Grazie Frederika

di Giacomo Sartori

Grazie Frederika per avermi scritto una mail il diciotto di marzo di cinque anni fa, chiedendomi il permesso, dandomi del lei, di tradurre una mia poesia. La poesia sbarazzina si chiamava Se muoio prima io, e il tema era appunto la morte. L’avevi letta su Nazione Indiana e ti era piaciuta molto. Ti eri quindi comprata il mio primo romanzo, di molti anni prima: finisce pure lui nella morte. Cominciavamo insomma con la morte, che è sempre il miglior modo per celebrare la vita. (La tua traduzione è bellissima, alla baldanza del tono aggiungi un fermento frizzante di trillo, tutto tuo.)

Grazie per la tua delicatezza di anima che ha conosciuto la sofferenza.

Grazie per esserti battuta con indefessa testardaggine, senza mai mettermi al corrente delle sconfitte (intuivo qualcosa a cose fatte) per pubblicare i miei testi nella tua lingua.

Grazie per la tua sensibilità fragile e temeraria di uccello, tu che amavi tanto gli uccelli.

Grazie per aver prolungato anche nel nostro rapporto, basato sul nostro rispettivo lavoro nella letteratura, sul nostro amore per le parole vere, quella purezza che trovo nella scrittura.

Grazie per la tua umiltà e per la tua devastante timidezza in pubblico, che come sempre accade erano anche consapevolezza del tuo valore, impaccio a maneggiarlo.

Grazie per tutte le tue mail sempre frementi di timore di prendere troppo spazio o invadere, sempre sul chi vive, sempre necessarie, perfino nella lievità di materia o urgenza, sempre gaie, grazie per quel tuo nome un po’ duro – che si addolcisce nel cognome più evocatore – che appariva nella mia casella.

Grazie per la tua intelligenza.

Grazie per la benevolente e concentratissima attenzione con cui consideravi ogni mia singola parola, anche quelle che mi venivano fuori nella leggerezza. Il tuo ascolto era uno scanner che cerca di carpire il più possibile e non giudica, non fa trapelare incasellamenti, non presume. Le mie parole si portano dietro adesso quel tuo rispetto intriso di penetrante intelligenza, le mie parole adesso fanno attenzione a essere il più precise possibile.

Grazie per l’ironia sugli altri e su te stessa, su quel tuo spazientito non riuscire a prenderti davvero sul serio.

Grazie per la benigna gravità con cui consideravi qualsiasi cosa scrivessi o avessi scritto. I miei scritti si portano dietro adesso quel rispetto, sanno che possono meritarselo.

Grazie del tuo sguardo su di me, lo percepivo come un rassicurante (ma anche disincantato) recinto di affetto.

Grazie per non avermi mai parlato male di nessuno, grazie per non aver mai oltrepassato la soglia di qualche svolazzante e ironica allusione a questa o quella meschineria nei tuoi confronti.

Grazie per il supporto in questi cinque anni nei quali nella mia vita sono crollati bastioni e sono apparse inattese radure. Appena potevo esprimevo la mia gratitudine, su questo non ho rimorsi, ma non mi rendevo conto della forza che mi dava la tua presenza lontana. Lo ho provato quando ho saputo che te ne sei andata, lo provo ora.

Grazie per le abissali confidenze con le parole dette e anche dandomi accesso alle tue parole scritte (negli ultimi tempi). Erano oggetti di vetro soffiato che appendevo dentro di me, regali preziosi che non dovevo rompere.

Grazie per avermi detto tante volte la tua riconoscenza, certo nata anch’essa nelle pagine dei testi, che faticavo sempre a accettare e capire (il che è una forma di stolida chiusura).

Grazie per avere sempre tenuto fuori dal nostro orto tutte le tue numerose relazioni, tutte le persone che conoscevi, gli altri autori che traducevi, i tuoi altri affetti, i frutti della tua insaziabile curiosità intellettuale. Solo adesso mi rendo conto che eravamo sempre solo io e te. E’ una lezione che cerco di fare mia. (Ma certo tener fuori non è la parola giusta, si trattava piuttosto di non tirare in campo se non era strettamente necessario, di non mescolare.)

Grazie per la tua gaiezza appena marezzata di mestizia (gli spettri li tenevi per te), grazie per avere accettato il minimissimo supporto che ho provato a darti quando ne avevi bisogno, perché è provando a curare che si cura se stessi.

Grazie per l’esempio di come si possa convivere con i malanni fisici, di come li accettavi senza volergliene (a patto che ti lasciassero coltivare la tua passione per le parole giuste e i gorgheggi perfetti), senza volerne a te stessa.

Grazie per la benedizione (aspersa anch’essa di gaiezza) che hai dato al mio nuovo amore. Già prima di incontrarlo, dall’idea che te ne eri fatta dalle mie parole, e poi mentre lo l’avevi sotto gli occhi quando ci siamo visti a dicembre, e dopo.

Grazie per il tuo pudore, che mi suscitava condiscendente tenerezza, grazie per questa prossimità distante che non so definire, che sfugge a ciò che posso capire.

Grazie per le tue aperture al sacro (che è semplicemente ciò che non conosciamo, quello che le parole dei grandi scrittori sanno evocare), tu che ti consideravi impenitente (e storicista) miscredente.

Grazie per i tuoi tormenti, che nell’alambicco delle tue traduzioni diventano merletto leggero, sonorità fragranti che travestono i miei testi.

Grazie per avere dedicato le tue forze residue a tradurre un mio racconto, ben sapendo, e dicendomelo, che era la tua ultima traduzione (volevi però tradurlo tu). Grazie per essere resistita alla spossatezza e al dolore fisico. (E’ stato – vedo adesso – il tuo modo di salutarmi.)

Grazie per la tua certezza che le mie cose avrebbero finito per essere prese in considerazione.

Grazie per lasciarmi adesso solo con le mie forze e con la mia fragilità (alias con il culo per terra), che è un modo perché io utilizzi quello che mi hai dato e sia sempre cosciente di quello che ti devo.

Grazie per farmi capire adesso che avrei potuto darti di più: ne terrò sempre conto con le persone che mi sono care.

Grazie per il messaggio di una settimana fa, l’ultimo che ho ricevuto da te. Nell’ultima riga mi chiedevi se potevo togliere la parola morte (E’ PROPRIO NECESSARIA LA MORTE?) dall’ultima riga dello stesso. Secondo me ci stava bene, ma per farti piacere l’ho tolta. Sia l’ultimo mio pezzo che traducevi che il tuo ultimo messaggio finivano con la morte. E’ rimasta solo quella del tuo messaggio, la tua.

Grazie per non commentare adesso tutte queste parole, che certo ti danno parecchio fastidio, o insomma imbarazzo.

Grazie per lasciarmi questo dolore e questo vuoto, ma anche quel senso di pienezza e di gioia che danno le cose belle e senza macchia. Mi trascinerò dietro ovunque quest’ombra fresca e benefica.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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