Fui invitato a parlare d’amore
di Giacomo Zibardi
Fui invitato a parlare d’amore. Il titolo del convegno era La nuova letteratura di Utopia, frammenti dal verbo. Il convegno era stato organizzato per l’uscita del primo volume antologico che raccoglieva testi di giovani scrittori morti durante la guerra. L’ente promotore era una commissione governativa, qualcosa del genere, o un’associazione legata comunque ad apparati governativi.
Una settimana prima dell’incontro mi spedirono il volume. Diedi una rapida occhiata alle prime pagine: erano per lo più elenchi di strazianti privazioni o cataloghi di morte, non ci trovai molto d’interessante e così piantai lì la lettura, chiedendomi perché fossi stato invitato a parlare d’amore.
Scesi dal pullman che pioveva a dirotto. Non tornavo ad Amauroto da troppi anni. Lo scroscio dell’acqua anestetizzava i suoni della città, i fanali dei veicoli in mezzo alla pasta sottile e verticale della pioggia sembravano scomporsi. Quel quadro urbano così sfumato mi riempì di gioia, vergogna e disperazione. Alla stazione venne una delegazione del convegno, mi accolsero con fare cerimonioso, accompagnandomi nella struttura dove avrei alloggiato: un hotel costruito su una scogliera a picco sul mare.
Passai la sera in stanza, a preparare il mio intervento, cercando parole che non scadessero nel tecnicismo, continuando a domandarmi perché un convegno letterario dovesse affrontare quell’argomento così ostico, freddo e oscuro come l’amore. Quando fui stufo guardai fuori dalla finestra il mare che era stato il mio mare, la mia infanzia, e lo trovai sempre uguale e piatto e nero come la notte più buia del mondo. Più tardi, sdraiato nel letto, cercai di non pensare a niente, fossilizzarmi sull’intonaco bianco del soffitto, la graziosa trama degli stucchi che lo decoravano, ma più credevo di svuotarmi più cominciavo a riempirmi di dubbi e quel soffitto cominciava a sembrarmi troppo sottile per reggere al peso del tetto e pronto a disfarsi per crollarmi in testa.
Le caverne erano un luogo buio e sublime. Stalattiti e stalagmiti componevano scenari fiabeschi, tutto lì dentro era sospeso nella bellezza e quella bellezza mi prendeva per mano, conducendomi sempre più in profondità, dentro le viscere della terra. Sapevo di aver raggiunto il centro esatto delle grotte e lì mi fermavo. Quella grotta era come illuminata dal bagliore pallido di un fuoco invisibile. Un bambino senza volto, vestito di stracci, mi veniva incontro sbucando dalla penombra e invitandomi a seguirlo, vieni, diceva allungando il suo braccino. Lo prendevo per mano pieno di fiducia e stupore. Il bambino mi conduceva dove la luce era più debole, dopo qualche passo eravamo nel buio. Camminavamo nel buio e avevo paura, dove mi stai portando? gli chiedevo, ma lui non rispondeva. Camminavano e avevo sempre più paura, finché un puntino luminoso apparve davanti a me. Trascinavo il bambino verso quel puntino. Quella luce filtrava da un passaggio angusto, io e il bambino senza volto ci infilammo dentro e strisciammo fino a una nuova grotta enorme e bianca, le rocce della grotta brillavano lucide. Al centro della grotta c’era un buco. Il bambino indicava il buco e io mi avvicinavo. Era un buco senza fondo, nero. Sapevo che dovevo tuffarmi dentro, e che dentro quell’oscurità avrei trovato la risposta al sogno, ma in quel momento mi svegliai sudato, con la bocca legata dalla sete.
Avevo ancora un giorno libero prima del convegno. La pioggia era sparita, il sole splendeva alto, così decisi di fare una passeggiata sul lungomare come facevo da ragazzo.
Trovai le solite piastrelle, solo più consumate. Le solite panchine, ma verniciate di un altro colore. Il solito bar, quello immutato. Ripassai mentalmente i miei appunti prima di sedermi ai tavolini del bar. L’amore secondo i più recenti studi è un virus immutabile, non si adatta al corpo estraneo che contamina, non evolve, è peculiarmente atipico, sfugge a qualsiasi letteratura medica. Al momento una cura è lontana, la mappatura genetica non è ancora completa, pare esistano diverse tipologie dello stesso ceppo virale ecc. ecc.; già troppi tecnicismi, pensai.
Quando ero ragazzo, prima dell’esilio, prima della guerra, prima di tutto, il mare mi sembrava un posto adatto per i desideri e per il futuro in generale. Quella mattina mi sembrò solo un paesaggio ingannevole che nascondeva l’abisso.
Tornai in albergo prima che il sole annegasse nell’acqua. Non vidi nessun per tutta la giornata, non parlai con nessuno. Arrivò quindi il tramonto. Incorniciato nel vetro della finestra il mondo era rosso e sembrava preda dell’incendio finale. Fui attraversato da un’idea fulminea e corsi ad annotarla. Decisi di aprire il mio discorso al convegno con questa frase: l’amore è l’incendio finale. Ma a vederla scritta sembrò troppo criptica, così cambiai con: l’amore è un’apocalisse. E fui soddisfatto.
Mi sdraiai a letto sforzandomi di riprendere il sogno della notte precedente, di tornare nelle caverne e conoscere i segreti nascosti dentro il buco nero. Dormii senza sogni, aprendo gli occhi frastornato dal pensiero di statistiche sulla diffusione del contagio, sui metodi di trasmissione del virus, pensando al volto di Alice e al suo sorriso da ragno e al suo corpo, maledicendola e provando allo stesso tempo un irreprensibile desiderio di averla lì di fianco a me sul letto, in quel momento inutile. La malattia si sviluppava rapida. Quanto tempo avevo ancora? Quanti giorni di lucidità? Sapevo di aver contratto il virus da circa un mese, contando un periodo di incubazione di due settimane, non mi rimaneva molto.
Al convegno parlai velocemente temendo di fare una brutta figura o incappare in qualche strafalcione. Invece fu un successo e tutti mi applaudirono. Sul pullman durante il viaggio di ritorno guardai tutto il tempo fuori dal finestrino, la velocità deformava le cose del mondo inclinandole.
Passò poco tempo e ad Anapoli fu trovata una cura. Grazie a un amico medico riuscii a procurarmi il vaccino prima che fosse troppo tardi. L’apocalisse era scongiurata. Nel giro di qualche anno l’amore smise di fare paura e le persone cominciarono ad accettare i malati senza vederli come lebbrosi.
Rividi Alice per caso dentro un bar, ci salutammo e parlammo un po’ del più e del meno. Non avevamo molto da dirci. Lei abbassava spesso lo sguardo. Forse non si era curata, forse ero io paranoico, forse semplicemente non voleva guarire e aveva accettato la sua apocalisse. Non lo so. In ogni caso mi sembrò triste e debole, ma di una debolezza così autentica da sembrarmi coraggiosa.