Il privilegio della pelle bianca

di Sara Marinelli (San Francisco)

Non sono americana. Ma vivo negli Stati Uniti da 13 anni, e quando vivi in America da tanti anni, non puoi ignorare, malgrado il tuo rifiuto e la tua indignazione, che la tua pelle bianca è la linea di demarcazione del tuo privilegio.

Ecco, l’ho convocata subito la parola innominabile, la parola campo di battaglia e terreno di controversia, soprattutto per chi nella vita non ha mai creduto di essere privilegiato. Sto parlando del white privilege, il privilegio bianco.

Sono certa che quasi nessun immigrato o espatriato italiano negli Stati Uniti si considera un privilegiato. La storia è lunga, e anche la memoria. L’emigrante italiano a cavallo tra fine ‘800 e metà ‘900, vittima di discriminazione razzista quando veniva confinato nel ghetto e scartato sul posto di lavoro (“Italians Do Not Apply”, “Italians Not Wanted” era scritto su muri e giornali) conosceva tutto dell’umiliazione di non essere considerato bianco—e di quanto fosse caro il biglietto d’ingresso nella whiteness.[1]* E venendo agli anni recenti, anche quando l’immigrato italiano è un cervello in fuga, mette in conto che spesso dovrà ricominciare da zero, e che a suo modo parte da una condizione di svantaggio.

Molte volte mi sono chiesta il significato profondo di questa espressione, “privilegio bianco”, e quanto mi riguardasse. Nella società americana è uno di quei termini che urta, spesso irrita, quasi sempre ferisce come un’accusa o una colpa dalla quale si sente la necessità di assolversi. E alla quale si può facilmente controbattere con un’argomentazione difensiva: “Ma io non ho alcun privilegio, e non lo esercito.” Così come si controbatte allo slogan Black Lives Matter (Le vite nere contano) sostenendo: “Tutte le vite contano.” Oppure ancora: “Sì alle manifestazioni pacifiche, ma niente rabbia e sommosse, altrimenti vi imponiamo il coprifuoco” (in America l’ordine di coprifuoco non si imponeva dal 1943).
Dunque, li ho elencati in fila alcuni dei termini e concetti scomodi che infuriano in America. Quelli che ti chiedono di esprimere un’opinione, quelli ti invitano a uno schieramento che, come dimostrano le numerose manifestazioni di massa di questi giorni, non può più essere rinviato. Il silenzio, come si legge su molti murales dipinti sulle tavole di legno che bardano i negozi delle strade americane, è complicità. Il silenzio è violenza.

Ho cominciato affermando che non sono americana. Di proposito. Quest’affermazione di identità per negazione —  assieme alla mia storia — è stata per lungo tempo la mia “assoluzione.” Per lungo tempo ho rivendicato dentro di me la mia dissociazione ed esclusione dal privilegio bianco ragionando con me stessa che io qui non ci sono né nata né cresciuta; che non ero qui durante il compimento di questa storia di oppressione e razzismo; che in quanto immigrata sono ancora per certi aspetti un’outsider che, appunto, ha dovuto ricominciare da zero; che il mio luogo di origine — Napoli — oggetto di razzismo italiano e ineguaglianze, non mi farà mai schierare col privilegio, anzi lo aborrisce; che la mia appartenenza al sud del mondo mi avvicina sempre verso le minoranze; che la mia identità di donna è sempre in guerra contro la sopraffazione; che tutto ciò che ho creato per me, la mia educazione e anche il mio femminismo, emergono precisamente dalla necessità di riscatto.

