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David Foster Wallace [Ithaca, 21 febbraio 1962 – Claremont, 12 settembre 2008]


 

Reading di David Foster Wallace
celebrazione del 150° Anniversario di HARPER’S MAGAZINE
New School Writing Program, May 25th, 2000
The New School Auditorium, New York City

Ticket To The Fair

 
I’m once again at the capacious McDonald’s tent, at the edge, the titanic inflatable clown presiding. There’s a fair-sized crowd in the basketball bleachers at one side and rows of folding chairs on another. It’s the Illinois State Jr. Baton-Twirling Finals. A metal loudspeaker begins to emit disco, and little girls pour into the tent from all directions, gamboling and twirling in vivid costumes. In the stands, video cameras come out by the score, and I can tell it’s pretty much just me and a thousand parents. The baroque classes and divisions, both team and solo, go from age three (!) to sixteen, with epithetic signifiers — the four-year-olds compose the Sugar ‘N’ Spice division, and so on. I’m in a chair up front behind the competition’s judges, introduced as “varsity twirlers” from (oddly) the University of Kansas. They are four frosted blondes who smile a lot and blow huge grape bubbles. The twirler squads are all from different towns. Mount Vernon and Kankakee seem especially rich in twirlers. The twirlers’ spandex costumes, differently colored for each team, are paint-tight and brief in the legs. The coaches are grim, tan, lithe-looking women, clearly twirlers once, on the far side of their glory now and very serious-looking, each with a clipboard and whistle. The teams go into choreographed routines, each routine with a title and a designated disco or show tune, full of compulsory baton-twirling maneuvers with highly technical names. A mother next to me is tracking scores on what looks almost like an astrology chart, and is in no mood to explain anything to a novice baton watcher. The routines are wildly complex, and the loud-speaker’s play-by-play is mostly in code. All I can determine for sure is that I’ve bumbled into what has to be the most spectator-hazardous event at the fair. Missed batons go all over, whistling wickedly. The three-, four-, and five-year-olds aren’t that dangerous, though they do spend most of their time picking up dropped batons and trying to hustle back into place — the parents of especially fumble-prone twirlers howl in fury from the stands while the coaches chew gum grimly. But the smaller girls don’t really have the arm strength to endanger anybody, although one judge takes a Sugar ‘N’ Spice’s baton across the bridge of the nose and has to be helped from the tent. But when the sevens and eights hit the floor for a series of “Armed Service medleys” (spandex with epaulets and officers’ caps and batons over shoulders like M16’s), errant batons start pin-wheeling into the ceiling, tent’s sides, and crowd, all with real force. I myself duck several times. A man just down the row takes one in the solar plexus and falls out of his metal chair with a horrid crash. The batons are embossed “Regulation Length” on the shaft and have white rubber stoppers on each end, but it is that hard dry kind of rubber, and the batons themselves aren’t light. I don’t think it’s an accident that police night-sticks are also called service batons. Physically, even within same-age teams, there are marked incongruities in size and development. One nine-year-old is several heads taller than another, and they’re trying to do a complex back-and-forth duet thing with just one baton, which ends up taking out a bulb in one of the tent’s steel hanging lamps, showering part of the stands with glass. A lot of the younger twirlers look either anorexic or gravely ill. There are no fat baton twirlers. A team of ten-year-olds in the Gingersnap class have little cotton bunny tails on their costume bottoms and rigid papier-mache ears, and they can do some serious twirling. A squad of eleven-year-olds from Towanda does an involved routine in tribute to Operation Desert Storm. To most of the acts there’s either a cutesy ultrafeminine aspect or a stern butch military one, with little in between. Starting with the twelve-year-olds — one team in black spandex that looks like cheesecake leotards — there is, I’m afraid, a frank sexuality that begins to get uncomfortable. Oddly, it’s the cutesy feminine performances that result in the serious audience casualties. A dad standing up near the top of the stands with a Toshiba video camera to his eye takes a toma-hawking baton directly in the groin and falls over on somebody eating a funnel cake, and they take out good bits of several rows below them, and there’s an extended halt to the action, during which I decamp. As I clear the last row of chairs yet another baton comes wharp-wharping cruelly right over my shoulder, caroming viciously off big Ronald McDonald’s inflated thigh.
 
© Harper’s magazine. Reprinted with permission of the L.A. Times Syndicate International.
 
