cinéDIMANCHE #30 JOSEPH LOSEY Mr Klein [1976]
IL BILICO DELL’IDENTITA’
Divagazioni da “Mr Klein” di Joseph Losey
di ⇨ Anna Tellini
Abbiamo un sacco di debiti nei confronti di Joseph Losey,
che nei dizionari non a caso viene dopo Peter Lorre ma ci
fa più paura, e non lo sappiamo.
M. Porro, Losey oggi
Tuttavia, sarei curioso di sapere… Perchè io… sono così?
I. Gončarov, Oblomov
Ciò che davvero conta in una mappa è proprio ciò che manca.
M. Meschiari, Neogeografia
Nella Parigi occupata dai nazisti, il mercante Robert Klein non disdegna di comprare a poco prezzo opere d’arte dagli ebrei in fuga. Quando un giornale giudaico, recapitato al suo indirizzo, gli rivela l’esistenza di un suo omonimo – un secondo Klein, ebreo e militante della Resistenza, che vive parallelamente a lui -, Klein 1 inizia una ricerca che lo porterà all’autodistruzione, ma forse anche alla scoperta di sé. Un film che si fa mappa, per me, e va a inserirsi in altre trame: una guida per sconfinare. Un film 1 glaciale, tutto giocato intorno a un’idea estrema, deviante, e imperniato sull’assenza di uno sconosciuto che si fa inconoscibile. Klein 1 è fessurato, abitato dal nulla, ma ancora capace di curiosità. Così, anche se “osservandolo con attenzione, si può intuire, dietro l’ironia del suo sguardo, un vago senso di disinteresse, o di noia” 2 , non è inerte, non è passivo, e si pone all’inseguimento di quell’altro sé “per capire se c’è qualcosa in quest’uomo sconosciuto che possa trovare o ritrovare in se stesso, qualcosa che a lui manca” 3, e così facendo irrevocabilmente scivola tra le pieghe dell’altro, mentre l’altro si incista in lui, e sfugge alla presa pur disseminando il campo di segni e di indizi, e corrode schemi e routine, e altera lo spazio e la rete di relazioni interpersonali, toccando la sua stessa identità.
Nell’America malata di maccartismo c’è invece il regista del film, che lascia il suo paese per la Gran Bretagna, e che per poter lavorare assume delle identità fittizie – Andrea Forzano, Victor Hanbury, Joseph Walton -, e solo nel 1956, con “Time without Pity”, potrà di nuovo firmare come Joseph Losey. Nel 1935, durante un viaggio in Russia, egli aveva assistito alle prove di Vsevolod E. Mejerchol’d, che allora preparava La signora delle camelie, e alle repliche del suo “Revisore”, spettacolo monstre del teatro del Novecento; lo stesso Mejerchol’d che molti anni prima, ancora nella Russia zarista, si era giocoforza sdoppiato nelle due figure così divaricate di regista di scene imperiali – brulicanti di splendidi attori di indole ottocentesca e devote al gusto della famiglia reale -, e di ricercatore di nuove esperienze e sperimentazioni con lo pseudonimo hoffmanniano di Dottor Dappertutto 4 in piccoli, e piccolissimi, spazi teatrali…
Dietro le quinte di questo film già di suo (perturbante?) non conciliato, presente però nei titoli di testa come ideatore e direttore dello spettacolo di cabaret – violentemete antisemita – cui assisteranno Robert e Jeanine, la sua donna, c’è poi – e per me ora soprattutto – una presenza riluttante ad ogni messa in forma, nella sua ostinazione a non essere mai del tutto a fuoco neanche nei repertori, clamorosamente manchevoli al riguardo 5, per non dire delle notizie frammentarie e dei richiami spesso azzardosi di cui chi ne cerchi le tracce è costretto a nutrirsi:
le prénom de Schubert, le nom du rival de Mozart, la tête de Hemingway peinte par Michel-Ange pour la couverture de “Time Magazine”: Frantz Salieri (Francis Savel à la ville) incarne à lui tout seul l’ambiguȉté de son royaume 6.
