L’ultimo dipinto che ho visto con la pandemia già in atto, ma non ancora dichiarata

di Paolo Morelli

Il nostro viaggio non è ancora finito, eppure oggi abbiamo incontrato la madre. È un’icona dell’anno Milleedue circa che Barbarossa regalò al duomo di Spoleto e qui sta tuttora. Gliel’ha regalata per consolazione, dopo che aveva bruciato tutto in seguito al pagamento di una tassa con moneta falsa. Incastrata nell’argento pacchiano è apparsa come una spiegazione ipnotica dell’impossibilità per l’arte di legarsi al concetto di evoluzione, a una sequenza bellamente spiegata col senno di poi.
L’icona è piccolissima, dipinta su stoffa in un rettangolo 25 x 35, forse. Il soggetto è la grande madre, nella postura codificata chiamata heghiosoritissa, cioè colta nel momento del dialogo dolente col figlio in croce che non c’è. Mano tesa e braccio, sicuramente il sinistro, sono infatti rivolti in alto, e sotto di essi scorre nel cartiglio il dialogo greco:
“Che domandi o madre?”
“La salvezza degli uomini”
“Mi provocano con la loro durezza di cuore”
“Compatisci, figlio mio”
“Ma non si ravvedono”
“E tu salvali per compassione”.
Infine una dedica a noi incomprensibile: “Irene a Pietro Lifena”.
Ma è la figura a colpire nel segno, a mostrare ciò che non si può spiegare ma solo ribadire. Perché, pur nella sfinitezza del volto e del collo, pure nella luminatura di luce del volto, pure insomma se vi si riconoscono tutti i tratti ieratici del codice figurativo bizantino (tranne le macchie sulle gote), il volto, paludato di nero e colorato di quel verde dolente che ritroveremo sul Cristo di molte immagini italiane è di una bellezza e soavità di tratto che restano per sempre, insuperati da alcun raffinamento di tecniche o progressi o liberazioni dell’umano sentire, cosiddetto.
La linea forte delle ciglia, la serenità dello sguardo, il naso allungato ombreggiato e sottile, la piccola bocca di fervido rosso: è un’apparizione lirica addirittura, forte e soave insieme, pochi tratti e pochi colori in un triangolo di visione che appare dal buio dell’abito, il quale a sua volta si circonda di una aureola a puntini rossi e blu o neri, ed è perduto nello sfondo oro. Perché lo sfondo deve abbacinare arrivando e poi scomparire, e l’attenzione deve cercare il viso della figura, lì fissarsi e trascendere.
Quello che fa di questa icona la fonte, la ragione e il disvelamento di questo viaggio alla ricerca della fissazione medievale, della miriade di occhi fissi nel vuoto o meglio sbigottiti, è che essa mostra semplicemente o meglio ancora ribadisce che ogni artista usa ciò che gli viene tramandato come materiale ispirativo e le tecniche, idee e visioni del mondo cosiddette sono niente più che contingenza e incombenza, e nulla decidono dell’espressione.
Ma questa giornata che di fatto ha spiegato il nostro viaggio era cominciata con Giunta Pisano, con l’eleganza sobria e intuitiva di quella che è forse la prima fra le sue croci documentate (in santa Maria degli Angioli, sotto Assisi). E come una tappa fatta camminando a ritroso nel tempo avevamo ammirato il mosaico eseguito qualche anno prima sullo stesso Duomo di Spoleto (1217), e ancora indietro di trent’anni fino ad Alberto Sotio e al suo Cristo trionfante di pergamena incollata su tavola. Poi, uscendo dalla cattedrale a piccoli passi, un’altra suggestione: la scrittura autografa di Francesco, colta fitta elegante, su un foglio grande come quello di un notes. È una lettera a fratello Leone, gli parla “come una madre”, riassume “tutte le parole che ci siamo scambiati per strada”.
E poi ancora indietro il nostro itinerario di croci, quando Cristo trionfava, spiegato, isolato in un mondo piatto e d’oro, con la testa grande, gli occhi spalancati, severi, talvolta truci. La sua apparizione, rigida e talmente codificata non lasciava spazio a distrazioni di sorta, bisognava inginocchiarsi e fissarsi, abbandonare ogni volontà sperando nell’estasi, nell’unione con il gran Dio.
Poi l’icona passò in mano a Giunta, Cimabue, al maestro di san Francesco e infine la figura si disperse in Giotto. Da simbolo trionfante Cristo chiude quegli occhi sbigottiti, muore e si fa uomo, si riappropria col dolore tutto umano del mondo, dello spazio e del tempo, della conoscenza e del progresso.
Cristo si fece uomo come si dice, e l’uomo scoprì attorno a sé lo spazio, si liberò dall’univoco rapporto con la trascendenza, entrò nella Storia, rinnovando la sua condanna. Fu liberazione necessaria, o contingente. L’uomo si confrontò con lo spazio e grandi cattedrali di idee erano pronte a ricordargli il privilegio assurdo e micidiale di dominare la natura. Col tempo l’artista dimenticò lo scambio possibile e anzi richiesto con i decreti del cosmo e poi necessariamente, dopo il Rinascimento, si compì lo scollamento fra arte e morale, tra poetica ed etica, nonché l’abbandono dell’unità remota e profonda che era il poco cibo, il sostentamento e ragion d’essere dell’arte medievale.
E con lo spazio che si apre dalla piattezza della tavola anche l’immobilità, l’astrattezza temporale si mettono in moto e si comincia a conoscere per disposizione di sequenze progressive. Con la prospettiva aumenta in fin dei conti l’illusione, o meglio la licenza dell’illusione.
È vero: tutto era piatto e sospeso nell’arte ieratica bizantina, l’atmosfera era deprimente, la separazione tra spirito e corpo totale e inequivocabile, ma in quel plumbeo azzeramento personale l’artista possedeva un ruolo fondamentale come tramite con l’aldilà, con il compito o il privilegio insigne di conservare con cura il mistero dello sconosciuto. Dopo, dallo stato di grazia si passa allo stato d’animo.
Cos’è il progresso? La storia dell’umanità si può leggere soltanto come un seriale o senile percorso in avanti oppure ogni epoca, ogni artista ad esempio, si fa tutta la strada, dagli albori animaleschi alla catastrofe, alla distruzione finale? Nell’arte il progresso di certo è niente altro che un’illusione ottica come la linea dell’orizzonte, il suo linguaggio non si evolve mai, l’evoluzione del linguaggio è un’altra illusione, come la forma.
Come se non bastasse, scrivo queste considerazioni ovvie allo scrittoio di una stanza che sta sul retro di un’altra di quello che era una volta l’Albergo della Posta, stanza quella dove per due volte di un giorno soggiornò Leopardi, nel 1817 e 1823. Scrivo sul retro di Leopardi.

(Spoleto 15 febbraio 2020)

 

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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