Un biglietto per la fiera
 
Eccomi ancora una volta nel capiente tendone di McDonald’s, di lato a presidiarlo il titanico pagliaccio gonfiabile. C’è una folla equamente distribuita sulle gradinate da pallacanestro da una parte e sulle file di sedie pieghevoli dall’altra. Sono le finali juniores di Mazzetta da Majorettes dello Stato dell’Illinois. Un altoparlante metallico comincia ad emettere della disco music e le bambine si riversano nel tendone da tutte le direzioni, sgambettando e piroettando in costumi sgargianti. Nelle tribune, come ad un segnale appaiono le videocamere e posso dire che ci sono praticamente io da solo insieme a un migliaio di genitori. Le grottesche categorie e suddivisioni, sia a squadre che singole, vanno dall’età di tre (!) ai sedici anni, con denominazioni specifiche – le quattrenni compongono la divisione Sugar ‘N’ Spice, e così via. Sono su di una sedia in prima fila – dietro i giudici della competizione presentati come “Majorettes della squadra del college” (stranamente) dell’Università del Kansas. Sono quattro bionde glassate che sorridono molto e gonfiano enormi bolle a grappolo. Le squadre di majorettes sono tutte di città differenti. Mount Vernon e Kankakee sembrano particolarmente prodighe in majorettes. I costumi di spandex [tessuto sintetico] delle majorettes, di colori diversi per ogni squadra, sono aderenti e sgambati. Le allenatrici sono donne torve, abbronzate, flessuose, chiaramente ex majorettes, ormai lontane dai giorni di gloria, dall’aspetto serioso, ciascuna con una lavagnetta e un fischietto. Le squadre entrano con sequenze coreografiche, ogni sequenza con un titolo e una disco music designata o una canzone per l’esibizione, sono zeppe di manovre compulsive di mazzette con difficilissimi nomi tecnici. Una madre vicino a me sta seguendo segni su una cosa che assomiglia quasi ad una mappa astrologica e non è dell’umore per spiegare alcunché ad a un novizio spettatore di mazzette. Le sequenze sono selvaggiamente complesse e la telecronaca dello speaker è prevalentemente in codice. Tutto quel che posso determinare di sicuro è che io mi sono intrigato in quello che deve essere l’evento più pericoloso per uno spettatore della fiera. Le mazzette mancate volano dappertutto, fischiando perfidamente. Quelle di tre, quattro e cinque anni non sono pericolose, benché passino la maggior parte del loro tempo raccogliendo le mazzette sfuggite e cercando di affrettarsi nuovamente al loro posto – i genitori delle majorettes particolarmente maldestre sbraitano infuriati dalle gradinate mentre le allenatrici ruminano arcignamente le loro gomme. Ma le bambine più piccole realmente non hanno la forza di braccia per mettere in pericolo qualcuno, anche se un giudice prende la mazzetta di una Sugar’N Spice sul setto nasale e deve essere soccorso fuori dal tendone. Ma quando quelle di sette e otto anni hanno percosso il pavimento per una serie di “Medleys delle Forze Armate” (spandex con spalline e cappello da ufficiale e mazzette sulle spalle come M16), mazzette erranti cominciano a piroettare sul soffitto, ai lati della tenda e sulla folla veramente molto forte. Io stesso le schivo varie volte. Un uomo proprio nella fila appena sotto ne prende una nel plesso solare e cade dalla sedia di metallo con un orribile schianto. Le mazzette hanno inciso sull’asta “lunghezza regolabile„ ed hanno tappi di gomma bianchi alle due estremità, ma è quel genere asciutto, duro di gomma e le mazzette stesse non sono leggere. Non penso che sia un caso che i manganelli della polizia siano anche chiamati sfollagente. Fisicamente, anche all’interno delle squadre della stessa fascia d’età, ci sono rilevanti incoerenze nella taglia e nello sviluppo. Una di nove anni è parecchie teste più alta di un altra e stanno provando a fare una complessa cosa avanti e indietro in due con solo una mazzetta, che finisce per far fuori una lampadina di una delle lampade appese al montante del tendone, inondando parte delle gradinate di vetro. Molte della majorettes più giovani sembrano anoressiche e gravemente malate. Non ci sono majorettes grasse. Una squadra di decenni nella categoria Gingersnap [biscotto di zenzero] ha codine da coniglietto di ovatta sulla parte posteriore del costume ed orecchie rigide di cartapesta e sembrano roteare con competenza. Una squadra di undicenni da Towanda esegue una complicata sequenza come tributo all’Operazione Desert Storm. Nella maggior parte dei gesti c’è contemporaneamente un aspetto di leziosità ultrafemminile ed uno di severo militarismo, con poca differenza. A partire dalle dodicenni – una squadra in spandex nero che sembra una torta al formaggio con il body – c’è, purtroppo, una esplicita sessualità che comincia a diventare sgradevole. Stranamente sono le performance di leziosità femminile che provocano i più seri incidenti al pubblico. Un padre alzandosi in piedi vicino all’estremità della tribuna con l’occhio incollato ad una telecamera Toshiba si becca una mazzetta come un toma-hawk direttamente nell’inguine e cade sopra uno che sta mangiando una frittella e trascinano via gran parte delle file sotto di loro, e c’è così una lunga pausa dello spettacolo durante la quale io levo le tende. Mentre supero l’ultima fila di sedie un’altra mazzetta svirgolando crudelmente piomba proprio sulle mie spalle, carambolando poi indecorosamente sulla coscia del grande Ronald Mc Donald gonfiabile.
 