Ed infine c’è un regista, che si chiama Yann Gonzalez 7, cui la Cinemathèque Française dà carta bianca, e che il 16 dicembre 2016 apre il ciclo da lui organizzato (sezione “Cinéma d’avant-garde”) con “Équation à un inconnu” (1979), di cui scrive:
L’acmé du porno mélancolique. Une succession de fantasmes au masculin dont les béautés fracassantes finissent par se dissoudre en abandonnant le rêveur érotomane à sa solitude. Le tout mis en scène avec une grâce absolue par le mystérieux Dietrich de Velsa (alias Francis Savel/Frantz Salieri), peintre puis directeur artistique de la Grande Eugène l’un des premiers cabarets transformistes de Paris), qui réalise ici son unique film et néanmoins chef-d’oeuvre 8.
Come in un gioco di specchi e di rimandi, e in una sontuosa armonia dell’accumulo, in Frantz Salieri – identità nomade ed essere plurimo – tutto pare dunque ruotare attorno al grande tema dell’individuazione…
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Di che ridete? Di voi stessi ridete
N. V. Gogol’, Il Revisore
Dunque: incastonata tra le domande di Robert al padre – “Allora, questi Klein olandesi, tu li conosci?…/ Ne ho sentito parlare…/ E di questo Robert Klein?/ No. Mai” -, e la ricerca insistente – “Signor Klein? Signor Klein…Signor Klein!… Signor Klein…” – di un ragazzino in divisa di tela blu, con il berretto tondo e il sottogola, tra i tavoli del Ristorante la Coupole, la sceneggiatura prevede per Robert e Jeanine un’incursione in un teatro, e sul palco un solo attore, “un clown, truccato con la volgarità fascista dell’epoca”, un “giudeo” 9. Di questo spunto Salieri, chiosatore di genio e maestro di deviazioni, fa una peripezia di choc sui generis, esibendo sconciamente la tanatomorfosi di una società, e scatenando un immaginario opulento ed agguerrito che si nutre innanzitutto dei magnifici commedianti-mimi-danzatori en travesti della “Grande Eugène”, il cabaret intellettuale e felliniano che Salieri aveva inaugurato nel 1970. Il fulcro ora è il primo piano di una vedova, dietro una veletta, ma di fronte a un negozio di alimentari con la sporta vuota, e questa vedova di altezza inusitata canta il primo dei Kindertotenlieder di Mahler, intanto che una “donnaccia” con gesti esagerati ridicolizza il suo dolore, e nel mentre la camera stacca sul pubblico – Mejerchol’d aveva abolito la distanza tra pubblico e scena, un gesto che impressionò molto il giovane Losey -, che ride sgangherato e le cui facce suine gradualmente si fanno più mostruose, tra ufficiali nazisti ricconi calvi col sigaro e matrone pingui e ingioiellate, e da tutto paiono trasparire la lezione e la rabbia inconciliabile di George Grosz e di Otto Dix, e tutto si fa livido mentre questi pilastri della società vengono ridotti a caricatura quanto gli ebrei in scena… sì, perchè nel frattempo è apparso il “giudeo”, e pronuncia le battute che la sceneggiatura prevede, come prevede in chiusura l’irruzione sulla passerella di ballerine che ora, sotto la direzione di Frantz Salieri, sono diventate un corpo di ballo di travestiti che si fanno strada a gambe alte con passi volutamente androgini.
Prima, però, la vedova si è tolta la veletta e l’ebreo la maschera, uscendo così dal ruolo.
Klein no: in un processo di progressiva spoliazione che scopre a poco a poco la ferita e la mette a nudo, mano mano lui ci entra, nel ruolo, artista al pari del Chlestakov mejerchol’diano, che fantasmagoricamente si fa, anzi è un revisore; e infine quello a cui assistiamo è il parto di un Klein altro, e persino più autentico. L’identità dunque è performativa?
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Je voudrais que les comédiens fussent montés sur des patins très hauts, portassent
des masques plus expressifs que le visage humain, et parlassent à travers des porte
voix; enfin que le rôles de femme fussent joués par des hommes
Ch. Baudelaire, Journaux intimes 10
Questo è ciò che Salieri mette in esergo alla “Grande Eugène” numero 2, a sottolinearne le ambizioni culturali e la continuità con chi, come lui, si è detto insoddisfatto del teatro di testo e di parole, ostacoli da cui liberare i commedianti, intravvedendo un teatro di attitudini e di gesti, “un théâtre millénaire, confronté à des images mentales et visuelles, à certains phantasmes de notre temps, et qui exprimerait une forme de sensibilité nouvelle obscurément attendue” 11.
