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La malinconia del meriggio

di Nicola Fanizza

Caterina si recava tutti i giorni a casa di mia madre Teresa. Aveva più di ottant’anni. Era una donna di sostanza: si imponeva per la sua altezza e, insieme, per la sua robustezza. Era rimasta vedova e viveva sola, poiché i suoi tre figli si erano sposati. Benché il marito fosse morto da più di trent’anni, continuava a portare il lutto. Copriva i capelli banchi con un fazzoletto nero, e portava quasi sempre una gonna lunga e un maglione nero fatto a mano.

Era prodiga di consigli nei confronti di mia madre, e l’aiutava quando era intenta a sbucciare le mandorle o a preparare i dolci.

Era davvero una donna di altri tempi. Praticava la medicina tradizionale e per ogni malanno seguiva un rituale diverso. Il rito del «taglio dei vermi» andava in scena in questo modo. Mentre recitava la formula magica: «Vermuzzi e vermicelli / siete piccoli e pizzottelli / senza gambe camminate / senza bocche mozzicate / per la Santa Trinità / andate via di qua», Caterina praticava nel contempo il massaggio della pancia del bambino. Poi, segnava diversi punti del suo corpo col segno della croce e, a seguire, recitava un’«Ave Maria», un «Gloria al Padre», e un «Padre nostro».

Il suo massaggio, che avveniva con la dolcezza di una mano materna, aveva probabilmente una valenza pranoterapeutica: consentiva al bambino di potersi rilassare e nel contempo di liberarlo dall’ansia e dalla nevrosi.

Il rituale, però, poteva anche essere declinato non con le preghiere, bensì con le bestemmie. In tal caso la donna che officiava il rito si trasformava in un’autentica sciamana: si caricava, proprio attraverso le bestemmie, del male di cui era affetto il bambino, ripristinando così lo stato di salute.

Non sempre, però, i suoi rituali magici sortivano i risultati sperati. Ciò accadde in particolare quando mio fratello si procurò una frattura alla mano destra, dando un pugno sull’omero di un suo amico. La mano si era gonfiata e, su sollecitazione di mia madre, si rivolse a Caterina per essere curato. Quella volta il rituale del «massaggio» – con l’aggiunta dell’olio e dell’aglio, seguito dalle opportune preghiere –, non le consentì di ridurre la frattura. Mario per guarire fu costretto a rivolgersi alle cure dei medici dell’ospedale del paese che gli ingessarono la mano.

La mia famiglia si era trasferita da alcuni anni in via Pascasio nella città di Mola. Quella strada era molto importante per mia madre che veniva da Rutigliano, lì si sentiva meno sola, poiché era un luogo di passaggio e, ancor di più, di incontri. Ciò che le aveva consentito di addomesticare la distanza con i vicini era la sua generosità. Durante la guerra, quando i bambini sentivano i morsi della fame, regalava loro i dolci e a volte le mandorle e i fichi che metteva a essiccare sul terrazzo. E quando mio padre si accorgeva che la quantità dei fichi e delle mandorle dispiegate al Sole era diminuita, Teresa incolpava gli uccelli!

I vicini, poco prima del meriggio, mandavano i loro figli ogni giorno a casa sua per chiederle un po’ di prezzemolo, di basilico o di menta che Teresa coltivava sulla sua terrazza. Spesso, gli veniva chiesto anche qualche limone. In tal caso, per prenderli, non era necessario scendere nel giardino, poiché i rami dell’albero arrivavano sulla terrazza. A volte le venivano richieste le foglie di arancio. Servivano per riempire il cuscino dei bambini appena deceduti.