 
( trad. di orsola puecher)
 
Estratto dall’articolo
Ticket To The Fair
di David Foster Wallace,
apparso nel numero di LUGLIO 1994
si Harper’s magazine

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50 Commenti

  1. Credo che la sua parabola si fosse già compiuta.
    Tanto, troppo, e di così grande, concentrato in così poco tempo.
    Il suo libro sulla matematica non era stato all’altezza degli altri.
    Comè può un grande sopportare la decadenza?
    Se lui ha scelto così: è meglio così: per lui.
    Con grande rispetto.

  2. fortuito trovare il video
    e il testo corrispondente

    ho tradotto al volo stanotte
    sull’onda di una tristezza infinita
    generazionale
    un uomo così ironico spiritoso e gioviale
    quella sua scrittura asciutta, essenziale
    così silente di tristezza
    e un gesto così

    ,\\’

  3. Per Soldato Blu.
    Trovo ignobile il tuo commento, pieno di sollievo. Non credo prorpio si sia ucciso per questo, ma questo è ciò che tu ami pensare. La grandezza degli altri è difficile da tollerare vero?
    Provo grande pena per te.

  4. stamattina avevo un computer senza volume e nel video muto mi sono ostinata a guardare quelle mani che hanno scritto quello che hanno scritto e hanno fatto quello che hanno fatto

    grazie a Orsola e a Missy per il vostro ricordo

  5. @ Katia

    Quando succedono certe cose, io cerco di capire. Ciò che sento lo tengo per me.
    Nel cercare di capire posso sbagliare, come tutti. Aspetto sempre qualcuno che mi salvi dall’errore. Gli insulti non mi salvano dall’errore.
    Perchè dovrei provare sollievo per la morte di Foster Wallace? Da che che cosa deduci che io provi soddisfazione per la morte di uno che ho ammirato?
    Non hai idea delle infinite morti che mi darebbero sollievo, non ti ci aggiungere anche tu.

  6. Soldato Blu, forse avresti dovuto spiegarti meglio.
    Avevi parlato della decadenza insostenibile di un grande, che quindi si suicida.
    Ecco, come Katia, anch’io ho disapprovato quello che è sembrata una vera banalità da parte tua, perchè la riconducevi al solo parametro (tuo) dell’ultimo libro.
    Quanta leggerezza nell’interpretare atti estremi di questo tipo oltre la valenza dell’inperscrutabile..solo perchè non potremo scoprirla mai.

  7. Caro soldato blu, non ho insultato nessuno, e ancora mi ripeto: trovo ignobile il tuo commento, e colma di miseria la tua risposta.
    “Credo che la sua parabola si fosse già compiuta.
    Tanto, troppo, e di così grande, concentrato in così poco tempo.
    Il suo libro sulla matematica non era stato all’altezza degli altri.
    Comè può un grande sopportare la decadenza?
    Se lui ha scelto così: è meglio così: per lui.
    Con grande rispetto.”
    Con grande rispetto?
    Rileggo le tue parole. Ti sei spiegato benissimo soldato blu. David Foster Wallace non si è di certo ucciso perchè incapace di sopportare una decadenza esistente solo per velenosità della tua mente. Presto ne avremo conferma.
    Qui sei tu a non sopportare qualcosa: la tua mancanza d’altezza.

  8. è semplicemente una notizia terribile. non solo perché era uno scrittore immenso, non solo perché è uscito di scena con la “beffa” (l’impostura come forse avrebbe detto il DFWallace di Caro vecchio neon), estrema del suicidio, ma perché era D.F. Wallace (e il suo torrente di parole con cu arginare l’incapacità di dire/toccare- vi ricordate i bambini sulla strada di piccoli animali senza espressione?) e so che chiunque ne abbia letto almeno un libro può capire. E’ proprio vero che solo chi conosce l’ironia è anche profondamente tragico. Come il teschio di Yorick.

