Overbooking: Valentina Maini
Dalla parte della bambina
di
Monica Battisti
Gorane e Jokin, protagonisti del romanzo La mischia, sono due gemelli di venticinque anni. Come tutti i gemelli letterari che si rispettino, hanno tra loro un rapporto viscerale, morboso, complementare, irrisolto. Presentano alcuni tratti caratteriali in comune – tratti che agli occhi della gente li fanno apparire impenetrabili, alternativi, borderline, sociopatici –, ma sono poi le differenze a portare almeno uno dei due (Gorane) a una decisiva quanto imprevista evoluzione. Tra i fattori che li accomunano, inevitabilmente, il milieu in cui sono cresciuti: a Bilbao i loro genitori, attivisti dell’ETA e protagonisti di numerosi attacchi terroristici ai danni del governo spagnolo, hanno infatti applicato un rigido protocollo educativo: non avere protocolli, se non quello di aderire, incondizionatamente, all’ideologia che loro stessi hanno abbracciato e che hanno portato avanti fino alla morte con ammirevole coerenza, o forse con bieca incoscienza. Un’educazione, quindi, non priva di contraddizioni: educazione ad una libertà senza limiti, alla violenza se necessario, alla sofferenza come forma di immunità. «La storia di ogni infanzia è quella di un bambino che fa rumore per essere trovato».
Più eventi traumatici inaugurano i tentativi di affrancamento dall’interiorizzazione del modello genitoriale: la morte dei genitori, dopo la quale Jokin decide di fuggire a Parigi (2007); la sparizione di Jokin, in seguito alla quale Gorane, spinta dalla lettura di un libro, si mette alla ricerca del fratello, trasferendosi a Parigi (2008); la scomparsa fisica, letteraria e simbolica di Jokin, dopo la quale Gorane inaugurerà una nuova vita (2008-2015). Ciascun evento è reso possibile grazie a entrambi i personaggi, che continuano a cercare, a mantenere una connessione nonostante non abbiano tra loro contatti di nessun tipo.
Nella seconda parte (“Primo movimento”, “Secondo movimento”, “Terzo movimento”), però, è Gorane a conquistare maggiore spazio narrativo: è lei la protagonista di una moderna quête, più che di un’enquête (quella sì, piuttosto fallimentare), incentrata sul suo doppio, e quindi su di sé: «io i piedi staccati dal suolo li ho dalla nascita e ciò che desidero più di ogni altra cosa è atterrare, mettere radici e sprofondare nella terra fino a non muovermi mai più». È una quête circolare, in cui il vero oggetto del desiderio si rivela essere, in ultima istanza, sé stessa: il vero esito è il ri-trovarsi, il re-inventarsi. È una quête, ancora, in qualche modo ratée – per usare un termine caro alla psicanalisi, altro elemento centrale nel romanzo –, dato che Gorane e Jokin non riusciranno più a incontrarsi, se non mediante un tertium, una nuova vita che “purifica” quelle precedenti. Il verbo d’altronde non è casuale: tutto il romanzo sfoggia un lessico afferente al campo della contaminazione e del contagio («virus», «malattia», «inquinamento», «infezione», «sporco esterno», «sporca», «immune»), in riferimento a tutto ciò che di esterno può penetrare ed essere iniettato all’interno.
Felice la scelta adottata da Maini per comporre il suo romanzo: una struttura polifonica, ben orchestrata, con strumenti narratologici diversi nella prima e nella seconda parte. La prima, suddivisa in tre sezioni, dà voce rispettivamente a Gorane, Jokin e i genitori dei due (che parlano post mortem come un’unità plurale), permettendo al lettore di accedere direttamente ai loro mondi, senza mediazioni o filtri; nella seconda, al punto di vista di Gorane si alternano con un preciso espediente degli inserti che hanno lo scopo di dar voce ai personaggi minori, incontrati via via nella prima parte. La struttura non poteva essere più azzeccata, a conferma dell’incompatibilità tra la rappresentazione che si ha di sé e quella che di sé hanno gli altri, e della necessità di rimodulare continuamente, come in una ricetta alchemica, le due componenti per trarne un’immagine plausibile; pone inoltre l’accento sull’ineludibilità del fattore sociale. Non vi è mai, quindi, una vera e propria focalizzazione esterna o zero, e i riferimenti alla realtà (come quella terroristica) sono citati quasi per sbaglio, afferrati di sguincio, filtrati dalla realtà dei personaggi a volte disorientante per il lettore: la realtà sembra scorrere ai loro lati e fare da sfondo a un mondo di allucinazioni, correlazioni, casualità, ossessioni, analogie poetiche – fino a quando piomba, con agghiacciante crudeltà e aderenza alla storia, nelle ultime tre magistrali pagine del romanzo.
La «mischia» è anche questo: un mescolarsi di piani narrativi e psicologici, nonché una promiscuità di corpi desiderata o rigettata (Jokin: «Sognavo di mischiarmi a lei, a mio padre, a mia sorella, in una specie di ritorno a un’origine sconosciuta»; Gorane: «Io non sopporto le mescolanze perché ci sono cresciuta, nella mischia, perché nessuno mi ha insegnato come separare il sogno dalla veglia, l’infanzia dall’adolescenza dall’età adulta e dalla vecchiaia, l’essere figlio dall’essere genitore, la giustizia dalla brutalità» etc). Nell’espressione figurata ‘buttarsi nella mischia’, infine, è anche prendere posizione, decidere di sporcarsi le mani – l’incubo di Gorane – per contendersi violentemente qualcosa: quello che non fa lo scrittore Dominique Luque, «che non vuole mischiarsi con la nostra roba, la nostra gente».
I caratteri si esprimono, di preferenza, mediante una scrittura ossimorica, di contrasto, di associazioni contraddittorie, entro blocchi di testo compatti e periodi brevi e schietti, marcati dall’uso insistito del punto fermo: «come se la carta fosse fatta di sassi, buche e montagne», per riprendere una similitudine impiegata nel romanzo. Due esempi scelti a caso: «Volevo di più. Non volevo niente»; «Ero senza personalità. Avevo troppa personalità».
Tra romanzo familiare e Bildungsroman (con una protagonista che è una bambina mai cresciuta, o cresciuta troppo in fretta), La mischia tratteggia quindi in modo efficace due personalità complesse, per certi versi marginali ed emarginate, sfruttando con grande abilità l’alternanza tra focalizzazioni e punti di vista, senza forzature retoriche; ma soprattutto, La mischia induce una riflessione profonda sul ruolo genitoriale, sulle conseguenze di un’educazione squilibrata e l’indottrinamento dei valori, sul rapporto tra patria e lingua madre, sull’arbitrarietà delle relazioni umane, sui limiti della libertà e sui pericoli dell’amore nelle sue numerose forme ed eccessi.