Uscire di casa, entrare in città (2 di 2)

Corso Buenos Aires nella “fase 2”

Seconda parte di un testo pubblicato ieri su L’Ordine. La prima l’ho condivisa la scorsa settimana, qui. G.B.

 

di Gianni Biondillo

A un livello di ragionamento più serio e profondo c’è chi si è chiesto se un ritorno ai borghi abbandonati fosse una soluzione di fronte a una pandemia che ha tenuto in scacco le nostre città, paralizzandole. Ovviamente pensare a una corrispondenza biunivoca – svuotare le città per riempire i borghi – può apparire un po’ troppo semplificatorio. E le soluzioni semplici non esistono. Pensare che si possa ancora contrapporre città a campagna è un modo vecchio di interpretare il territorio. A ben vedere i primi focolai del Covid19 non sono esplosi a Brescia, Padova o Milano. Questo perché abitiamo in una rete di relazioni. Lodi, Alzano, Cremona, Codogno, Vo’ Euganeo, sono parti della rete, elementi della metropoli a scala macroterritoriale. Non è un problema di distanze ma di altimetrie. L’Italia spopolata è quella che sta oltre i seicento metri d’altitudine. Ma è anche quella più complicata da raggiungere e da mettere a sistema nella rete di relazioni sociali ed economiche. Non è pensabile di trasformarla semplicemente in un bacino di decantazione di seconde case per cittadini spaventati. Occorre, insomma, pensare a questi territori come luoghi di sperimentazione da integrare, e non contrapporre, col resto del territorio.

L’idea che questa pandemia cambierà in modo radicale le nostre città scaturisce dallo sgomento contingente che ci fa dimenticare come questa non sia la prima epidemia che è venuta a bussare alla nostra porta. A ben vedere, ad ogni morbo, influenza, pestilenza che fosse, le soluzioni sono sempre state le stesse: isolamento e attesa. Così come le reazioni di insofferenza. Dalle crisi impariamo sempre meno di quanto ci si augura: Tucidide ci racconta di come la peste del V secolo a.c. avesse scatenato istinti nichilisti e dilapidatori negli ateniesi, Boccaccio di donne fiorentine che di fronte al morbo si abbandonano a comportamenti disonorevoli, Samuel Pepys, nella peste londinese del 1665 (giusto per non citare il solito Manzoni), di gente che aveva perduto la ragione disattendendo volontariamente le norme della quarantena. Eppure, non ostante l’apparente crollo di ogni remora e la prospettiva di un futuro dove l’anarchia dell’homo omini lupis avrebbe regnato suprema, non ostante vagheggiamenti di vite campestri e sogni bucolici, non si è mai smesso di abitare le città.

Dal punto di vista dell’hardware urbano cambierà ben poco, insomma. L’architettura ha una sua inevitabile grevità, lentezza, farragine. Non si po’ ridisegnare tutto, abbattere tutto per ricostruire tutto daccapo, è una proposta retorica, emotiva, e sarebbe comunque una operazione inutilmente titanica. Viviamo in spazi codificati da secoli, la stratigrafia non è solo materiale (mai per davvero il passato e scomparso dalle nostre città) ma anche e sopratutto culturale (abitiamo modernamente e allo stesso tempo seguendo abitudini antiche). Quello che occorre fare è ciò che abbiamo sempre fatto: riusare in modo nuovo il già dato. Fare un aggiornamento del software urbano, per migliorare la resa della macchina metropolitana.

La forza dell’architettura sta nella sua apparente debolezza: il tempo che intercorre da quando viene ideata a quando viene materialmente prodotta. Nessuna architettura è mai davvero contemporanea al suo tempo. Nessun programma distributivo, tecnologico, tipologico, potrebbe rispondere a una richiesta immediata, urgente. C’è uno spazio di aleatorietà e versatilità che viene naturalmente incorporato dalla cassa muraria di un edificio. E una sua connaturata attitudine all’adattamento. Ciò che sembra perciò rigido e inattuale è anche capace di farsi riusare di volta in volta in modo differente. È così che riusciamo ad avere edifici che nei secoli sono nati con una funzione per poi contenerne altre, nuove e differenti: chiese che diventano auditori, fabbriche che diventano appartamenti, case popolari che diventano abitazioni di lusso, rovine archeologiche che diventano palazzi nobiliari, gasometri che diventano spazi espositivi, manieri che diventano uffici, cascine che diventano alberghi, eccetera.

Caldeggio il ripristino di due discipline nate con la rivoluzione industriale e che s’è smesso di insegnare da tempo dei corsi universitari: l’igiene ambientale e l’architettura sociale. Campi di ricerca che devono studiare e approfondire le fragilità che sono sorte con il virus sapendo che le risposte non saranno quelle massive del secolo scorso. Non è di megastrutture che abbiamo bisogno, ma di un programma di intervento capillare, parcellizzato e coordinato. Uno spazio d’intervento in realtà enorme, capace di coinvolgere nuovi creativi e piccoli imprenditori, prima ancora che grandi studi di progettazione o enormi imprese di costruzioni.