Sempre a proposito del meriggio, Caterina raccontava un episodio che per lei era stato un vero e proprio evento. Quando aveva appena cinque anni, era stata testimone di un omicidio che era avvenuto proprio a mezzogiorno nella casa dei miei genitori, che allora apparteneva a don Cesare Pascasio. Asseriva che quel giorno, disubbidendo a sua madre, era rimasta a giocare in strada con gli altri bambini e fu proprio allora che vide il nipote di don Cesare mentre entrava nella casa di suo zio. Il nipote si era recato in quella casa per ottenere del danaro da sua zia. Ma, a fronte del diniego di quest’ultima, l’aveva uccisa con un coltello da cucina. Caterina aveva sentito le sue grida strazianti e subito dopo aveva visto l’assassino mentre correva velocemente verso «Portecchia» (il porto). Venne poi a sapere che lì era salito su una barca a vela e si era diretto, probabilmente, verso le coste dell’Albania o della Grecia.

Quel fatto di sangue appare come un tipico delitto legato all’atmosfera meridiana. Avvenne proprio a mezzogiorno, l’ora in cui Caterina, insieme a tutti gli altri bambini, doveva essere già a casa.

Quello del meriggio nella civiltà greco-romana era il solo istante senza ombra, era quello il momento in cui prendeva il sopravvento la malinconia: l’oscuro desiderio di tornare all’inorganico (l’impulso di morte)

Le Cicale incantatrici e le Sirene – i Demoni meridiani – esprimevano proprio in quella temperie il loro vampirismo, divorando gli incauti che, oppressi dalla canicola, si rendevano vulnerabili alle loro morbose tentazioni.

Da qui la paura che investiva i marinai che si trovavano in mare aperto o i pastori nelle radure (questi ultimi non potevano sottrarsi ai raggi del Sole!). Non è un caso che ancora oggi in gran parte delle regioni mediterranee sopravviva l’abitudine della siesta e una serie di superstiziose dicerie, motti e narrazioni sull’«ora che pare immota», durante la quale i bambini non devono assolutamente uscire ed è sconsigliabile avventurarsi in giro da soli.

L’aver assistito a quell’evento non ebbe, però, alcuna conseguenza sulla psiche di Caterina, che crebbe in modo sereno, con un temperamento gioioso e solare.

Gli accidenti della sua vita, legati per lo più alla sua attività di sciamana che sperimentava quasi quotidianamente l’altrui sofferenza, le avevano offerto la possibilità di riflettere, dopo aver sperimentato a volte il fallimento delle sue cure, sulla sua impotenza nei confronti di alcune malattie.

Caterina divenne consapevole dei suoi limiti. Da qui la sua devozione nei confronti di San Michele. L’Arcangelo le appariva, infatti, come il Santo che avverte l’obbligo di contrastare gli uomini che si sentono onnipotenti, schierandosi sempre dalla parte dei deboli e dei perseguitati.

Ogni anno, nel mese di maggio, Caterina si recava in pellegrinaggio presso il santuario di Monte Sant’Angelo.

Dopo una settimana, tornava su un carro pieno di pennacchi (ogni devoto dell’Arcangelo era obbligato a portarli con sé in ricordo del suo pellegrinaggio!). Quei pennacchi riempivano i miei occhi con un caleidoscopio di colori e diventavano subito strumento di nuovi giochi.

Caterina era solita donare a mia madre del torrone e dei piccolissimi panini benedetti di Santa Rita. Mentre il torrone veniva consumato in breve tempo, i panini bonsai invece venivano conservati nel comò della stanza da letto dei miei genitori fino al maggio successivo. Senza avere l’idea di commettere alcun delizioso peccato, provavo più volte a mangiarli, ma erano troppo duri per essere manducati!

Caterina era attenta alla vita, era attenta a tutto ciò che si opponeva alla morte, non parlava mai delle gioie passate. Stendeva un velo di silenzio su suo marito, e persino sui suoi figli. La sua attenzione era rivolta soprattutto alla vita dei suoi nipoti e ai loro matrimoni.

Se ne andò in punta di piedi, con la stessa leggerezza con cui saliva le scale!

( l’immagine è La siesta di Augusto Colombo)

 

 

 

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