Ma a un certo punto della tua vita qui, se hai attenzione e cura per dove vivi, capisci che si tratta di un altro ordine di discorso, e che se ti è difficile identificare il colore bianco della tua pelle, con il quale sei nata, come privilegio è proprio perché non dovrebbe esserlo. Ti sta infatti chiedendo di scrutarne l’assurdità.
A un certo punto, non potrai più ignorare che chi non ha la pelle bianca non ha la stessa garanzia di immunità e libertà nelle medesime circostanze; piuttosto, le giudicherà umilianti, pericolose o frustranti quando a te saranno sembrate neutre. E se non osservi, capisci e sondi questa ingiusta differenza, non potrai mai denunciarla, soprattutto davanti a chi nella sua daltonìa, o cecità, dichiara che nero equivale a bianco, che il colore non conta.

Poter affermare che il colore non conta è un altro aspetto del privilegio bianco. Il privilegio di non avere fra i molti stress e fardelli della vita quotidiana quello ulteriore ed estenuante della razza: un peso posto sulle spalle di uomini e donne nere dalla storia bianca, e che ancora schiaccia nel presente. È il privilegio di chi non subisce le micro-aggressioni del quotidiano, di chi possiede la libertà di non pensare che se ha il cappuccio della felpa alzato sulla testa è un teppista; che se entra in un negozio sarà sospettato di furto; che se guida l’auto di sera sta sbrigando un affare losco; che se sta con gli amici a fumare in un parcheggio (qui non ci sono le piazze) sta spacciando o complottando una rapina; che se è eloquente e istruito è un’eccezione; che se è alto e di corporatura abbondante incute timore; che quando esce di casa la mattina non sa se ci tornerà la sera; che in ogni ora del giorno potrebbe essere fermato, incriminato, ammanettato perché corrisponde al profilo di un altro uomo con cui condivide l’unico elemento di essere nero; che se cerca di difendersi dichiarando che non è lui, può essere insultato, malmenato, soffocato a morte da chi abusa del proprio potere in nome della legge—che non è uguale per tutti.

A questo si aggiunge che tutto quanto elencato di sopra, e altro ancora, non gli riguarda; non è un suo problema.

Ma c’è una cartina al tornasole efficace, un semplice test che ciascuno può fare con se stesso per comprendere istantaneamente il privilegio bianco. È quasi banale come fare uno di quei test che girano sui social, quali “Come saresti da donna? Da uomo?” “Come sarà tuo figlio?” “Come sarai da vecchio?”
Basta soltanto spingere la fantasia oltre e porsi domande scomode che risulterebbero scorrette e offensive in uno dei suddetti test: “Come sarebbe la tua vita se tu non fossi bianco?” “Come sarebbe la vita di tuo figlio/figlia se non fosse bianco/a?” “Come sarebbe stata la vita dei tuoi genitori e dei tuoi antenati se fossero neri in America?”
Domande che scrivo con estremo rispetto per le identità nere, e con la consapevolezza della loro black joy, beauty e pride — la gioia, la bellezza e l’orgoglio di esserlo.
Ma domande che persino molti attivisti neri stanno ponendo apertamente in questi giorni, riconoscendo con amarezza e indignazione che questa domanda tanto semplice, quanto controversa e potente, può essere una chiave di accesso alla coscienza bianca, e alla sua indifferenza. Un risveglio dal suo torpore.

Me le sono poste anch’io un po’ di anni fa, e solo quando ho cominciato a rispondermi con onestà ho superato il mio risentimento nell’accettare che non sono immune dal privilegio bianco; e che non riconoscerlo e capirlo fino in fondo era un ostacolo alla mia vita qui, al rapporto con la mia comunità artistica e la sua storia, al mio lavoro di docente universitaria, al mio desiderio di giustizia, al mio senso civile.

E le scrivo qui in chiusura come nostro continuo promemoria.
Come sarebbe la tua vita quotidiana, la tua esistenza ed essenza, se la tua pelle non fosse bianca. Se tu fossi esattamente chi sei, con il tuo nome e cognome, la tua vita così come te la vivi, il tuo stesso lavoro, i tuoi viaggi nel mondo, le tue corse in auto, la tua vita sociale e affettiva  — tutto — se la tua pelle non fosse bianca.
Se tu fossi costretto, tutti i giorni che respiri, senza volerlo o no, a dimostrare, convincere, e gridare che la tua vita conta.

