Marcello Barlocco: come lucciole, bisogna accontentarsi delle stelle

 

 

«Proprio io – ha detto l’uomo sulla cinquantina – Sono il dottor Marcello Barlocco, di Genova e ho letto sui giornali, questa mattina, che mi cercano carabinieri, polizia e agenti americani perché mi credono il corriere dell ’hashish. Non ho mai trafficato in stupefacenti e sono pronto a dimostrarlo. Sono soltanto vittima di un madornale equivoco. Eccomi a vostra disposizione.»

da Il Corriere della Sera, martedì 18 febbraio 1958

 

«Molti animali inferiori, specialmente i vermi, putrefacendosi emettono una piccola luce; gli uomini invece puzzano.»

Marcello Barlocco,  Aforismi inediti

 

Dopo Massimo Ferretti e in completa noncuranza del mercato editorale,  la Giometti e Antonello pubblica in questi giorni un altro libro difficilmente collocabile, che già dalla copertina testimonia il suo essere “sostanza forsennata”:  Un negro voleva Iole di Marcello Barlocco.

Il bizzarro ritaglio di giornale posto qui sopra basterà come introduzione alla biografia di Barlocco (Genova, 1910 – 1972), che non si presta a frettolosi “adattamenti”. Autore “minore”  è colui che continua ad indisporre ogni biografo ben intenzionato, al costo di lasciare come eredità soltanto un disordine equivoco (cioè facilmente strumentalizzabile).

Allo stesso tempo, il vero carattere di Barlocco si misura attraverso una frase che mortifica in un instante qualche decennio di letteratura consolatoria, denunciandone l’insufficienza: «Il fatto d’essere così negro e loro tanto bianchi non gli appariva umiliante, ma si sentiva inferiore per non saper anche lui inventar qualcosa da voler da loro».

Questa frase proviene da un racconto di “amorosa protesta”, Un negro voleva Iole,  che dà il titolo al libro. Ne ho voluto ospitare qui un lungo estratto, introdotto  da una riflessione sul divenire minore che il filoso Gilles Deleuze dedicò al teatro di Carmelo Bene (lo stesso Bene aveva messo in scena alcuni “atti unici” di Barlocco, purtroppo andati perduti).

Barlocco sceglie lo sfregio del nome per mutarlo in orizzonte di fuga.

Ogni destino taciuto fa un processo a tutta l’umanità, e urla la propria rivolta alle stelle. Ma neanche loro -ci rivela il Negro-  bastano ad incorniciare lo scontento del mondo…

 

Divenire minori

«È come se ci fossero due operazioni opposte. Da un lato si eleva a “maggiore”: di un pensiero si fa una dottrina, di un modo di vivere si fa una cultura, di un avvenimento si fa Storia. Si pretende così riconoscere e ammirare, ma, in effetti, si normalizza. […] Allora, operazione per operazione, chirurgia contro chirurgia, si può concepire l’inverso: in che modo “minorare” (termine usato dai matematici), in che modo imporre un trattamento minore o di minorazione, per sprigionare dei divenire contro la Storia, delle vite contro la cultura, dei pensieri contro la dottrina, delle grazie o delle disgrazie contro il dogma.  […] Non ci si salva, non si  diventa minori che attraverso la costituzione di una disgrazia o di una difformità. È l’operazione della grazia stessa. Come nella storiella di Lourdes: fai che la mia mano ridi venti come l’altra… ma Dio sceglie sempre la mano sbagliata.»

(Gilles Deleuze, Un Manifesto di Meno in Sovrapposizioni, Quodlibet)

 

 

UN NEGRO VOLEVA IOLE

 