  9. mi sarebbe molto piaciuto qui non dover aver bisogno di linkare questo:

    David Foster Wallace, Influential Writer, Dies at 46

    con le dichiarazioni del padre su depressione, medicine, elettroshock ecc.

    tutto il resto rientra nella categoria pettegolezzo e quello letterario è anche inferiore a quello di veline&calciatori

    di fronte al suicidio di chiunque si dicono sempre le stesse cose
    si cerca di ridurre la cosa a parametri tranquillizzanti per se stessi
    come l’insuccesso di un libro

    ,\\’

  10. ..e anzi, per chi abbia a cuore l’argomento (che non cambia anche se cambiano i post..purtropo) vorrei segnalre un bellisimo tributo da parte di un amico che non ha mai letto nulla di lui, ma ha partecipato a modo suo, toccando il mio cuore (e spero il vostro):
    http://rififi.splinder.com/
    al post: “Lament for DFW”.

  11. Il mio commento iniziale non ha trovato favore.
    E così doveva essere.
    Ma non ha trovato il “non favore” giusto.
    Il “non favore” che io cercavo, sarebbe dovuto essere di chi contesta la mia assoluta compartecipazione, la mia assoluta condivisione di un gesto simile.
    I motivi che innescano un processo di questo tipo sono per lo più secondari, e questa affermazione apparentemente balzana, viene giustificata dal fatto che un suicidio si compie per ciò che si sente – l’insopportabile – e non per i motivi che determinano tale insopportabilità.

    Rischio un’altra volta, con questo commento, di essere frainteso, ma lo faccio perché condivido del tutto la posizione di Franz sull’argomento:
    “Bisognerebbe parlarne di più di queste cose”.
    E qui, invece, nessuno l’ha fatto.
    Quasi un nascondere la testa nella sabbia e una netta sensazione di atteggiamento di negatività verso un gesto che, sembra, potrebbe sminuire chi lo compie.
    Dare un giudizio simile è irrispettoso e offensivo. Chi lo ha fatto, siamo autorizzati a pensarlo, lo ha fatto perchè viveva una situazione intollerabile.
    Se poi ci sono dei motivi precisi, documentati, siamo autorizzati a pensare che chi si è tolto la vita lo abbia fatto perché mantenerla avrebbe significato rinunciare a se stesso.

    I commenti a questo post, per quanto riguarda i più affezionati lettori di David Foster Wallace, sono per la maggior parte non tanto un omaggio a quel grande, quanto un’offesa alla sua memoria.
    Non credo, in base alla sua opera, per quel poco che la conosco, che lui avrebbe avuto molta voglia di essere trasformato in un santino.
    Come certe vergogne tipo Elvis.

  12. La depressione impedisce di scegliere, per come, almeno, si intende la parola “scegliere” comunemente, dunque, sembrerebbe. Sembrerebbe una persona depressa non nel pieno delle sue facoltà mentali. O lo è? o lo è a tratti? E se un depresso si sta curando, è comunque capace di scegliere, o ciò che lo cura, in qualche modo, altera la sua capacità di scelta?
    Se un depresso si toglie la vita, la chiesa cattolica gli può fare il funerale, tenendo conto del fatto che era depresso? Se ho un amico depresso che si cura, devo ritenere che la sua capacità di scegliere sia alterata? Che non sia capace di scegliere? Sapere che una persona è depressa e prende dei farmaci per curarsi come cambia il mio giudizio su quella persona?
    Sapere che David Foster Wallace si è curato per vent’anni, mi dice che la sua capacità di scegliere, in questo lasso di tempo, è sempre stata alterata, poca, presente solo a tratti? e se è così, chi l’ha spinto a scegliere di fare certe cose, la depressione, o i farmaci? o le persone intorno a lui?
    Ma mi sposto da DFW. Può capitare di avere a che fare con persone in cura dalla depressione: prima di saperlo, magari ti fai delle domande su certe cose che vedi, rapportandoti con un depresso che non sai, ancora, essere depresso. Poi, in qualche modo, viene fuori che sì, è depresso, e sì, si sta curando.
    Ah, fai allora, ora mi spiego…Ma cosa ti spieghi? Mah.
    Non so.
    E se un depresso, invece di suicidarsi, uccide (anche non intenzionalmente. magari cercando di uccidersi, potrebbe essere)? Può accadere? Ci si può appellare alla infermità mentale?
    Non so. Chiedo apposta perché non so.
    Se io sono depresso, sono privo delle mie facoltà? è come droga, la depressione? a cui si aggiungono gli psicofarmaci, magari. droga alla seconda?
    Non so. Non so un bel niente. scusate. notte

  13. Ho vissuto per anni a stretto contatto con persone gravemente depresse e in alcuni casi anche malate di mente. Talvolta ho provato un’immensa gioia nel vedere queste persone non “guarire”, ma recuperarsi alla società e alla vita, trovando un modo di convivere con la propria malattia.