[1] “The Price of the Ticket” è il titolo di una raccolta di saggi dello scrittore James Baldwin.

 

 

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17 Commenti

  1. Una domanda per l’autrice. Da quando, negli USA, si parla in maniera diffusa di “white privilege”, e quanto “diffusamente” se ne parla? E’ un discorso legato ad ambienti ristretti o è ormai una nozione almeno largamente discussa?

  2. Grazie per la domanda, Andrea Inglese. È nato inzialmente in ambienti ristretti, nella seconda metà degli anni 60, ed era definito white race privilege o anche skin privilege. Dagli ambienti attivisti e accademici è stato poi anche utilizzato nei Race Studies e Legal studies, negli anni 80. Il temine è diventato mainstream e ha ricevuto maggiore attenzione mediatica con il movimento Black Lives Matter nel 2013. Dopo essere diventato più laragmente diffuso nei media, ha cominciato a suscitare più polemiche, proprio perché spesso inscindibile da ad alcune riendicazioni del BLM.

    • Per la verità il termine risale ai movimenti abolizionisti britannici del primo diciannovesimo secolo, è stato ampiamente usato in sociologia e nei movimenti anticolonialisti e abolizionisti sin dai primi decenni del XX sec. da Du Bois, Marcus Garvey ed altri attivisti. Non riguarda solo gli Stati Uniti. Fu infatti ampiamente utilizzato per descrivere e criticare il regime dell’apartheid in Sudafrica, ma anche il colonialismo britannico in India. Qui, negli States, è diventato termine di riferimento comune durante le proteste degli anni sessanta. Ne fanno uso, tra gli altri, Martin Luther King, Malcolm X, Angela Davis e le Black Panthers. Ad ogni modo, molto interessante, a mio parere, è il lavoro di Peggy McIntosh, che in Italia è poco conosciuta, e qui negli States è un’icona: negli anni ’80 ha usato il termine per una serie di scritti in cui guida il lettore alla compressione del “privilegio bianco“ nei comportamenti quotidiani, consci ed inconsci. Ma il termine, nelle diverse varianti – egemonia, etc -, è mainstream da tantissimo tempo: tutto il cinema di Spike Lee almeno fino a Malcolm X, ha come nocciolo centrale il “privilegio bianco”. Poi non si possono non citare i romanzi di Donald Goines degli anni ‘70, ripresi 2 decenni dopo nei testi Hip Hop e Gangsta Rap. E se proprio vogliamo essere ancora più mainstream, come dimenticare la polemica Isaiah Thomas vs Larry Bird nel lontano 1987? Infine, degno di nota, nel 2000 o 2001, durante una lettura – credo che si trovi in giro su Internet -, Spike Lee s’inventò la definizione di super duper magical negro per ironizzare sui privilegi bianchi nei film hollywoodiani. Che sia diventato mainstream con BLM è un po’ una leggenda wikipediana; BLM l’ha sicuramente rivitalizzato e riproposto alle nuove generazioni, quindi tanto di cappello.

      Sul commento sotto di Andrea, condivido sul ritardo dell’Europa e, dici bene, la sinistra ha delle colpe imperdonabili – anche se è interessante notare poi, come, in realtà, la teorizzazione del privilegio bianco, anche quella mainstream delle Black Panthers, passa attraverso la rielaborazione degli scritti di Gramsci e Markuse, di cui Angela Davis è stata studentessa -, ma mi permetto di avanzare dei dubbi sulla maggiore atrocità della situazione americana; le banlieue, la situazione degli Afro-europei in Italia, storie come quelle di Oury Jalloh o i casi dei Dönermorde in Germania sono testimonianze altrettanto terribili. Ciò che fa la differenza, è il diritto di voto, di rappresentanza e anche, come ha ben descritto Sara sopra, un processo di auto consapevolezza ed autoanalisi da parte di noi bianchi che in Italia non avviene anche per motivi d’opportunismo.