Immagino designer che studiano quali dispositivi sanitari ideare per il nostro uso quotidiano (abiti, mascherine, protezioni) che non siano punitivi e mortificanti; oppure penso a nuovi spazi di decantazione e igienizzazione condivisi, negli ingressi, atri, o ai cancelli dei cortili, che mettano in sicurezza l’abitante del condominio evitando di rubare spazio prezioso al singolo appartamento per le operazioni di sanificazione; e poi la rivalorizzazione degli spazi semiprivati, condivisi, come i ballatoi, i cortili, i giardini interni, i corpi scala, dando loro funzioni nuove e nuovi usi (camere di decompressione, spazi per le attività fisiche, luoghi di scambio, ecc.). Sperimentazioni che si riverseranno nelle nuove progettazioni alle quali, pare evidente, sarà doverosa una attenzione che prima non sembrava necessaria. Le nostre case non saranno solo covo, tana o rifugio dove escludersi dal mondo, ma cellule minime dalla geometria frattale nelle quali si riverbera e si legge la complessità urbana di cui fanno parte. Quindi balconi, terrazze, affacci urbani, giardini pensili, funzioni condivise, spazi di igienizzazione, terme, biblioteche condominiali, sedi per la consegna, la vendita e il ritiro delle merci, eccetera. Condomini come piccole comunità che riescono ad essere aperte alla città (cosa ben differente dalla gate community) e allo stesso tempo pronte a non perdere la possibilità di uno scambio sociale, in caso di nuovi allarmi sanitari, mantenendo il dovuto distanziamento fisico.

Crescendo di scala la geometria frattale non cambia forma e attitudine. Allo stesso modo della politica abitativa di “vicinato condiviso” dovremo rendere in molte funzioni autosufficienti i singoli quartieri, rivivificandoli con attività e servizi (dalla vendita al dettaglio al presidio medico). Il giardino pubblico non sarà uno spazio di risulta abbandonato, ma un punto strategico capace di fare da camera di decompressione durante le emergenze e allo stesso tempo spazio quotidiano per la socialità di quartiere. Apriremo e chiuderemo a macchia di leopardo, nel caso di eventuali nuove epidemie, via via, i singoli appartamenti, i singoli condomini, i singoli vicinati, i singoli quartieri, rendendoli comunque tutti sicuri e socialmente autosufficienti.

Perché questo accada, a scala metropolitana, bisogna saper intervenire in modo innovativo sul nodo delle infrastrutture. Usciti dalla quarantena e dal blocco conseguente è il sistema della mobilità che potrebbe avere le più forti sofferenze, capaci di mettere in crisi l’intero sistema. Per ora i numeri sono impietosi, per mantenere le distanze di sicurezza la mobilità pubblica farà fatica a svolgere il suo compito. Ma quello di cui dobbiamo avere il coraggio di fare, anche a costo di essere impopolari, è abbandonare da subito la tentazione di un utilizzo massivo della mobilità privata, che forse può farci sentire al sicuro (nel chiuso dei nostri abitacoli) ma innescherebbe una reazione a catena ingovernabile. Abbiamo già dato, in termini di inquinamento e di stress.

Il vero Moloch che dobbiamo abbattere è il codice della strada, da abbandonare al più presto per scriverne uno differente che ci permetta una nuova mobilità davvero innovativa. Rallentare la città negli ambiti di quartiere, insistere su nuove linee di mezzi pubblici, leggeri, non invasivi, ecologici, stimolare il car sharing e l’utilizzo di piccole automobili elettriche, dare centralità, nei piccoli tragitti, alle due ruote (biciclette, scooter, bicicli a pedalata assistita, monopattini, ecc.) e alla pedonalità. Una mobilità più lenta, certo, ma più ecologica, capace di stimolare l’equilibrio psicofisico della popolazione, rendendola più sana e più resistente all’eventuale prossima emergenza.

Non dico di escludere l’automobile privata, ma renderla una opzione fra le tante. Se si lascia campo aperto, per ragioni d’emergenza temporanea, alla vecchia mobilità privata si fa un passo indietro difficile poi da colmare: le soluzioni temporanee in Italia diventano, per abitudine, definitive. Sono scelte che sicuramente troveranno resistenze. Ogni cambiamento le provoca, occorre prepararsi all’inevitabile scontro, ma una politica lungimirante deve accettare la possibilità di non essere popolare.

