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Della stessa sostanza del figlio – L’eretico Francesco Pucci nei versi di Bruno di Pietro

di Daniele Ventre

Una dimensione liminare, sulla soglia della morte, connota, nell’opera di Bruno di Pietro la figura di Francesco Pucci, l’eretico fiorentino, non ancora pronto a “vedersi passare”. Fra i nomi simbolo che, per dichiarazione dell’autore stesso, connotano il suo lavoro in versi, il riformatore religioso è la figura estrema per eccellenza: uomo di confine in un’epoca di divisioni sempre più profonde, su tale confine opera, investendo nella speranza di una “republica Catholica” che sia veramente universale, al di là di tutte le “fidanze” particulari.
Nel poemetto, connotato da massima sintesi, il tema della dialettica di confine detona in un dramma interiore, con tutte le sue contraddizioni apparenti e le sue ricomposizioni nascoste. Inoltre, lo statuto di liminarità, che connota il personaggio/maschera/eteronimo, si apre sugli spazi di una dimensione metafisica, teologica, e l’eresia di cui il protagonista è portatore sano, anticorpo civile e intellettuale contro un magistero malato, si fa punto di vista e paradigma interpretativo dell’esistenza, o meglio dell’essere/non essere che è suo margine e condizione.
Nella sua dimensione storica, Pucci è un eretico molto sui generis. Come altre personalità di eretici nello scenario storico fra riforma e controriforma in Italia, la sua figura è connotata da aspetti messianici e profetici, quasi sciamanici. La visione mistica, il presunto contatto diretto con lo Spirito Santo, costituiscono in tale prospettiva un volto quasi arcaico del personaggio Pucci, che certo, scrive in latino ed è sostenitore di una concezione utopistica, ma di fatto sembra assumere i tratti di una rivissuta rivelazione diretta, da roveto ardente, da abbacinamento mistico, fra accecamento e comprensione fra annientamento e salvezza. In tal senso va interpretata la prima stazione della via crucis intellectualis dell’eretico, nella coboletta d’esordio:

Luglio romano
è abbaglio di fontane
fra poche ore
Signore
saprò se sei uno o trino
prima mi toglieranno
l’ingombro del pensiero
e dopo aver detto e disdetto
di una cosa vorrei essere sicuro:
che domani sarò a te vicino
sia tu uno o trino
io Francesco Pucci fiorentino

