Pantarèi, l’anello mancante

di Romano A. Fiocchi

Ezio Sinigaglia, Il pantarèi, TerraRossa Edizioni, 2019.

Potrebbe essere la solita storia: decine e decine di rifiuti, l’uscita nel 1985 con una casa editrice semisconosciuta di Milano, SPS, poi Sapiens, visibilità pressoché nulla, infine la scomparsa, inghiottito nel mälström dei libri dimenticati del XX secolo. Invece no. Lo legge Giuseppe Girimonti Greco, lo legge Giovanni Turi, e tutto scorre… indietro, Il Pantarèi torna sugli scaffali, ora, trentaquattro anni dopo. È un sopravvissuto, come dire: l’ultimo dei mohicani. Ha attraversato più di un quarto di secolo trasportando nel tempo le sue idee e le sue storie proprio perché è un libro speciale. Un compendio teorico e pratico di letteratura del Novecento che il lettore amante dei classici contemporanei non può non leggere. Un metaromanzo sulla crisi-non-crisi del romanzo che esplose allora, negli ultimi decenni del secolo, e che continua ancora oggi nutrendosi di se stessa. Il romanzo è morto, viva il romanzo. Dirò di più: le due pubblicazioni – del 1985 e del 2019 – ne fanno un libro di sutura tra i due secoli, l’anello mancante tra il romanzo del Novecento e il romanzo del nuovo millennio.

Dopo l’attenta lettura di Eclissi (Nutrimenti, 2016), lo attendevo con curiosità, questo libro di Sinigaglia, perché sentivo che sarebbe stato un romanzo non solo da leggere ma da rileggere, da smontare e rimontare, da sviscerarne evocazioni e allusioni, citazioni e sedimentazioni letterarie. Ma soprattutto un libro nato dalla passione per quegli stessi autori che anch’io, in quegli anni, ho letto e amato.

Nel Pantarèi si parla, in ordine di apparizione, di Proust, Joyce, Musil, Svevo, Kafka. Cinque pilastri della letteratura, essenziali per comprendere il Novecento come le cinque dita di una mano per afferrare le cose. Nel raggiungere questa sintesi estrema il protagonista, Daniele Stern, opera una selezione drastica. Ma poi non può fare a meno di considerare altri tre giganti: Céline, Faulker, Robbe-Grillet. Quindi cita Gertrude Stein, Virginia Woolf, Hermann Broch, Robert Walser, il “conservatorismo letterario” di Thomas Mann, Balzac, Malraux, Hemingway. E i sudamericani? Stern non ama i sudamericani: “Ma caro Stern! – gli dice la redattrice Ghiotti – I sudamericani non me li doveva togliere! Le dirò: non servivano. Ma caro Stern! In base a cosa? Dottoressa mi creda: meglio non sbilanciarsi. Ma in base a cosa caro Stern? In base a me. Se permette”.

Stern, in fatto di letteratura, ha insomma le idee chiare. Ma nonostante il romanzo dedichi a Proust ben due capitoli, con il plauso del folto numero di proustiani presenti tra i lettori italiani, non ultimo lo stesso Giuseppe Girimonti Greco, il suo nume tutelare è James Joyce. In particolare l’Ulisse. Basti già confrontare l’incipit dei due romanzi: “Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio (…) Maestosamente avanzò e ascese la rotonda piazzuola di tiro”, così l’Ulisse nella storica traduzione di Giulio de Angelis, l’unica in circolazione all’epoca della stesura del Pantarèi. Questo invece Il pantarèi: “Dignitoso e raccolto, degnamente, Daniele Stern, poligrafo senza occupazione, sospinse la vetro porta e fu ammesso”. Ma saltano all’occhio anche le affinità tra i due protagonisti: Leopold Bloom, ebreo irlandese che vive occupandosi di inserzioni pubblicitarie sui giornali, Daniele Stern, ebreo italiano che vive di collaborazioni editoriali. Bloom, che in inglese è sinonimo di fiore, e Stern, che in tedesco significa stella. Bloom, consapevole del tradimento della moglie Molly e spinto a cercare altri affetti in un’amante epistolare (Martha) o in amori occasionali (la giovane e zoppicante Gerty Mc Dowell, le ragazze del bordello di Bella Cohen), e Stern, abbandonato e tradito dalla moglie Anna e spinto a cercare anche lui altri amori, da Carmen ai ragazzi di strada, in una vocazione bisessuale che fa di Stern un personaggio a tutto tondo anche nei sentimenti. E poi il vagabondaggio ondivago di entrambi, quello di Bloom per la vecchia Dublino, quello di Stern per una città innominata (o anonima?) che è la Milano di oggi.