    Sono sempre più convinto che farmaci e terapie non servono a nulla, e anzi sono dannosi.

    Sono sempre più convinto che depressione e malattia mentale siano la misura esatta del nostro grado di intolleranza nei confronti di chi ha comportamenti “diversi”.

    Il suicidio di una persona così mal(toller)ata ci spaventa in quanto atto d’accusa verso di noi, in quanto urlo estremo d’una fragilità non capita. E la morte è sempre una sconfitta, per tutti.

  14. Ringrazio Andrea Branco e Cristoforo Prodan.
    E’ ciò che mi aspettavo da Nazione Indiana.

    Aspettiamo sempre qualcuno che ne sa più di noi.
    O che sia capace di porsi le domande giuste.

  15. “tristezza infinita generazionale”?
    E’ Dave che scrive da chissà quale dimensione?
    Dobbiamo ridere?

  16. Depressione. In un commento precedente mi chiedevo cosa succederebbe se un depresso, invece di suicidarsi, uccidesse. Cosa succederebbe, riguardo il poterne dichiarare l’infermità mentale, temporanea, non so. Se, essendo depresso, appunto, le sue capacità di scegliere fossero completamente offuscate.
    Oggi, a Torino e Pomezia, due tragedie. Entrambi i protagonisti soffrono di depressione, di crisi depressive.
    Altro caso di depressione, la Franzoni. Fino a che punto questa malattia inficia il nostro pensiero, le nostre scelte? Si possono ancora chiamare scelte, o diventano obblighi a cui non ci si sa opporre?
    Quando le nostre scelte non sono più nostre? Ed appartengono alla malattia, o ai farmaci che ci curano?
    E se ci rendiamo conto che la depressione ci porta a non appartenerci più, e se il rimedio sta nell’appartenere ad una cura permanente, mi posso dire ancora libero?
    E se il nostro stesso renderci conto di tutto ciò è parte della malattia? Come può avere fine se la nostra consapevolezza della malattia ci porta a pensare incessantemente alla malattia, o al farmaco che la allevia, ci porta a pensare che, comunque, ci faremo i conti per tutta la durata della nostra esistenza, anche se ci sembrerà, ad un certo punto, di averla superata, ma non lo sarà mai del tutto, e sarà battaglia giornaliera, come può avere fine?
    Non so.
    Scusate ancora la lunghezza.

  17. @andrea branco: Andrea riguardo al film da Brevi interviste… credo che non sia mai stato distribuito.

    Credo che dalla depressione non si guarisca mai. Si impara a conviverci (c’è nche da dire che la depressione può avere origine fisiologica: il sistema nervoso che non produce serotonina, per cui occorre assumerla tramite farmaco, ma non sono una specialista). Oppure ci s sente in trappola. Non so se questo valga per Wallace, non sono nemmeno sicura, non lo sono mai stata, che a suicidarsi siano le persone “depresse”, “malate”, quelle a cui noi (un noi vago naturalmente) non assomiglieremmo mai. Però è chiaro che su quello che dici tu e anche Cristoforo si potrebbe discutere ore senza arrivare ad una conclusione.

    Voglio dire questo a Cristoforo: non sono totalmente d’accordo sui farmaci. Ovvero, il farmaco è sempre in una certa misura dannoso. Ti modifica. Ma ci sono persone che senza starebbero molto peggio. Sono d’accordo con te se si parla dell’abuso, di cure psichiatriche che vanno direttamente alla somministrazione di farmaci senza passare dal Via! (del Monopoli…), insomma senza capire chi hanno davanti. Però anche io ho lavorato con la psicosi. Ed in certi casi a malincuore non vedo proprio come aiutare certe persone senza medicine.

  18. @ Francesca Matteoni

    Pare, eh. Spero che il film venga distribuito, prima o poi. Krasinski mi sta simpatico, e sono molto curioso, sono anni che ci lavora.

    Riguardo la depressione, già, argomento infinito. Però.
    Franz Krauspenhaar nel suo commento ha scritto:
    “L’ha scelto? Ma stai zitto. Era depresso fondo. Bisognerebbe parlarne di più di queste cose, invece. Invece di fare i “sensibili superiori”.”
    Dunque mi sono chiesto se un depresso sia capace di scegliere. Da questo commento, sembra di no. Ma se non è capace di scegliere, lo si può ritenere responsabile di ciò che fa?
    Domande. E come si misura il grado di depressione? Perché se c’è un “depresso fondo”, ci potrà essere anche un “depresso non fondo”, immagino. Ma siamo sicuri che un “depresso non fondo” non sia capace di fare ciò che può fare un “depresso fondo”? Ancora domande.

