociali abituali: non è stata un’esperienza omogenea perché per esempio molte persone con il lavoro da casa hanno sperimentato una dilatazione della durata interiore del tempo di lavoro tramite l’invasività delle tecnologie informatiche, una sua mescolanza con il tempo domestico e con la sospensione di tutta una serie di sussidi e cure che aiutavano l’organizzazione della quotidianità, ma nel complesso c’è stata una tendenza marcata al rallentamento soprattutto in ragione dell’arresto delle forme d’intrattenimento e di movida, i cui ritmi sono ormai direttamente connessi con quelli sociali complessivi e lavorativi in particolare. In un certo senso è possibile affermare che nella quarantena è esistito un aspetto regressivo, l’isolamento e le restrizioni alla libertà di movimento, e uno progressivo che è stata un’uscita dai tempi sociali normali. E’ interessante da questo punto di vista la dichiarazione di Pietro Ichino secondo il quale parecchie persone hanno sfruttato la quarantena per lavorare poco o prendersi delle vacanze indebite: l’aspetto più significativo delle dichiarazioni del giuslavorista non è quello immediatamente antropotecnico di indicare dei capri espiatori, i fannulloni, a una società che presumibilmente esce spaventata e perciò incattivita da questa esperienza per i lutti, la perdita di sicurezza economica e le tensioni vissute, ma nel loro essere un campanello d’allarme per i ceti dirigenti segnalando che questa esperienza ha bloccato il processo di interiorizzazione dei ritmi di accelerazione sociale. E in quest’ottica devono essere lette quelle del sindaco Sala sui rischi dell’ “effetto grotta”.
Di fronte a questi richiami all’ordine sta la fotografia di Bergamo in cui l’ordine del tempo è sospeso per cause di forza maggiore, ma non c’è solo dolore in essa perché contiene una sollecitazione anche per il futuro. In questa fotografia, a dispetto della sua natura luttuosa, è possibile cogliere la verità di un’affermazione di Guy Debord che “il mondo già possiede il sogno di un tempo di cui non ha che da possedere la coscienza per viverlo realmente” ( Lo società dello spettacolo, tesi 164). Nonostante infatti questa riappropriazione di tempi diversi da quelli dettati dalla logica dell’accelerazione sia stato legata al lutto, comunque per quanto non desiderabile una dimensione dell’esperienza umana, essa può servire da modello anche in altre occasioni, più collettive e magari più fauste, per non farsi dettare i ritmi da questa logica.
In uno dei pochi libri fondamentali del nostro tempo, Accelerazione e alienazione, Hartmut Rosa dimostra che la tendenza principale della nostra società è quella ad accelerare i ritmi di vita in maniera tale da compromettere il nostro rapporto con il mondo. E’ alla luce di questo principio che può essere interessante riflettere sull’esperienza di questi mesi sia nel momento della quarantena sia in quello della riapertura. In particolare può essere significativo intrecciare questo principio con gli allarmi, fondati o quanto meno plausibili, di chi ha letto le misure di isolamento sociale come una forma di sperimentazione di nuove tecniche di controllo sociale. Basterà citare quanto affermava Massimo De Carolis ricordando che c’è il concreto rischio che alcune misure dettate da necessità transitorie diventino stabili come nuove forme di governo delle persone. Si tratta, ripeto, non solo di timori condivisibili, ma, per quanto concerne la scuola per esempio, alcune uscite di un certo sottobosco ideologico rendono già visibili alcune linee d’intervento, per esempio nel tentativo di controllare la didattica dei docenti per via informatica. E’ anzi perfettamente tipico nelle logiche di gestione sociale contemporanee trasformare in regola strategica ciò che si è rivelato utile in un determinato frangente, pur non essendo stato prima pianificato. Credo però che nessuna forma che contrasti con il principio di accelerazione sociale verrà presa in considerazione stabilmente. In altri termini qualsiasi forma di disciplinamento che prevede il controllo della circolazione delle persone e dunque il loro rallentamento non avrà esito forse neanche in stati semiautoritari come l’Ungheria, mentre tutte le forme che prevedono un’intensificazione dei ritmi, degli obblighi e dei desideri sociali saranno largamente imposte. Insomma tutto ciò che aumenterà le possibilità di prestazione, che hanno non solo un valore di produttività ma anche di controllo sociale, verrà realizzato, ciò che frena l’accelerazione si concluderà con il periodo di cautela sanitaria.
In un contesto del genere allora ha senso augurarsi il ritorno alla socializzazione mantenendo la memoria di un possibile uso del tempo decelerato in un contesto non più fatto di necessità, ma come pratica collettiva di disobbedienza. Sarebbe un modo per dare un senso positivo a quanto ci è capitato. Queste esperienze, che nascono da eventi naturali, hanno naturalmente delle cause che devono essere indagate scientificamente, ma non hanno alcun significato in sé per la nostra esistenza individuale e collettiva, trasformarle in un’occasione di critica dello stato di cose presenti in nome di una vita migliore significa rendere ciò che ci è apparso in forma di morte e dolore viva vita da spendere amando, per quanto possibile, questo mondo che ci sfugge sotto le dita.