Tra una foca e l’adolescente negro c’erano parecchi punti di contatto: la rudimentale intelligenza, la testa piccola e sferica e soprattutto un forte odore di pesce marcio. Per questo la ciurma oltre che Negro porcaccione, lo chiamava anche foca. Quando il piroscafo giungeva nelle bollenti acque della Florida, il negro diventava particolarmente utile; gli uomini lo calavano tutto nudo dentro il buio di una tanka e al collo gl’infilavano l’enorme secchio contenente la spugna, ma a volte sentivano diventare immoto dall’altro capo della fune il peso vivo e dimenante di Negro; allora tiravano su in fretta perché era segno che c’era ancora del gas e il negro si stava asfissiando. Lo stendevano, rigido come una trave, sopra la coperta; con violenti getti di acqua accompagnati da qualche colpo nelle caviglie lo facevano rinvenire. Dopo un’ora ritentavano la prova, e il negro per la seconda volta minacciava di asfissiarsi. Allora interveniva il comandante e diceva: «Gas o no, caro il mio negro, ho assoluto bisogno che prima di stasera mi cominci a spugnare queste tanke maledette. Siamo già nella Florida, fra pochi giorni si arriva e con le tanke sporche non ci lasciano entrare in porto. Capito?» Quando il comandante aveva bisogno di qualcosa la sua voce era uno sparo. Negro si riprendeva come per incanto e rispondeva: «Subido gomandante». Sollevava le braccia perché lo legassero alla vita: giù di nuovo, la terza volta con il secchio intorno al collo. Respirava appena per ingurgitare il meno possibile di quel gas micidiale, riusciva a toccare il fondo. Gli uomini sentivano afflosciarsi la fune e capivano ch’era giunto. Allora quasi sicuri che «per quella volta non sarebbe morto tutto di un colpo» si rifugiavano sotto coperta a fumare o masticare salame di tabacco. Il piroscafo deserto come un vascello fantasma tagliava le acque della Florida diretto verso Baton Rouge, in un’ansa del fiume Mississipi. Intorno un’atmosfera opprimente: nei mesi più caldi 40 gradi all’ombra. Da un lato, sulla bassa costa americana, le case di Miami e Key West sotto il riverbero parevano pezzi di alabastro; dall’altro, dentro un cumulo di vapori rosa e arroventati, s’intuiva l’isola di Cuba: giù nel ventre della tanka, Negro, al buio, in ginocchio nella poltiglia di ferro corroso e benzina, la spugnava dentro il secchio. Le macchine non riuscivano ad assorbire sino in fondo ai concavi paglioli, e Negro con quel mezzo rudimentale doveva sostituirle. Poco a poco i suoi polmoni si abituavano al gas. Egli riprendeva una respirazione quasi normale. Respirava aria, gas, incubi, vertigini di tutti i colori, e aveva paura di morire. Ma i negri adolescenti non hanno paura della morte in se stessa. Della morte in se stessa questi ragazzi negri non hanno paura perché i misteri troppo grandi non arrivano a colpirli: essi sono come i grilli che non hanno paura dei grandissimi rumori ma ne hanno molta del fruscio che fa l’erba quando cresce. Negro aveva paura di svenire, di cadere col viso dentro la poltiglia, ed annegarvi, continuarne a bere anche dopo morto, empiendosene il ventre come un otre. Temeva solo questo, non di morire. La paura si trasformava in una crisi di terrore ed egli gridava: «Aiudo, uomini, aiudo». Gli uomini erano lontani a masticare tabacco. Al negro urlante, resi lugubri dalle tenebre e dal rimbombo della tanka, rispondevano i colpi del mare sotto la chiglia. Poi la crisi, raggiunto il massimo, si dissolveva e per reazione Negro entrava in una serie di incubi buoni e patetici al vertice dei quali c’era sempre il palpitare luminoso delle lucciole sugli alberi e le case del suo paese. Vedeva lucciole palpitare intorno a sé con una tale vivezza che talvolta agitava la mano per scacciarle.

Quando gli uomini supponevano che egli avesse finito una tanka tornavano: dopo averlo estratto da quella lo calavano subito in un’altra e fuggivano al fresco. Tre, quattro giorni durava quell’affare, ma Negro non odiava i bianchi uomini: anzi li ammirava per la meravigliosa prerogativa di saper sempre immaginare qualche cosa da volere da lui. Quando volevano qualcosa, le loro voci sparavano in maniera entusiasmante. Le esplosioni più entusiasmanti erano quelle del comandante: erano musica guerriera: eccitanti come una fanfara. Negro non odiava gli uomini bianchi ma l’invidiava un poco per quella loro voce e l’inventiva dei desideri. Il fatto d’essere così negro e loro tanto bianchi non gli appariva umiliante, ma si sentiva inferiore per non saper anche lui inventar qualcosa da voler da loro. Avendolo saputo fare e sparandolo poi con quella voce era certo che lo avrebbero ubbidito. Fra gli altri suoi sogni leggeri come bolle di sapone c’era anche questo: salire un giorno sul ponte col berretto messo alla guappa e di lassù gridare agli uomini una cosa da volere. Pensava che si sarebbero fatti in quattro. Non aveva desideri; cercandone uno la sua piccola testa per la pressione minacciava di esplodere. Solo una sera stando seduto a poppa sopra una bitta con mezza lingua fuori (la lingua fuori, pur non intervenendo direttamente nel meccanismo del pensare, glielo favoriva in modo incredibile) vide una stella e gli parve di desiderare intensamente le lucciole, ma vere, non quelle delle tanke, e fu sul punto di correre in plancia per gridare agli uomini che voleva delle lucciole; ma poi pensandoci bene riuscì a capire che in quella cosa gli uomini non avrebbero potuto ubbidirlo; e come lucciole, sul mare, bisogna accontentarsi delle stelle. Un giorno il comandante trafficando con una lamiera si era quasi segato una vena sul polso. Gli uomini in quella occasione vollero da Negro una cosa molto strana. Estrarre il sangue ad una persona in condizioni normali con tutto il necessario è una cosa delle più facili, ma estrarlo ad un giovane negro, con il piroscafo che rolla e beccheggia come un matto, è un affare complicato.