      • Grazie, RV, per la sua risposta accurata e non pigra come la mia. D’accordissimo, e apprezzo moltissimo tutti i suoi riferimenti al cinema e alla musica, oltre che quelli accademici. La situazione negli Stati Uniti potrebbe non essere più atroce nel presente, concordo, il problema degli Stati Uniti, come lei sa, è la lunga storia di schiavismo e in seguito di segegazione razziale che avrebbe dovuto scuotere il sistema molto prima, invece l’ha perpretato fino al presente in forme diverse, ma altrettanto insidiose.

  3. Grazie per la risposta articolata e precisa. Il modo, i tempi e l’ampiezza di circolazione di concetti critici come questo scandiscono i veri progressi in termini culturali delle nostre democrazie, e preparano, assieme alle proteste di piazza e alle attività militanti più quotidiane, le svolte politiche cruciali. Qualcosa di molto simile è accaduto con l’ultima ondata femminista di me-too. Da questo punto di vista gli USA sono all’avanguardia, proprio in quanto luogo in cui le contraddizioni emergono con più crudezza e violenza che in Europa, ed esigono quindi un lavoro più frontale, lento e approfondito di elaborazione. E’ mia impressione che la sinistra anche radicale, da noi come in Francia, ha per lungo tempo cercato di coprire ogni ambito conflittuale con l’unico paradigma marxista della lotta di classe, accumulando ritardi teorici e di analisi dell’esperienza su fronti come il femminismo e l’anti-razzismo.

    • Grazier per il suo commento, Andrea. Condivido la sua analisi. Tra l’altro uno dei problemi dell’accettazione del termine privilegio in riferimento alla “razza” era il suo rinvio al privilegio di classe, che dunque lo limitava al paradigma marxista infatti.

  4. Dear Sara , ho letto con interesse il tuo articolo, i tuoi pensieri, anch’io condivido la tua opinione, metterei nel conto
    anche i latini ,non quelli “bianchi “ come noi ma quelli dalla pelle più scura , gli Indios , anche loro penalizzati
    Un saluto a presto, spero Prisca

    • Ciao Prisca,

      Grazie del messaggio. Sono d’accordo; quando si parla di bianco e non, si sta parlando del valore simbolico e della gerarchia di potere che si ascrive al colore, non tanto del colore effettivo della pelle. Si può essere latini e avere la pelle bianca, e così via. Proprio come accadeva agli itliani in passato per esempio, e come accade oggi, che so, ai Rom in Italia. E ovviamente ci sono ancora tanti esempi simili.

  5. Ciao Sara

    Grazie per questo articolo, per condividere le tue riflessioni sulla realtá in cui vivi.

    Personalmente non conosco abastanza Stati Uniti per poter esprimere un giudizio, solo una riflessione per affrontare il problema da un altro punto di vista:

    ” nero é uguale a bianco” é una semplificazione dei termini ma forse ha un senso immaginando che la vera linea di demarcazione dei privilegi dipende dal fatto che tu sia ricco o povero.
    Probabilmente una persona ricca puó permettersi di vivere al di sopra delle discriminazioni razziali che esistono di fatto nella vita quotidiana della maggioranza.

    • Lascio Sara rispondere. Per quanto mi riguarda, pur non vivendo negli USA, mi sembra importante che si capisca come il privilegio “bianco” non sia sovrapponibile al privilegio di classe. Questo, almeno, è quanto cercano di dirci attivisti, intellettuali e scrittori afroamericani della situazione statunitense, ma un problema simile lo ritroviamo nella società francese e italiana. Un passo avanti importante nella consapevolezza di cosa sia il razzismo oggi passa per la comprensione di questa differenza tra privilegio di classe e privilegio di pelle (che è di ordine non economico ma immaginario).