Una metropoli inclusiva e frattale avrà a scala più larga anche percorsi più veloci, aree di grande distribuzione, ospedali d’eccellenza, centri direzionali. Ma non punterà il suo sviluppo solo su quelli. Anche perché il tema delle infrastrutture non si ferma solo a quelle fisiche, materiali, ma coinvolge, mai come ora, quelle digitali. Nei quasi tre mesi di quarantena abbiamo stressato oltremodo la rete dimostrando quanto sia necessaria e inadeguata. Abbiamo bisogno di una città iperconnessa. Ma una infrastruttura strategica (quale quella digitale) non può essere affidata solo ai privati. Così come nell’ottocento le ferrovie e nel novecento le autostrade venivano finanziate ed erano sostanzialmente di proprietà pubblica, altrettanto oggi dovremmo ridefinire i ruoli e le proprietà delle infrastrutture digitali. Fateci caso: nei giorni della quarantena gli incontri virtuali, il lavoro agile, la didattica a distanza sono state tutte attività svolte su piattaforme private. Abbiamo demandato a realtà che hanno come primario e legittimo interesse il profitto la gestione delle infrastrutture che ci definiscono come comunità: scuola, lavoro, socialità.

In fondo per queste realtà produttive tenerci a casa, nel nome della nostra sicurezza, è un’ottima fonte di guadagno. Ma da quando abbiamo smesso di essere cacciatori raccoglitori, da quando abbiamo scommesso sulle città, il contatto con gli altri è il nostro patto comunitario. Ecco perché occorre tornare ad investire sulla scuola. L’istruzione è un diritto costituzionale al pari della salute. L’utilizzo della didattica a distanza, anche il migliore e più aggiornato utilizzo, non può sostituirsi al laboratorio di socialità pubblica e di cittadinanza che è lo spazio fisico di una scuola. Alle strutture esistenti occorrerà ridefinire spazi e modalità, alle nuove, funzioni ulteriori.

E allo stesso modo, il lavoro agile (quello che viene odiosamente chiamato smart working cosicché la pillola sembri meno amara) deve essere solo una opportunità aggiuntiva, non l’unica soluzione agibile. Il lavoro (su cui si fonda la nostra stessa costituzione) resta uno dei luoghi elettivi di socialità e di presa di coscienza collettiva. Non possiamo trasformarci in monadi indipendenti, tutti chiusi nelle nostre stanze private, fragili e perciò manipolabili, dediti soltanto al “produci-consuma-crepa”.

Certo, rallentare la città e allo stesso tempo continuare a volerla fruire a tutte le scale può sembrare una aspirazione inattuabile. E lo sarà se non si metterà mano a una progettazione coordinata del nostro tempo. Oggi non è più il Piano Regolatore del Territorio novecentesco – quello che definiva lo spazio di una città e le sue funzioni – che deve interessarci, ma un Piano regolatore del tempo urbano. Non dico nulla di nuovo, in realtà. Sono almeno trent’anni che se ne parla, e alcune città hanno già previsto chi un Piano del tempo libero, chi un Piano Territoriale degli Orari. Ma sono sempre stati strumenti accessori, spesso ornamentali, quasi gentili concessioni a studiose (donne per la maggior parte) rompiscatole che della armonizzazione del tempo familiare con quello lavorativo avevano fatto una battaglia di civiltà. Oggi quel campo di studi, all’apparenza minoritario, di “genere”, si dimostra centrale.

Una città che ha bisogno di più tempo, che deve rallentare, che deve saper utilizzare tutto il suo spazio senza più rubarne altro al territorio ormai sfinito, deve ottimizzare i tempi del lavoro, dello studio, delle incombenze burocratiche e di quelle domestiche, del tempo libero (da ridefinire come concetto), degli incontri pubblici, del riposo. Ottimizzare non vuol dire irreggimentare, ma rendere più plastiche le nostre giornate, migliorando le opportunità che la città ci mette a disposizione. Fra queste suggerisco un investimento consistente sulla biodiversità (immagino aree lasciate “a maggese”) e sull’agricoltura urbana.

Insomma, cambiare negli interstizi la metropoli, per cambiarla per davvero. Perché se è vero che dopo la pandemia nulla sarà com’era prima, non vorrei che fosse però in peggio. Prima o poi un vaccino verrà trovato e raggiungeremo la tanto agognata immunità di gregge, ma il morbo più difficile da estirpare è quello che ci è stato inoculato in questi mesi. Quello che ci ha trasformati in sceriffi che davano la caccia agli untori, delatori diffidenti di tutti, spaventati persino di uscire di casa per una semplice passeggiata. La sindrome del sospetto, l’ossessione a barricarci per difenderci è un’idea punitiva e oscura della città che non posso accettare. L’idea di muoverci solo per ragioni utilitarie, solo per fare acquisti, o andare al lavoro, per poi rintanarci nei nostri bunker protetti è puro antiurbanesimo. Abbiamo bisogno anche di luoghi inutili e di perdigiorno. Lo spazio ludico, lo spazio inutile, il tempo perso, sono rigeneranti. Sono doni disinteressati di scintillante felicità.

 

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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