    Tu invece ti chiedi se a suicidarsi siano le persone “depresse”, “malate”. Da cui, penso, tu ritieni che DFW sia stato capace di scegliere, e scegliere di morire. Sembra anche, da quello che scrivi, che ti chieda: Non è che con la parola “depressione”, “malattia”, non si voglia che allontanare da noi, noi che ci reputiamo “sani”, la potenzialità di commettere certi atti? Noi non ci suicideremmo, e noi siamo sani, quindi chi lo fa è malato. Depresso.
    Non so se ho inteso bene quello che hai scritto, caso mai mi correggi.

    Si potrebbe parlarne per ore. Per sempre. C’è chi l’ha fatto. Ma non si fa.

    Si impara a conviverci, e non è per niente facile.

  19. Penso che qualcuno potrebbe aiutarmi a pensare una cosa, che scorre veloce nei nostri discorsi, ma che io non riesco a vedere così risolta.
    Parlo dell’essere in grado o del non essere in grado di decidere.
    Chi lo decide e su quali basi oggettive?
    Ci si basa sul “nostro” giudizio, sul giudizio “comunitario”, che quell’individuo esprime dei comportamenti da cui si deduce che è un “minus habens”?

    Oppure si parte dal punto di vista laico che non esiste un’unica “natura umana”. Uguale per tutti.
    Ma che ogni individuo è integro umanamente con “tutte” le qualità negative e positive che possiede?

    Voglio dire, la questione si pone come per il “linguaggio privato” di Wittgenstein: che un individuo sia *sempre* integro e in possesso delle *sue* capacità è indiscutibile. Tautologia: uno è quello che è.
    La società interviene con le sue leggi per reprimere atti che la danneggiano – come sempre – ma non può pretendere di poter imporre un “bene”.
    Di mettere sotto tutela chi giudica che abbia un comportamento giudicato inaccettabile.
    Si scivolerebbe senza accorgersene nello Stato etico.

    Per quanto riguarda la depresione esiste una bibliografia sconfinata e scuole che la pensano in modi del tutto contrapposti.
    Personalmente, cioè non obiettivamente, mi colpì, molti anni fa un libro di James Hillman, Il suicidio e l’anima, Astrolabio, ma più o meno le stesse cose, meno filosofiche e più tecniche, le ho trovate sparse nell’opera di C.G. Jung.
    In questo ambito si tende al minimo intervento, senza escludere aiuti farmaceutici, ma puntando tutto sulla possibilità di accompagnare l’individuo in una regressione, dentro quello stato [mi riesce difficile chiamarla malattia che le dà un connotato del tutto negativo], che può provocare, alla fine, un’uscita dalla stessa.
    E’ chiaro che non può trattarsi, in questo caso, di una terapia da richiedere all’Asl.
    Il pericolo di suicidio si accentua, e quindi la scelta è una scelta responsabile che si può fare soltanto individualmente.

  20. Caro Andrea e tutti, non so cosa ci si aspetti da Nazione Indiana, credo sia soggettivo. E se come dice Franz, “Bisognerebbe parlarne di più di queste cose, invece”, e come farlo e dove farlo.
    Forse io sono una sensibile, ma non certo superiore.
    Mi stupisce sempre favorevolmente la piega che prendono i commenti.
    Di come si specchia se stessi negli argomenti.
    La notizia della morte di DFW, appresa domenica mattina, mi ha molto addolorato.
    Tristezza generazionale è un termine ridicolo forse?
    Solo chi è coetaneo di Wallace forse afferra cosa volessi intendere e ride meno, vivendo a fondo quel disincanto dopo essere stati bambini nell’ “incanto” degli anni 60.

    La lettura di Infinite Jest ha accompagnato un momento particolare della mia vita.
    Come a molti succede per i libri. Per anni non ho letto un libro, sentito musica, visto film. A volte si ha altro di importante e vitale da fare. Al mio”ritorno” nelle patrie lettere ho trovato tutto quasi come prima, con la sensazione di non essermi poi persa molto. Altrove no: e scoprire di aver perso DFW è stato “trovarlo”, esondante, eccessivo con galassie dentro. Esemplare nello stile.

