Se il virtuale trabocca nel reale
di Mariasole Ariot
Forse ai nostri giorni l’obiettivo non è quello di scoprire che cosa siamo, ma di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire quello che potremmo essere.
Foucault
Dove prima stava una gabbia poggiata sul terreno – e la guardavamo, introducevamo piccoli granelli di parole, fotogrammi, pensieri che ritenevamo inutili alla carta, un giorno nella gabbia siamo entrati.
Ora, le regole della gabbia sono schizzate fuori dalle grate, invadono le strade, ci gonfiano gli occhi al mattino, dispercepiscono le relazioni, modellano come creta una morte che non sarà più morte: perché tutto resta. Modellano la vita togliendo grammi di vita alla vita.
Le bocche spalancate, la pelle dei corpi senza pelle, la vendetta dei bisogni, la chiusa del peso specifico del sogno, avere fili al posto degli arti, avere arti al posto dei figli.
Prima era l’oggetto guardato, usato. Poi l’oggetto ci “ha diventati” – e ora, la coincidenza tra l’io che fruisce del dispositivo e il dispositivo stesso ha oggettificato i fruitori e soggettivato l’oggetto.
Scorrendo la “propria” bacheca passano milioni di informazioni, e il tempo e lo spazio e l’attenzione dedicati ad ogni singolo elemento è pressoché identico: una foto di mare del compagno di scuola, un quadro di Schiele, una dichiarazione di guerra, la morte di un padre, uno schizzo di sangue, la nascita di un figlio, una riflessione a margine dell’esistenza, un lettino d’ospedale, un pianto, un grido, un lamento, una citazione, un verso, uno sputo.
L’indice scivola veloce sullo schermo, e la frequenza con cui lo si apre e si chiude e si riapre cresce esponenzialmente: eppure non è una schiavitù, piuttosto la scelta inconscia di essere scelti: perché rassicura, perché non richiede sforzo ma solo posizionamento.
Ma se prima i meccanismi perversi della rete restavano nel loro interno, ora sono usciti nel fuori: la gabbia in forma di animale impazzito si è gonfiata al punto da non poter più contenere i propri organi e le proprie leggi, e così organi e leggi che la governavano sono diventate le leggi che governano le intimità (mancate) del mondo esterno.
Un’allucinazione cenestesica che sborda i confini e si riversa nel reale. Il dato diventa un fatto assoluto: se sorride in foto è felice. Se non scrive più è venuto a mancare. Se è mancato, va dimenticato.
E in questo sbordare, in questo traboccare del retroscena nella scena del mondo, raccogliamo fotogrammi per le strade, brevi informazioni, poche parole, un singulto, il dettaglio minimale di un abito, qualche silenzio per farne narrazione arbitraria di un altro che non vogliamo più conoscere ma che vogliamo conoscere perché crediamo di aver già conosciuto, di saperlo già: il potere di un sapere vuoto che sorpassa e supera e ingoia il desiderio di una piena conoscenza.
Se il sapere non concede dubbi, la conoscenza (che è movimento) li apre: e se i dubbi sono buche nel mondo, riconcepirli significa disporsi al sommottamento. Significa: disfare l’io, smontarlo. Significa: togliere strati solidi all’esistenza: un’operazione intollerabile.
Come intollerabile diventa la minima crepa: imbattersi nel fuori in un dettaglio non corrispondente alla narrazione che abbiamo costruito ci permette il diritto di togliere la parola all’altro con la stessa velocità con cui con un tastino in rete lo si banna.
Oppure: l’opposto. Un accoppiamento tra simili che si accoppiano perché l’algoritmo dice: compatibilità.In una bulimia del raccolto non è possibile raccogliere nulla: tutto è perdita, tutto va in perdita in una compulsione al legame ridicolo, la progressiva perdita di lettura della realtà: guardare non è vedere. Il voyeurismo solitario si spinge al collettivo, gli argini sono caduti.
Migliaia di esserini come acini uno uguale all’altro, dove tutti diventano tutti, quando il noi scompare, quando il tu non serve, quando noi è dire io, quando io è dire io, come acini uno uguale all’altro aggrappati a grappoli per non dirsi soli – ma quanto siamo soli.
In un’epoca in cui l’interno vacilla, lo slittamento delle dinamiche malate dei luoghi di scambio illusorio ha aperto la strada alla sua chiusa: il virtuale trabocca nel reale: andare sul sicuro, smetterla coi territori accidentati, vanificare la scoperta, la possibilità di delusione o di stupore, non contemplare la frana, lo scricchiolio, l’imperfezione, l’abbaglio – e la scelta slitta all’indietro, anticipa sé stessa in un cortocircuito che non ha tempo di perdere tempo.
La pancia della gabbia è piena, vomita nel fuori gli organi che ha concepito. Resta la resistenza degli spazi minimali, allargare gli interstizi, disinquinare lo sguardo dai codici con cui ci stiamo eliminando.