      • @andrea Mi sembra proprio il contrario. Mi piacerebbe capire a chi ti riferisci, perché il privilegio bianco è proprio definito qui in termini di privilegio di classe. Certo, non si tratta forse del concetto dogmatico di “classe” secondo l’accezione marxista, Peggy McIntosh lo definisce come una “messa in atto di istanze inconsce”, la cui manifestazione però sono proprio potere economico, sociale e politico. Attenzione, se non si inquadra il razzismo in una cornice di manifestazione di potere – o meglio di sopruso – politico, sociale e culturale, si finisce per avvalorare le tesi che abbia basi genetiche. Consiglierei, tra i lavori più recenti, “The New Jim Crow” di Michelle Alexander o anche “On the Run” di Alice Goffman (tra l’altro entrambi scritti molto bene). In questi due lavori, molto differenti, si evidenzia come il razzismo sia tutt’oggi uno strumento di controllo politico, sociale ed economico.

  6. OK Riccardo. Intanto grazie per la traduzione che hai fatto, e d’intervenire su questo tema con le conoscenze che hai. Mi spiego meglio. Se il razzismo nei confronti degli afroamericani è sempliemente un effetto del pregiudizio di classe, questo pregiudizio sparirebbe di fronte a un afroamericano in jeep e cravatta, appartenente alla borghesia. Ma cosi non è. Anche gli afroamericani borghesi, con tutti i segni di classe ben inalberati, temono di finire ammazzati a un controllo di polizia. Ho appena finito di leggere Between the World and Me di Ta-Nehisi Coates che tu certamente conosci. E’ lui che mi ha fatto capire quanto giochi in questa faccenda una dimensione appunto inconscia, e quindi una costruzione immaginaria che non riposa esclusivamente su privilegi di classe. C’è qualcosa di più e di diverso.

    Una circostanza storica particolare – la dominazione e lo sfruttamento schiavista – hanno costruito la finzione della razza bianca, ed essa tende a perpetuarsi al di là delle particolari determinazioni di classe delle singole persone. Se misurassimo tutto con il gognometro marxista dei rapporti di forza e delle caratteristiche sociali, non avremmo avuto bisogno di pischiatri come Fanon per mettere le mani in questa faccenda. Sarebbero bastati i sociologi. Coates parla del “processo di uniformizzazione delle tribù disparate in una uguale bianchezza” e poi aggiunge ovviamente “lo sviluppo di questa credenza che si è bianchi non si è prodotta semplicemente perché si andava a delle degustazione di vini o a dei barbecue di quartiere. E’ il risultato di un saccheggio, della vita, della libertà, del lavoro e della terra.”

    Parlare di privilegio bianco significa quindi certo parlare di un privilegio di classe, ma che riposa su un fantasma molto più potente di quello di “essere un arrivato”, di essere un “winner”, una fantasma che tutto un’immaginario razzista, consapevole o meno, alimenta. Credo che sia questo di cui parlano anche i militanti francesi, quando usano il concetto d’inconscio coloniale. La nerezza di pelle, intesa come supposta caratteristica etnica, non potrebbe dire nulla di “determinato”, non potrebbe assegnare razzialmente né culturalmente nulla e nessuno, se non fosse il calco negativo di un’invenzione di dominatori, ossia della bianchezza. Tutto cio’ non inficia l’analisi marxista del dominio, ma la complica con faccende che hanno a che fare con l’amministrazione dell’immaginario. Spero se non altro di essermi spiegato.