    Le agenzie trovate in rete riprendevano biografie copiate da wikipedia, molto scarne, di circostanza.
    Il giornalismo che spiluzzica internet qui e là di seconda mano non mi interessa.
    E tutte quelle cose tipo con DFW muore questo o quello, e il male di vivere, e la fine di un epoca mi fanno sorridere.
    Così ho preferito a caldo che fossero le parole di Wallace a parlare, la sua immagine mentre le diceva, gli sguardi, le pause, il muoversi delle mani.
    Le risate del pubblico che fanno da contrappunto alla sua lettura.
    La qualità della sua ironia senza artifici, che agisce per accumulo di realtà trasformandola in paradosso. Forzando i giudizi sugli aggettivi e sugli avverbi, mai neutri, sempre a spillo sulle cose.
    Molti Wallace non lo hanno letto.
    Molti magari lo leggeranno adesso che non c’è più. Capita.
    Ci saranno fortunate ristampe. Capita.
    Le parole degli scrittori son quel che di vivo resta.
    Nessun santino di Wallace da nessuno qui, mi pare.
    Le esagerazioni retoriche sulle offese alla memoria le lascerei per altre più proprie occasioni.
    Non riesco nemmeno a vedere il suicidio come una fredda sbandierata auto-eutanasia. Una scelta stoica. Credo che ogni caso sia diverso, con il suo carico di dolore, di cause che sono e devono restare imperscrutabili per gli altri.
    Ci sono altre “voci letterarie” in giro che DFW avesse un male incurabile allo stomaco.
    Chissà.
    Cosa importa in fondo? Chissà se la depressione “aiuta” o impedisce di scrivere, nei suoi vari gradi di uscite, ritorni e non ritorni?
    La catena dei se diventa esponenziale.
    Nelle vite cosa si sceglie o che cosa si subisce e talmente mescolato.
    Grazie a tutti.

  21. “La persona depressa viveva un terribile e incessante dolore emotivo, e l’impossibilità di esternare o tradurre in parole quel dolore era già una componente del dolore e un fattore che contribuiva al suo orrore di fondo.”
    “Come faceva a decidere e descrivere – anche solo a se stessa, guardandosi dentro e affrontandosi – cosa tutto quello che aveva appreso così dolorosamente diceva di lei?”

    “Metti piede nella pelle e scompari.
    Ciao.”

  22. Quoto per intero il commento di Orsola e soprattutto:
    “Tristezza generazionale è un termine ridicolo forse?
    Solo chi è coetaneo di Wallace forse afferra cosa volessi intendere e ride meno, vivendo a fondo quel disincanto dopo essere stati bambini nell’ “incanto” degli anni 60”.
    Non avrei saputo spiegare altrettanto egregiamente.

  23. Da qualche parte ho letto che il film di Krasinski è previsto per il 2009. Sono molto deluso da NI che ha trascurato la morte di DFW, ma del resto non è la sola omissione di NI. C’è qualcosa su Alitalia? C’è mai qualcosa sulla politica? Cos’è NI?

  24. Tutti parlano della depressione, bisogna esserci dentro e esserci passato per capire, per non parlare di sterili polemiche post.morte. David se n’è andato. Punto. Ad ognuno spetta somattizzare il proprio dolore. Ovunque leggo citazioni estrapolate dal loro contesto, non sono d’accordo come non sono assolutamente d’accordo su dfw “ironico” almeno per come intende l’ironia la Società OCcidentalizzata. Grazie a Orsola per la traduzione. Grazie

  25. “Tristezza generazionale” non è un termine “ridicolo” riferito a chi lo esprime, in effetti, dato che possiamo esprimere ciò che vogliamo in base ai nostri sentimenti e in relazione allo shock emozionale che la scomparsa di un simile personaggio causa.
    E’ ridicolo se riferito alla letteratura in genere perchè la “deprime” al ruolo di pupazzetto nella bacheca dei ricordi. La possiamo dunque valutare solo in relazione a ciò che siamo o siamo stati. Arrivando al paradosso potrei citare persino la famosa maglietta fina del sublime aedo canoro. Ma non lo faccio. Essendoci un limite a tutto.
    Leggendo gli autori, generazionalmente precedenti, che Dave apertamente considera i suoi ispiratori possiamo trovare molti elementi ed argomenti e temi che Dave ha sviluppato in modo sorprendentemente profondo (per esempio, a caso, leggetevi il capitolo 7 di Fine della Strada di Barth e ditemi se non è una Breve Intervista ad un Uomo Schifoso). Esprimere il disagio, come, in modo iperrealisticamente efficace, Dave esprime, da un punto di vista letterarario, è la naturale evoluzione di un certo modo di descrivere la vita. E’ ovvio che il suicidio modifica la cifra di tutto questo. Crocifigge l’autore alla sua opera. E ne deforma i significati. In questo senso interrogarsi sui motivi non è peregrino. L’opera è l’autore e viceversa e non si può così superficialmente porre un limite tra di essi.
    E, questo tipo di accidentalità, consegna l’autore in pasto alle classificazioni della critica e della storiografia. Il senso dell’opera di autori complessi e difficilmente catalogabili, come Dave indubbiamente è ne viene distorto.
    Ho sofferto per questa cosa. Tutti i libri di Dave che posseggo non hanno la data della morte sopra. Questo significa qualcosa anche se non so cosa.