Immagine: “Good fences make goood nieghbors” by Ai Weiwei per il Public Art Fund a New York. Courtesy Ai Weiwei Studio
*a Sergio, alle sacche di resistenza
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Mi chiedo, in questi giorni di sovraesposizione allo schermo (che a volte vuol dire studio, a volte scambio, a volte una fruizione nevrotica – il famoso ditino che scorre), se sia ancora utile (utile per conoscere i noi di oggi, marzo 2020) pensarci in questa distinzione tra reale e virtuale. Non dico nulla di nuovo, poi: la dimensione virtuale è una forma di realtà, e perché non dovrebbe/potrebbe esserlo, considerato tutto il tempo e le energie che vi sono investite? Rimane da decidere se è realtà residuale, diminuita, narcisistica, tossica, o in qualche modo sostenibile. Troppo dipende da ciascuno in questo spazio, e nessuno da solo farà la rivoluzione (dello spirito, come di qualsiasi altra cosa).
Ciao Renata, ma sai, in parte è proprio questa coincidenza tra reale e virtuale, che cercavo di mostrare. Che non c’è più – eppure io (certo il pezzo l’ho scritto prima della pandemia e si rifà a questioni su cui riflettevo da un po’ di tempo, quindi fuori dal contingente) mi sento stordita da questa mancata distinzione.
Dici rimane da decidere se è realtà residuale, diminuita, narcisistica, tossica, o in qualche modo sostenibile – ma io piuttosto mi chiedo: il residuale non sta rischiando di diventare la realtà che non è, appunto, quella virtuale?
E’ ovviamente una questione che non si può porre in questo preciso oggi in cui siamo tutti stipati in casa. Ma , ad esempio, la faccio molto banale: quanta differenza passa tra una lunga telefonata (quindi comunque fuori dall’esperienza corporea) e tra uno scambio di messaggi – se non dei monologhi vocali? Ecco, io credo passi molto. E credo che, narcisismi a parte, questo ridurci, relazionalmente, troppo spesso, alla comunicazione veloce, stringata, da come stai tutto bene e qualche emoticon, oppure a scrivere rapidamente sui social pezzo dopo pezzo per stare sul pezzo, io trovo sia un modo per non investire davvero né nelle relazioni né nella dimensione lunga del pensiero e della riflessione.
Non so neppure se troppo dipenda da ciascuno, in questo spazio. Certo, si può uscire dalla logica de: il medium è il messaggio – ma non così tanto, non del tutto. Oppure, usciamone. Però: siamo sicuri, Renata, che all’interno di questi meccanismi ci muoviamo tutti liberamente e diversamente, e in modo, appunto indipendente (quindi dipende da noi?). Io non ne sono sicura. A me pare piuttosto che venga naturale piegarsi, in senso di posizionarsi adeguandosi allo spazio disponibile, come se avessimo un letto troppo corto, e per dormire, l’unica posizione è quella fetale, non distesa. Dunque, dipende davvero da ciascuno, questo spazio? O lo spazio detta nel sottofondo regole a cui, si possono certo scartare ma dalle quali, in qualche modo, veniamo orientati?
Però forse sono uscita dal seminato. Perché a me, quello che preoccupa è che, detta in poche parole, mi sembra di aver visto un abbruttimento degli scambi relazionali (e proprio delle relazioni) negli ultimi otto anni, corrispondenti, in fondo, all’epoca dei social, ma più che dell’ingresso dei social, di quello del telefonino, wa e app correlate varie – che, e questo è abbastanza comune, sono strumenti ansiogeni. Un abbruttimento in un senso che si sposta dal qualitativo al quantitativo. Facciamo tutti esperienza del: non ti ho risposto perché ero presissimo da una serie di cose, e poi magari vediamo venti tweet della persona.
Perché? Perché molto banalmente siamo nella logica del tutto subito, del tutto sempre. E quindi quantitativa. A scapito di una selezione che riduca il numero di “contatti” ma aumenti il tempo e il senso che viene loro dedicato.
Ma se prima questo abbruttimento lo vedevo all’interno, solo all’interno dei social, della rete, ora lo vedo anche fuori. In questo senso, dicevo: con la stessa logica e velocità con cui si accoglie una persona con un “accetta amicizia”, si stringe fuori, ma con la stessa logica con cui la si banna, ci si basa su un “fermo immagine” del “fuori”, un’istantanea, per costruirne una narrazione che porta a bannare realmente la persona dalla vita.
Per un’istantanea decontestualizzata.
Sono questioni su cui mi piacerebbe confrontarmi a lungo, ma mi chiedo, se appunto, sia un po’ io fuori dal coro oppure anacronistica. Di certo, trovo interessante (da minisociologa per formazione) che in questo preciso momento, in cui allo schermo ci stiamo tutti, per motivi però ben diversi dallo starci col ditino che scorre in automatico, si stia riprendendo qua e là uno scambio più ampio, anche attraverso questo mezzo. Questo può essere indice di qualcosa: che forse, la rivoluzione non la può fare solo uno, come dici, ma che i margini per rifondare un modo di relazionarci, confrontarci, riaprire un dibattito, un pensare in comune, lo si può fare (rifare?) anche qui.