Dal punto di vista della tecnica narrativa, c’è poi l’alternarsi continuo dei registri linguistici che mutano di capitolo in capitolo in entrambi i romanzi e, paradossalmente, conferiscono un’unità stilistica dalla compattezza simile a un mosaico. Nell’Ulisse, variando dallo stile giornalistico completo di titoli, a quello aulico dell’inglese medievale, alla forma gergale, alla disquisizione accademica, al testo teatrale, sino al “flusso di coscienza” del celebre monologo finale di Molly. Nel Pantarèi, variando dallo stile enciclopedico delle parti saggistiche, ai registri narrativi degli scrittori che Stern di volta in volta prende ad analizzare. Stern ci parlerà così adottando ora la prosa minuziosa di Proust, ora la precisione asettica e scientifica di Musil, ora l’escavazione psicanalitica di Svevo, ora il realismo magico e grottesco di Kafka, ora, ovviamente, il “flusso di coscienza” di Joyce. Ma non si tratta di un virtuosismo imitativo, sono le anime versatili e sperimentali del XX secolo che emergono, è l’amore incondizionato di Sinigaglia – scrittore figlio del Novecento – per i grandi del secolo che l’hanno preceduto, è l’ambizione di poter penetrare il loro linguaggio e il loro mondo.

Tutto questo è permesso dall’architettura stessa del libro. Ce lo spiega bene Sinigaglia nella prefazione, che è poi una postfazione scritta trentatré anni dopo, paragonando il meccanismo del Pantarèi a due ascensori affiancati: “Ciascuna delle due gabbie illuminate degli ascensori rischiarava via via il finestrone di vetro smerigliato di un pianerottolo e, mentre a sinistra si accendeva per esempio quello del quarto, del quinto, del sesto piano, a destra splendeva quello del terzo, del quarto, del quinto, in una sequenza ordinata della quale nessuno oltre a me poteva avere coscienza”. Di qui la struttura binaria del Pantarèi. Da un lato i romanzi, l’elemento saggistico, il testo divulgativo che Stern sta scrivendo su commissione, il montaggio e rimontaggio dei libri fondamentali del Novecento. Dall’altra i giorni, ossia l’elemento narrativo, non per nulla il titolo originale fu proprio quello, I romanzi e i giorni, poi confluito in un’unica espressione: tutto scorre, Il panterèi.

Mi sono allora messo nei panni di Stern e ho provato a smontare l’intero congegno. Il romanzo è diviso in nove capitoli più un prologo e un epilogo. Il capitolo nove contiene un romanzo nel romanzo scritto dallo stesso Stern, intitolato L’altro Sax, a sua volta suddiviso in due capitoletti e nove sottocapitoletti. Ciascuno dei nove capitoli ha dunque uno scrittore di riferimento, e in ciascun capitolo si muove uno Stern diverso: lo Stern innamorato di Anna, lo Stern innamorato di Fabio, lo Stern sarcastico e geniale, quello che si inventa il presidente delle Nuove Industrie E Nuove Tecniche Elementari, ossia di N.I.E.N.T.E., lo Stern ubriaco, quello visionario, quello che abbozza la storia surreale del ragionier Sperindio (che si sdoppia non nella personalità ma nella persona, due Sperindio al posto di uno). E poi lo Stern ludico, quello dei rebus, degli indovinelli, dei cambi di iniziale, degli anagrammi, degli spostamenti di accento, quello che indirizza ad Anna lettere orali, quello che vaga per la città e finisce al Balbec, “antro nerastro e lampeggiante percosso dalla musica come da uno squassante uragano e abitato da un folla di spiriti inquieti agitantisi come lingue di fiamma in un vapore denso”.

Solo alla fine ci si rende conto di quanto l’andamento del Pantarèi sia circolare: nel prologo Stern sta per entrare nel palazzo dove ha sede la casa editrice e dice: “Eccoci. Tempio della Sapienza. Fabbrica instancabile della Cultura”. Nell’ultima pagina appoggia la mano destra sul pomo d’ottone della stessa porta e pensa: “Ecco, ci siamo”. Tutto scorre, tutto torna allo stesso punto. Ma scorrendo e riscorrendo si ha l’impressione di una scrittura stratificata, densa e al tempo stesso dinamica, che semina qua e là più chiavi di lettura. Tra queste ce n’è una materiale e ingombrante: è una macchina per scrivere, emblema di tutta la storia, con il suo ticchettio musicale e il suo nastro di tessuto inchiostrato che scorre – ancora una volta – senza soluzione di continuità.

Un paragone da lettore sincero di Sinigaglia: se Eclissi è un piccolo gioiello formalmente compiuto, Il pantarèi è una macchina letteraria che ha nella complessità la sua bellezza.

Concludo con una nota sull’editore, pressoché sconosciuto perché attivo solo dal 2017. TerraRossa non è solo piccolo un editore coraggioso nella scelta delle sue collane, ma un editore dal gusto impeccabile nella grafica della copertina, nell’eleganza dell’impaginazione, nella scelta e godibilità di lettura del carattere tipografico. Segno che in Italia, nonostante le contaminazioni e le esigenze commerciali, non si è ancora dimenticata la lezione della nostra grande tradizione editoriale.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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