  26. la depressione è considerata malattia. la malattia psichiatrica, tuttavia, essendo tutte le discipline che derivano dalla radice “psico” non scientifiche, è una convenzione, una cornice per intenderci, per capirci: ciò che sta dentro a questa cornice è la soggettività, la parte imperscrutabile che ciascuno è.
    anch’io sono addolorato e non so perché. anch’io conosco e non conosco wallace attraverso ciò che ho letto, poco, e che ho potuto apprezzare o non apprezzare.
    il genio non può che deludere, che essere minore di quello che ci si aspetta da lui. credo non si potrà mai essere totalmente geniali: siamo troppo scissi, troppo attratti dalle aspettative che abbiamo su qualcuno per non rimanere delusi da ciò che quel qualcuno, umanamente è. troppo bisognosi dell’idea che qualcuno rasenti la perfezione salvo poi scoprire che non si lava le ascelle.
    insomma, ci sono molti elementi sufficienti a innescare quella “tristezza generazionale” di cui sopra. uno che faceva ben figurare la nostra generazione, che la riscattava da quel vuoto, da quell’assenza di titoli, dal non poter aspirare all’immortalità.
    non so perché sono triste, non so perché ho scritte queste parole, non so perché non so.
    quel che so, è che nel lutto, ci si può concedere di non sapere e non capire.
    e infatti non so perché uno come wallace si sia suicidato. non lo saprà mai nessuno. se ne parlerà e saranno parole dovute, se non avranno l’esagerata pretesa di voler sapere e capire.

  27. “quel che so, è che nel lutto, ci si può concedere di non sapere e non capire.”

    si DEVE concedere di non sapere e capire, senza apologie sull’ironia

  28. In realtà “genio” è un concetto difficile da circoscrivere in termini precisi. Nella nostra comune accezione è un termine positivo comunemente associato al successo.
    Peraltro i personaggi che descrive Dave sono assolutamente geniali in qualcosa ma perdenti nella loro globalità esistenziale. Credo che sia una chiave di lettura importante. Questo senso di incompletezza può essere un ostacolo insormontabile per qualcuno ossessionato dalla perfezione della logica esistenziale.

  29. Tristezza generazionale non era una etichetta letteraria, tutt’altro, direi una sottesa sensazione che in Wallce diventava disincanto ed analisi spietata ed acuta della realtà, in altri magari una letteratura di perenne autoanalisi, in altri ancora, che non scrivono, solo uno strano disaddatamento perenne.

    Voler sapere o capire non passa attraverso una rilettura dell’opera di Wallace alla luce del suicidio e nemmeno cercando di fare un’analisi della sua vita scandagliando la sua opera alla ricerca dei sintomi. La rete abbonda di citazioni di Caro vecchio neon, dove si racconta di un suicidio, come seme del gesto attuale.
    Mi sembra un modo inconsapevole, di certo in buona fede, di sminuire sia l’uomo che lo scrittore.

  30. “Tristezza generazionale”. Ancora.
    Diciamo che disadattamento e senso di impotenza sono mood che coinvolgono diverse generazioni. Se chiudessimo il discorso ai quarantaseienni…
    http://www.youtube.com/watch?v=Uqx1ktf5rVQ
    Che in Wallace ciò assuma una colorazione stilistica sua propria è innegabile ma sento, a pelle, che è una direzione che, immancabilmente, impoverisce tutto ciò che ci ha lasciato.

  31. Soldato Blu, le tue domande retoriche finto buoniste sono stucchevoli. Stai facendo di tutto per cancellare il tuo pensiero dominante del primo commento.
    A me non interessa per niente sapere perchè si è suicidato. Qualsiasi discorso sarebbe pura e stupida accademia, non potendolo mai scoprire.
    Sarò egoista, ma il mio dolore vero è che non potrò più leggere di lui. Non potrò aspettarmi sue parole, non potrò godere del suo pensiero, oltre quello che mi rimane da scoprire rileggendo i suoi testi (che già ho riletto più volte in passato, amando in maniera viscerale la sua tecnica).
    Sono addolorata per la perdita che questo mondo avrà con la sua scomparsa. Non avrei mai pensato che tutto finisse così presto.
    Io sono profondamente addolorata per un universo meraviglioso che ora non c’è più. E’ un puro, semplice senso di perdita. Ecco.

  32. E’ bene che i redattori non siano responsabili dei commenti ai loro post, altrimenti, alcune volte, potrebbero venire accusati di circolocuzione d’incapaci.

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orsola puecher
orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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