In uno spazio onirico, e ambiguo, e fluttuante, Frantz Salieri manipola, segmenta, ricombina, disordina il quadro ordinario delle cose, forte della sua inassimilabile setta di refrattari – i suoi attori en travesti, metamorfosi viventi, corpi pulsanti capaci di esorbitare: non individualità, ma risultato, agendo il corpo e l’identità come base costitutiva di un inedito assemblaggio. E quel che infine viene mostrato è che il genere “si fa”, nel senso che dipende da una messa in scena che è a un tempo sociale e individuale.
Per me il travestitismo è un atto spettacolare privo di significato sessuale o erotico. Lo uso come Shakespeare usava un diciassettenne per interpretare Giulietta… Trovo che i boys siano gli attori più prodigiosi, e quando interpretano delle donne, qui si dà un doppio fenomeno di distanza tra il personaggio e la sua interpretazione 12
Dunque, se delle donne finte impersonano altre donne si ha una doppia stratificazione, e mentre esibiscono delle donne che non si vergognano di essere dei ragazzi, degli attori che danzano e dei cantanti che sono apertamente muti – “limitandosi” a mimare una musica registrata -, gli spettacoli della “Grande Eugène” sprofondano gli spettatori in un altrove, un mondo di immagini riflesse e di metamorfosi in cui le identità si frantumano. Forse la più sottilmente perversa di tutte – un esercizio in doppio-drag in cui illusione e realtà sono inestricabilmente mescolate – era l’imitazione che Erna von Scratch (al secolo Jean-Claude Dessy-Dreyfus) faceva di Sarah Bernhardt che, vestita da uomo, recita un brano da L’Aiglon di Rostand, con la voce registrata della stessa Erna 13:
Fascination de l’aberrant. Le véritable théâtre de la folie […] les réprésentations d’un monde reconstitué inversent et renversent les critères, les valeurs les plus profondément encrées 14.
E aprono mondi occlusi, intransitabili, in conflitto con il consueto e l’abitudinario, con il conforme. Il corpo dei travestiti, un corpo in movimento e in divenire, con la sua ambivalenza, la sua collocazione ai punti di intersezione, è un corpo che non conclude, ma squarcia, offende, disturba. Vita ridondante, in subbuglio.
Alieni dalla volgarità dei seni finti, maestri nell’uso disciplinato del gesto, come novelli onnagata gli attori della “Grande Eugène” tingono interamente il volto di bianco, quasi carta dipinta in un collage cubista, pagina riverginata sulla quale incidere i nuovi segni di una femminilità quintessenziale passata attraverso il filtro della visione maschile. Salvo poi conservare lo stesso make-up anche nell’interpretazione dei ruoli maschili, portando forse con questo, per dirla con lo stesso Salieri, “il travestimento e il travisamento[…] a una grandezza mitica”. Sicuramente a un che di abrasivo, di sconcertante, sotto una superficie genialmente sofisticata.
In altri anni, e altrove, come un attore di kabuki il Chlestakov del “Revisore” mejerchol’diano aveva graziosamente giocato con il ventaglio di Anna Andreevna, distillando goccia a goccia la fitta trama delle sue fandonie 15 .
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C’era qualcosa che non moriva ancora dentro di me
F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo
Anche quando ero vivo non sapevo mai scegliermi
i posti adatti
Ilja Erenburg, La tempestosa vita di Lazik
Nella Parigi occupata dai nazisti, mano mano che le identità si moltiplicano – Françoise, Cathy, Nathalie, Isabelle i nomi dietro cui si cela la ragazza di Klein 2, mentre Robert de Guigny sarà l’alias con cui Klein 1 tenterà la fuga -, e talvolta si sfaldano, viceversa le cose paiono acquistare una loro qualità numinosa. Oggetti, appartenenti a esistenze, si lasciano cogliere dalla coscienza, smettendo di starsene appiattati, fidando sull’inaspettato di dettagli abbaglianti. Oggetti sfuggenti e talora preziosi, improntati a un décor minuziosamente studiato, d’un tratto aspirano ad un’autonomia scabrosa. Come, ad esempio, gli specchi ma, più in generale, le superfici lucide e riflettenti cui, a differenza dell’hoffmanniano Erasmus Spikher che la propria immagine riflessa l’ha perduta e dunque di essi ha comprensibilmente timore, reiteratamente Klein chiede notizie sulla propria anima, o perlomeno conferme sulla propria esistenza in vita, attendendo di incontrare se stesso. O forse sono gli specchi ad osservarlo, moltiplicando i punti di vista, e con essi l’ambiguo e l’incerto, revocando in dubbio ogni esercizio di stabilità.