Si tratta di una poesia in cui una scansione ternaria di periodi ritmici è implicitamente suggerita dallo stacco dei due punti che precede i tre versi in clausula, con la loro rima insistita. L’etnonimo fiorentino evoca peraltro un florentinus natione non moribus di trecentesca memoria, così che sin dall’inizio la raccolta si definisce come una sorta di rossiniana piccola messa solenne, sul piano dell’impostazione timbrica, e di poesis theologica nella maniera breve, dal punto di vista dell’orientazione poetica. La nota di fondo di questa tensione storico-lirica (una contradictio in adiecto deliberata che è nel testo e si impone a chi si pone il compito di interrogarlo) è vibrata fin nel dettaglio; una struttura semiologica ricorrente della forma poetica dell’eteronimo storico allusivo per come Bruno Di Pietro reinventa, è il distico, o al massimo il tristico, in parentesi. In questa formula espressiva, la parentetica in conclusione suggerisce un segreto a voce sommessa, sussurrato nel retroscena, spesso, ma non solo, in tono irridente. In questo caso la parentetica è sostituita dai due punti, unico grafema e graffio interpuntivo nel testo, a marcare un netto stacco esplicativo, a gola spiegata, a scena aperta. Ancora una volta ad attivarsi è sempre la liminarità al margine del silenzio, un silenzio paradossale, perché è quello definitivo del condannato. Nell’exordium dell’eretico si condensano dunque, a più livelli, temi esistenziali, connotati da poeta theologus riferiti a un riformatore messianico-sciamanico (e perciò, della stessa sostanza del Figlio), ed espressioni metapoetiche subliminali. E sin dall’inizio questa poesia come creazione in limine, in una dimensione liminare e limitanea, si definisce come contemplazione fra abbacinamento e buio del limite ultimo, fra abbaglio e barbaglio dell’acqua e troncamento dell’ingombro del pensiero –ovvio riferimento alla concreta fine di Pucci, decapitato e poi arso in morte.
Quanto dantesca e teologica la prima stazione della via crucis pucciana, a questo punto mutata in via lucis, tanto venata di ipogrammi faustiani la seconda tappa del procedere di Pucci verso il silenzio dell’ultimo spazio bianco. L’incipit della seconda micro-lassa di versi è però venato di sottile ironia, con la figura etymologica della radice di mercare: «bruciato in un mercato/io mercante/avessi esercitato mercatura/avrei vita futura/ma ho studiato teologia…». La terna “mercato/mercante/mercatura” definisce tutto il sistema di derivati che da un verbo possa dedursi, dal nomen rei al nomen actionis passando per il nomen agentis, e si dipana da essa un modalismo triplice della sostanza una della merce, che identifica una sorda trinità materiale –in sé anticristica – che a Pucci avrebbe assicurato il perdurare, per lo meno fisico, e che paradossalmente il Pucci stesso nega in vivo, alludendo al suo impegno in materia di teologia condotto con grande e doloroso amore e studio –e la demistificazione storico-materialistica delle questioni teologiche emerge così viva e scottante. Tale sottesa rete di implicazioni e riflessioni a più livelli si traduce nel modo in cui l’ironia del fortunati mercatores oraziano, qui con evidenza orecchiato, viene a contatto contrastivo e stridente con il goethiano Habe nun, ach! Philosophie, Juristerei und Medizin, Und leider auch Theologie Durchaus studiert, mit heißem Bemühn. Da Di Pietro, che per sé si dichiara, in prima persona (sotterraneamente nell’opera ed esplicitamente in praesentia) un ‘credente non credibile’, Pucci viene così tratteggiato, con l’intersezione di due campi semiologici lontanissimi, affiorati da materia semi-conscia, come un anti-Faust con ironia oraziana, che nega la trinità teologica per speculum et enigmate, per irriverenza e dissacrazione, suggerendo un’evidente concomitanza fra l’articolazione dell’economia in terra e l’articolazione delle ipostasi divine in cielo. La trama storica di Francesco Pucci appartiene del resto all’epoca in cui la leggenda di Faust si era stratificata, fra diceria popolare e university wits, al contesto in cui Michele Serveto viene bruciato sul rogo nella Ginevra dominata dalla teologia bancaria e mercantile di Calvino per analoghi dissidi in tema di trinità, al torno di tempo in cui agirono l’ironia di Erasmo, il tentativo di mediazione di Melàntone e l’umanesimo, contro l’estremismo neo-medievale di Lutero e dei suoi seguaci, il dissidio fra servo e libero arbitrio, un tema, quest’ultimo, rispetto a cui l’eresia presunta di Pucci («in che consista/la mia eresia/nessuno sa/nessuno dice») costituisce, paradossalmente, una ipercorrezione filosofica pelagiana, nelle complicate isoglosse teologiche e morali dei tanti dialetti in cui i cristiani hanno declinato nei secoli il loro oscillare fra la predicazione dell’amore universale e la fede feroce dell’intolleranza.
Da queste due stazioni, nette e lente nella riflessione e nella struttura, a esordio della piccola suite teologica del cammino di Pucci/eteronimo, si passa, a partire dal terzo quadro, a un ritmo lirico-narrativo veloce. Questa celerità, in accelerazione progressiva, si articola per due tipologie testuali: una narratio distesa, fatta di lasse più lunghe, ma paratattiche, di episodi che scorrono in sequenza veloce, come di ricordi in fase di pre-morte (III «ho visto massacrare gli ugonotti»; V «quegli occhi che furono feroci»), culminanti nell’immagine della «mosca sul vetro» che «desidera l’aria/come quegli occhi/la cui ultima volta resta/indecisa se chiedere o esser chiesta»; componimenti di maniera ultra-breve, quasi impopolari nella loro stringatezza neo-ungarettiana, come quelli posti a epilogus, di natura scespiriana, anti-amletica («dormire/senza sognare/senza invecchiare/senza morire»).
Si tratta senz’altro di una poesia che, rispetto al contesto attuale, segue una forma e un indirizzo di controtendenza. Peraltro, non mancano sotterranee consonanze con echi che rimontano all’Emilio Villa de Le mura di Tebe e al suo Edipo non-Edipo, che mangia indifferente un gelato mentre i Tebani-itagliani, μεσημβριάζοντες, si dànno ad altrettanto indifferenti e sorde sieste meridiane:

fontane volte al grigio della scala
riflettono cappucci medievali
contrito il corteo sacro
saturnali
celebra in tanto
il borghese romano

(mentre il sole cala)

Questa poesia, tramata di endecasillabi che vengono spezzandosi man mano che il procedere verso il nulla si scandisce al crescendo del silenzio, sembra in maniera semi-conscia replicare al quadro anti-edipico di Villa, in un dialogo improbabile fra forme e formule di poetica inconciliabili eppure compossibili nello stesso spazio letterario, a distanza di poco più di un ventennio (Le mura di Tebe rimontando al 1996 e la prima edizione dell’eretico risalendo al 2008). Il componimento, fra fontane oscurate dai manti neri del confortorio e sole che cala, è l’ideale télos, il compimento circolare della brevissima silloge. L’indifferenza dei saturnali borghesi circonda l’immolazione dell’eretico, un rito di morte che è feroce parodia blasfema dell’immolazione di un re sacro, in una Roma-Italia che è un’anti-Ginevra, tanto quanto Pucci, col suo pelagianesimo, con la sua idea di potere auto-salvifico dell’uomo, è nel contesto dei riformatori religiosi tardo-rinascimentali un anti-Calvino. Per quanto meridiani e indifferenti, nei loro saturnali di mercato, possano essere i borghesi italici, l’assassinio viene comunque perpetrato, in nome di una trinità che è emblema di una ricchezza di modernità mercantilistica a cui l’Italia, da quattro secoli in qua, aspira come a un’ideale trascendente –così che questa poesia, nella sua area marginale e defilata, finisce per consegnare all’anti-Edipo un messaggio esplicito, cioè che la struttura sociale gerarchizzata per i troni e le dominazioni dell’economia sanzionatrice e santificata, finisce per schiacciare lo stesso l’eroe (nel senso antropologico, e greco) di turno, anche se ha rinnegato la sua sostanza di eroe.
Ora, se quest’ultima poesia, la VI, è il télos, quanto viene dopo, per forza di cose in forma ultra-breve, è collocato in una dimensione che non sappiamo più se collocare in vita o in morte dell’eretico Pucci, in un termine di confine fra commendatio mortis e contemplatio sub specie aeternitatis. Sul confine ultimo della serie testuale delle stationes, l’eretico lascia la scena, dopo la breve coboletta scespiriana anti-amletica, con una triplice, trinitaria abiura («Signore non voglio, Signore non voglio, Signore non ti voglio») che richiama implicitamente il contesto biblico del martirio di Pietro («andare dove non vuoi»), ma ancora una volta in nome della negazione dell’ortodossia imperante, materiata di economia e indifferenza. Così si chiude il messaggio, in gran parte inascoltato, dell’eretico fiorentino, questo anti-Amleto tardo-moderno che nella stesso campo di forze livellatrici su cui la frazione anti-edipica della modernità riflette, all’anti-Edipo risponde con una presa di posizione nitida e originale, consegnando all’età contemporanea, alle sue orecchie porose, il proprio duro peso di senso.

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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