    • ciao @andrea, sono parzialmente d’accordo, anche se non bisogna dimenticare che inconscio o conscio che sia, si tratta di una manifestazione di potere. Mi trovi perfettamente d’accordo sulla limitatezza dell’analisi marxista, ma bisogna fare dei distingui: prima di tutto Coates, per quel che ricordo, ma potrei sbagliarmi, analizza principalmente il concetto di white identity e non di white privilege, che sono due fattori ben distinti. In effetti, Michael Jordan può essere considerato, ad una analisi superficiale, un privilegiato in termini di classe; se poi si va a vedere come ha raggiunto fama e ricchezza, ovvero giocando a basket – uno dei pochi settori dove agli afro-americani è concesso di eccellere -, evitando alcuna polemica con l’establishment bianco – “republicans buy sneakers too,” commentò il suo rifiuto di dare l’appoggio ad un candidato afro-americano del North Carolina per il senato (tra l’altro in corsa contro un bianco ultra-razzista)-, e reiterando l’orribile immaginario collettivo bianco di nero=animale da prestazione=cervello zero (quello che poi viene attribuito a LeBron James o a Balotelli, per intenderci), allora si tratta di vero privilegio di classe o di schiavitù di classe mascherata da privilegio? Di gradazioni di whiteness, se preferisci… Quando parliamo di parallelismo tra privilegio di classe e white privilege, bisogna ricordarsi che negli Stati Uniti su 100 senatori, solo tre sono afroamericani (9 in tutta la storia degli Stati Uniti) ; meglio al congresso, 56 su 454. Solo 4 afroamericani ricoprono il ruolo di CEO tra le 500 aziende più importanti degli Stati Uniti. Il 4% dei professori in ambito accademico è afro-americano; il 6% per quanto guarda il ruolo di professore associato; il 7% assistente… e così via. Poi, sai, parlare di “nerezza” o “bianchezza” in termini di invenzione, non so se sia proprio corretto: sì, certo, in via teorica, ma se tu parli con un afroamericano, un afroeuropeo o qualsiasi persona a cui viene attribuità una diversità in base al colore della pelle, lo sa benissimo che cosa significa “essere neri” o “essere bianchi”. Per loro è la dura realtà di soprusi e violenze con cui deve fare i conti sin da bambino/a. Per noi bianchi diventa facile etichettarla come inconscio, però non dimentichiamoci che è un’invenzione inconscia che uccide. Per davvero.

  7. Riccardo mi sono perso. Abbiamo forse dubbi sulla realtà del razzismo? Non abbiamo conosciuto il razzismo in Italia, in Europa, durante la prima metà del Ventesimo Secolo? Dubitiamo che il razzismo esista negli Stati Uniti? In realtà, esistono analisi marxiste del razzismo che sono a mio parere cruciali. In un articolo scritto per NI nel 2007 citavo Immanuel Wallrestein (“Il capitalismo storico”). Qui: https://www.nazioneindiana.com/2007/11/20/quelli-che-vengono-dall%E2%80%99altro-mondo-uguaglianza-o-tolleranza/. Insomma, su questo noi non dovremmo scoprire nulla di nuovo. Noi, bianchi, europei, di sinistra, ecc. Quello che le testimonianze più recenti, come quelle di Coates, permettono di comprendere meglio sono proprio i meccanismi proiettivi, la potenza dello stereotipo inconscio, che viaggiano in modo più subdolo nella società. E sopratutto toccano tutti quanti, anche i conclamati antirazzisti come noi. Per certi versi è una storia vecchia, per certi versi è una storia ripresa in mano da ogni nuova generazione di afroamericani, e come il femminismo ha diverse ondate. E ogni ondata è un’occasione per sensibilizzare maggioremente le persone, i bianchi rispetto al razzismo, i maschi rispetto al dominio patriarcale.
    Per concludere, la nozione d’inconscio coloniale non viene dai bianchi, come l’analisi del “sogno” della bianchezza (Coates). Né mi sembra ovvio perché dovrebbe essere “facile”, come tu invece dici, “etichettarlo”. A me sembra, appunto, più difficile e subdolo come fenomeno. In qualche modo richiede a noi bianchi non solo di maneggiare bene il vocabolario dei diritti umani e della sociologia marxista, ma di sforzarsi di fare anche un po’ di autoanalisi. E magari non guasta. Che poi le invenzioni dell’immaginario, spesso radicate nell’inconscio, uccidano, a noi tutti europei ce l’ha insegnato la favola della razza ariana. E di certo non ce lo siamo dimenticati.

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Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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