E c’è un che di febbrile nella capacità di Klein 1 di farsi lettore, nella casa dell’altro, di tracce depositate sulle cose, di sporgersi verso di esse, e con questo resuscitarle, coglierne la linfa nascosta che le innerva, di dar loro presenza: oggetti defunzionalizzati – uno stivale bianco spaiato, un singolo guanto -, oggetti premonitori – un proiettile, una museruola -, e un libro, di nuovo quel Moby Dick che all’inizio Jeanine aveva svogliatamente sfogliato, e che qui nasconde dei negativi che il Nostro prenderà con sè e tutti si legano agli altri e si caricano di significati, come se oggetti e persone formassero una sorta di unità che si lascia smembrare a fatica….
Nel palcoscenico soffocante e ingombro dell’appartamento di Klein 1, dal lusso sensuale e decadente – quasi il suo io si nasconda negli oggetti, si aggrappi ad essi per non naufragare -, alle spalle di Robert che legge una lettera che non avrebbe dovuto aprire lui, spicca poi un gruppo di studi fisiognomici di Charles Le Brun, virtuale dittatore delle arti sotto il regno di Luigi XIV, autore, sì, di teste umane e teste animali, ma anche, a sottolineare l’imbestiamento del tempo, di visages che colgono la fase intermedia della metamorfosi da essere umano ad animale.
Ma prima ancora, mentre la camera indugiava sulla congestione di oggetti della sua esistenza predatoria, subito dopo che, fuori campo, Robert ne aveva contrattato l’acquisto da un ebreo in fuga – “è una pittura autentica, firmata e datata…figura perfino nell’antologia dei maestri minori olandesi del 17° secolo”; “l’abbiamo sempre avuto in casa… da un paio di secoli…forse da quando mio nonno è venuto dall’Olanda…o forse suo padre” -, si era immediatamente imposto, quasi autonomizzato, il “Ritratto di gentiluomo” dell’olandese Adriaen van Ostade, che mano mano fungerà da interlocutore del protagonista e da suo nume tutelare, fornendogli quindi una desiderabile genealogia vicaria, ed innescando un susseguirsi di rimandi, e facendosi da ultimo unico ancoraggio possibile nella progressiva spoliazione di tutto…
E in un continuo va’ e vieni che scardina l’ordine del discorso le cose brilleranno infine della loro sottrazione, perchè in ultimo, nel treno merci che lo porta in Germania, il ritratto manca ma, alle spalle di Robert, c’è l’ebreo che gliel’aveva venduto.
Una scena muta, la stupefazione negli occhi.
La quête è conclusa. L’identificazione compiuta.