Presto fiorirono sul pavimento garofani scarlatti, ma il secondo, che dirigeva la cosa movendosi di continuo, poi li fuse in un’unica grande chiazza. Il comandante giaceva sulla branda, bianco in volto, con gli oc chi semichiusi ed ogni tanto emetteva respiri sibilanti. Chissà perché Negro si era orientato nell’ordine di idee che, dopo averglielo cavato, il suo sangue lo avrebbero versato in mare: invece lo introdussero nel corpo del comandante. Quel giorno l’ammirazione di Negro per gli uomini bianchi crebbe a dismisura. Fosse stato lui capace d’inventare cose tanto strane e misteriose sarebbe stato felice. Quando si era rialzato dalla tavola dove lo avevano steso, aveva visto tremare tutto ed era caduto sulle ginocchia. Stranissimo! Ora che il sangue glielo avevano portato via quasi tutto, gli pareva di averne di più, e gli pulsava dentro la testa producendo una nebbia rosa e viola davanti agli occhi. Il secondo allora aveva afferrato Negro per la collottola trascinandolo in cucina davanti alla enorme pancia del cuoco. «Cuoco – aveva detto il secondo – se tu gli somministrassi doppia o tripla razione di fagioli io credo che domani sarebbe più in gamba di prima. Non credi?» «Credo di sì», aveva risposto il cuoco. «Già che ci sei dagliene quattro porzioni». «Agli ordini», aveva risposto il cuoco. Prima di andarsene il secondo aveva detto a Negro: «Nella fretta non abbiamo disinfettato proprio niente: è probabile che ti venga un’infezione, ma io ho tali rimedi che il braccio sono in grado di salvartelo». Il cuoco aveva posto davanti a Negro una montagna di fagioli imponendogli di mangiarli tutti sino all’ultimo. Negro ebbe poi la sensazione di aver dentro la pancia un elefante. Esplosa in seguito l’infezione, proprio quando Negro cominciava a reggersi sulle gambe, il secondo aveva ancora detto: «Per prima cosa incidere, poi applicare rimedi». Il braccio di Negro era iridescente di tutte le gradazioni scure dell’amaranto; solo nel punto dove c’era l’ascesso era decisamente giallo e viola. Il secondo aveva inciso abbondantemente in croce con una lama per barba ordinando poi a Negro che andasse avanti lui perché egli stava sentendosi rivoltare lo stomaco. Con l’altra mano Negro si era spremuto il braccio; e il secondo fischiettava voltato dall’altra parte. In seguito giunse un’alta febbre. La febbre era molto cara a Negro; gli pareva che immergendolo in quel bollore di sangue in cui galleggiavano le ossa tutte peste, gli accendesse nella testa una fiammata di idee. Ma purtroppo erano idee smozzicate, pensieri inconcreti; malgrado la febbre, cose stravaganti da volere dagli altri non riuscì mai ad inventarne. Ci giungeva solo molto vicino; un fenomeno un po’ simile a quello di un nome che a tratti gli venisse sulla punta della lingua e poi tornasse subito indietro. Invece gli uomini durante la sua degenza vollero molte cose: anzitutto portargli mezzi limoni già spremuti, poi innaffiarlo con forti getti d’acqua perché egli aveva sempre caldo; infine vollero che si trasferisse in un altro posto perché minacciava d’attaccare il febbrone a tutti quanti. Il posto era buio, odoroso di legno fradicio, con una sola cuccetta all’altezza dell’oblò. I piroscafi corrono di notte sul mare, con una stella incorniciata negli oblò. Una stella che nasconde forse dietro di sé spaventi eterni eppure brilla calma come la luce di un casolare. Negro fu molto contento che l’avessero sbattuto in quel posto perché di notte poteva vedere la stella senza neppure alzare la testa.

[…]

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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