NOTE
- Del 1976, il film fu presentato in concorso al XXIX festival di Cannes, presidente Tennessee Williams, e in giuria Costa Gavras, Mario Vargas Llosa, Charlotte Rampling… La Palma d’oro andò a “Taxi driver”, mentre “Mr Klein” fu completamente ignorato pur potendo contare, oltre che sulla sceneggiatura di Franco Solinas e la regia di Joseph Losey, su un superbo cast di interpreti: Alain Delon (anche coproduttore) nel ruolo del protagonista, Jeanne Moreau, Massimo Girotti, Michel Lonsdale….↩
- Joseph Losey, Franco Solinas, Mr Klein (sceneggiatura), a cura di Anna M. Tatò, con scritti di Alessandro Cappabianca e Alberto Moravia, Torino 1977, p 9.↩
- Philippe Carcassonne, Michel Devillers, intervista a Joseph Losey, “Cinématographe” n° 40, 1978↩
- E’ il personaggio diabolico che ne Le avventure della notte di San Silvestro di E. T. A. Hoffmann si offre di ritrovare, in cambio della vita dei suoi familiari, l’anima perduta da Erasmus Spikher. Nel 1992 Frantz Salieri curerà le scene e i costumi per “Les contes d’Hoffmann” di Jacques Offenbach all’Opéra Bastille, con la regia di Roman Polanski.↩
- La gran parte rimanda solo al “Don Giovanni”. “AlloCiné” arriva a definirlo lapidariamente “scénariste” di nazionalità “indefinita”. Nessuno indica la data di nascita, ovunque manca una sua immagine↩
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il nome di Schubert, il cognome del rivale di Mozart, la testa di Hemingway dipinta da Michelangelo per la copertina del “Time Magazine”: Frantz Salieri (al secolo Francis Savel) incarna già da solo l’ambiguità del suo reame
Maurice Fleuret, Haut les masques, ne “Le nouvel observateur”, 30 dicembre 1972. E’ da qui, e da Frantz Salieri and his midnight monsters, di F, Wyndham, corredato da foto di D. Bailey, in “The sunday times magazine” dell’8 aprile 1973, che riesco a trarre lo scheletro di una biografia. Nato nel 1930, Francis Savel sbarca a Parigi quattordicenne e, pittore e disegnatore, studia l’armonia, la fuga, il contrappunto, e per due anni è organista in Baviera. Ritornato a Parigi frequenta Gide, Max Jacob, e nel 1956 organizza il I Festival di Baalbeck, l’antica Heliopolis, nella valle della Bekaa in Libano, che fu inaugurato da “Machine Infernale” di Jean Cocteau, con Jeanne Moreau nel ruolo della Sfinge. Come pittore organizza la sua prima mostra parigina nel 1960.
Lavora con Roland Petit al Balletto degli Champs-Elysées e con Jean Cocteau ne “La Belle et la bête”, e collabora con, tra gli altri, Jerome Savary, Maurice Béjart, Thomas Bernhard, Georges Prêtre.
Attore ne “Le journal d’un combat” (1964) e in “Au pain coupé” (1968), col nome di Frantz Salieri fonda “La Grande Eugène” che debutta nel 1970, e con la seconda produzione – che si concludeva con una stupefacente crocifissione à la Grünewald, accompagnata dall’”Inno alla gioia” -, nel 1971 raggiunge le 700 rappresentazioni.↩ - La sua “cinescheggia impazzita” Les rencontres d’après minuit – “opera citazionista che si colloca tra Robbe-Grillet e Bunuel” -, proiettata a Cannes nel 2013, nello stesso anno vince come miglior film al Milano Film festival, gratificata dalla giuria con questa motivazione: “Gonzalez fa scelte coraggiose in materia di estetica e dialoghi, è coraggiosa la trama assurda che sviluppa e la visione che ci presenta. Ha una voce molto speciale. E ci fa di nuovo credere nel magico potere del cinema”. Roberto Schinardi, L’orgia creativa di Gonzalez vince il Milano Film Festival, www.gay.it 17 settembre 2013. Tornato a Cannes nel 2018 con “Un couteau dans le coeur”, Gonzalez è stato designato presidente della giuria “All the lovers”, il concorso lungometraggi, del 34° Lovers Festival di Torino, madrina Alba Rohrwacher.↩
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L’acme del porno melancolico. Una successione di fantasmi al maschile le cui bellezze strabilianti finiscono per dissolversi abbandonando il sognatore erotomane alla sua solitudine. Il tutto messo in scena con una grazia assoluta dal misterioso Dietrich de Velsa (alias Francis Savel/Frantz Salieri), pittore poi direttore artistico de La Grande Eugène (uno dei primi cabarets di travestiti di Parigi), che realizza qui il suo unico film, e ciononostante un capolavoro
⇨ www.cinematheque.fr/film/132661.html. E su ⇨ www.fifigrot.com/equation-a-un-inconnu Yann Gonzalez aggiunge: “On pourrait trouver hypocrite de ne retenir d’un porno que sa mélancolie, ses nuits froides, les sentiments tragiques de ses interprètes. Surtout lorsque ces derniers sont beaux comme des demi-dieux. Et pourtant, Equation ce n’est que ça: des sublimes et bandantes choréographies du désir qui finissent par dessiner un territoire déchirant de solitude, de larmes e de manque. […] est le chef -d’oeuvre du porno gay et sans doute l’un des plus beaux films français qui soient, tous genres confondus”.↩
- Joseph Losey, Franco Solinas, Mr Klein, cit., p 73.↩
- Vorrei che i commedianti montassero su delle suole altissime, portassero delle maschere più espressive del volto umano, e parlassero attraverso dei megafoni; infine, che i ruoli femminili fossero recitati da uomini
CH. Baudelaire, Diari intimi↩ - Frantz Salieri, in Maurice Fleuret, citato.↩
- Citato in Laurence Senelick, The changing room: sex, drag and theatre, Londra e New York 2000.↩
- Cfr. Frantz Salieri and his midnight monsters, cit.↩
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Fascinazione dell’aberrante. Il vero teatro della follia […] le rappresentazioni di un mondo ricostruito invertono e ribaltano i criteri, i valori più profondamente ancorati
Le travesti, acteur selon Artaud, “Le Monde”, cit. in Guy Gallice, La Grande Eugène de Frantz Salieri, Paris 1973. Dal canto suo, Losey si era detto “ossessionato all’origine da tutti i tipi di visioni inverse e riflesse, che si tratti dell’occhio, della sessualità, dei personaggi, delle contraddizioni, eccetera”. Michel Ciment, Il libro di Losey. Un dialogo autobiografico, Roma 1983, p 191. Il volume contiene una interessante “filmografia immaginaria” del regista, che al n° 60 prevede “The Watergate Buggers”, progettato con Frantz Salieri, che avrebbe dovuto essere una commedia musicale satirica con una troupe di travestiti de “La grande Eugène”.↩
- Episodio 7, “intorno a una bottiglia di tolstobrjuška”, meglio noto come “scena delle fandonie”, de “Il Revisore” di Gogol’ nella rielaborazione mejerchol’diana. «A differenza della commedia dell’arte sulla quale comincia, nel 1911, alcune ricerche sistematiche, Mejerchol’d tende piuttosto a “impregnarsi” di Oriente, consultando molte opere sul kabuki, sul No, ma anche sulla vita, le tradizioni, le cerimonie, le arti plastiche». B. Picon-Vallin, Mejerchol’d, Perugia 2006, p. 50. Nel rappresentare, nel 1910, il “Don Giovanni” di Molière, Mejerchol’d pensa al teatro classico giapponese esemplando sui kurombo – personaggi ombra del kabuki, avvolti in tuniche nere – i suoi servi di scena, dei “negretti” in livree dai ricami dorati, che “bruciano profumi inebrianti, facendoli gocciolare da un flacone di cristallo su una lastra infuocata, o che guizzano sulla scena raccogliendo da terra il fazzoletto merlettato sfuggito dalle mani di Don Giovanni, porgendo le sedie agli attori stanchi, o fissando i nastri sulle scarpe di Don Giovanni, mentre egli discute con Sganarello, che porgono le lampade agli attori, quando la scena viene immersa nella penombra, o che tolgono dalla scena i mantelli e le spade dopo il combattimento dei briganti con Don Giovanni, che si nascondono sotto il tavolo all’apparire della statua del commendatore, o che richiamano il pubblico al suono di un campanello d’argento e, in mancanza del sipario, annunciano l’intervallo”. V. E. Meyerhold, La rivoluzione teatrale, Roma 1962, pp 88-89. Difficile non pensare alla figura inquietante, impassibile, quasi onnipresente del valletto nero che Frantz Salieri, cosceneggiatore, consulente musicale e costumista (in quest’ultima veste fu candidato al premio BAFTA) introdusse nel “Don Giovanni” di Mozart, film-opera del 1979 diretto da Joseph Losey. Il valletto nero, che ha suscitato nella critica interpretazioni molteplici – coscienza di Don Giovanni, rappresentazione del fato, “doppio” di Don Giovanni, sintesi tra Don Giovanni e Leporello… -, nelle intenzioni del regista era “essenzialmente uno strumento stilistico e teatrale [..] terrificante, amaro, freddo, gravido di sessualità”. Notes sur le film Don Giovanni, in “Positif” n 223, ottobre 1979.↩