Il bambino sulla spiaggia
di Antonio Sparzani
È il titolo del libro scritto da Fatima (abbreviato in Tima) Kurdi, con il contributo di suo fratello Abdullah, edito da Piemme Voci (gennaio 2019, € 18,50), tradotto dall’originale inglese The Boy on the Beach da Annalisa Carena; originalmente pubblicato in Canada da Simon & Schuster. L’ho letto in questi giorni d’un fiato perché ne ho sentito parlare a radio3 in maniera assai attraente.
Io non son bravo a fare recensioni, perché mi verrebbe da dire “correte in libreria, compratelo e leggetelo”, almeno se vi interessano i problemi di quelle innumerevoli persone che oggi vanno sotto il nome di rifugiati, o profughi o molti altri termini più o meno sinonimi. La verità è che, malgrado tutte le notizie ascoltate alla radio o alla televisione, o lette in rete dai vari giornali, non mi ero mai abbastanza informato sulla drammatica situazione dei profughi siriani. E del resto oggi di drammatiche situazioni non c’è che l’imbarazzo della scelta, purtroppo; però, dato che mi è capitato di sentire quella trasmissione radio, mi sono concentrato su quella, e ho scoperto un mondo che sostanzialmente ignoravo.
Il libro (di quello voglio parlare e non delle variopinte polemiche che sono sorte a proposito di un caso così enfatizzato) è principalmente la storia di una famiglia, raccontata in prima persona da una donna, Fatima Kurdi, secondogenita dei figli (quattro femmine e due maschi) di Ghalib e Radiya Kurdi; ognuno di questi figli si è sposato e ha avuto a sua volta dei figli, maschi e femmine, per un totale di 24 nipoti di Ghalib e Radiya.
L’occasione del racconto è quella vicenda che un paio d’anni fa ha commosso tutto il mondo: la foto, che vedete qui all’inizio, di un ragazzino morto sulla spiaggia turca vicino a Bodrum, di fronte all’isola greca di Kos, distante “appena” 4 chilometri dalla costa. Le virgolette su appena derivano dal fatto che gli scafisti, nel libro chiamati trafficanti, usano, anche lì, come ben sappiamo da quel che avviene sulla rotta Libia Italia, gommoni poco affidabili e poco adatti a tenere il mare. Va aggiunto che usano questi gommoni se uno non può pagare grosse cifre: una famiglia di due genitori e due figli piccoli deve prendere il gommone, insieme con altre, sempre troppe, persone, se può pagare “solo” 4000 dollari. Avendo ancora più soldi si può venire imbarcati (sempre comunque stivati) su pescherecci o battelli più affidabili.
L’occasione del libro è quel bambino sulla spiaggia, figlio di uno dei due fratelli maschi di Fatima, Abdullah, che in verità perde nel naufragio del gommone, dovuto all’ingrossarsi del mare, frequente in quella zona, non solo il piccolo Alan, quello della fotografia, ma anche l’altro figlio Ghalib e la moglie Rehanna, rimanendo così privato di una famiglia amatissima. Il dolore di Abdullah è indicibile. Nel libro si narra tra l’altro dei molti sforzi fatti dalla sorella Fatima, che vive, perché emigrata prima dei fatti che cominciarono a sconvolgere la Siria nel 2011, a Vancouver, British Columbia, Canada, sforzi finanziari e di relazioni con politici locali e non, per riuscire a far emigrare anche Abdullah, oltre al fratello maggiore Mohammad che già era riuscito fortunosamente a raggiungere la Germania.
Nel libro – circa 270 pagine – si narra con grande dettaglio l’intricata storia di tutti i disperati tentativi di fuggire dalla violenza della guerra civile (se così si può, un po’ ossimoricamente, chiamare) di tutti i membri della famiglia; famiglia che inizialmente viveva unita e felice a Damasco (la “città dei gelsomini”, capitale della Siria) e che poi un po’ alla volta è costretta a disperdersi, dapprima in Siria (per esempio a Kobane, città assai vicina al confine turco, dove l’orrore dell’ISIS arriva più tardi) e poi in Turchia e, dopo infinite vicissitudini, burocratiche e non, in vari paesi europei, soprattutto Germania.
Ma quello che mi ha colpito del libro, scritto – lo si sente in ogni pagina – con una partecipazione così accorata, dolorosa e straziante da strappare davvero il cuore, è il quadro d’insieme di tutta la faccenda. All’interno di un paese con milioni di abitanti scoppia a un certo punto (2011) una protesta contro il regime certamente assai illiberale di Baššār Ḥāfiẓ al-Asad, detto da noi comunemente Assad, e in questa protesta, duramente repressa dalle forze governative, intervengono un po’ alla volta molti altri fattori, nazionali e internazionali, che mi guardo bene dall’analizzare qui, che non ne sarei certo capace, ma che fanno della Siria, negli anni successivi al 2011, un posto pericoloso per chiunque e mediamente invivibile.
I rifugiati sono ormai milioni.
E qui, dalla mia privilegiata posizione di cittadino di una nazione che, per quanto afflitta da molti mali, consente ancora una vita più che dignitosa, mi chiedo come sia possibile arrivare agli atti di terribile barbarie (di cui vi risparmio qui la descrizione, che anche nel libro è presente solo in alcuni punti, ma questi bastano, ve lo garantisco) perpetrati da homo sapiens su homo sapiens; ma di quale sapiens parliamo? Di quale? Queste persone che nella loro follia decapitano e torturano a sangue freddo e sistematicamente uomini, donne e bambini, cos’hanno imparato da piccoli, cosa è stato loro ficcato nella testa, che ricompensa è stata loro promessa?
Il libro si chiude con l’indicazione di una Kurdi Foundation, nella quale lavorano tra gli altri Tima e Abdullah, il cui fine è quello di aiutare i bambini rifugiati dovunque e comunque. Per concludere eccovi un estratto dalla parte finale del libro:
La scrittura di questo libro è stata una gigantesca sfida per Abdullah. Nell’ultimo anno l’ho tormentato ogni settimana e a volte ogni giorno chiedendogli dei particolari della sua vita prima della tragedia.
“Sei stato tu a piantare il seme – gli ho ricordato – hai detto che dovevamo scrivere questo libro”
“La mia storia non è più importante di quella di chiunque altro”
“Ma la gente vuole conoscere la storia della nostra famiglia. Vogliono sapere di Rehanna, di Ghalib, di Alan. E noi vogliamo tenere vive le loro voci. Vogliamo riempire il silenzio lasciato da troppe morti assurde. Vogliamo fare il possibile per fermare la guerra”
“Ma Fatima, noi eravamo come milioni di altri profughi”
“Sì, lo eravate. Lo sei. Ma se parli della tragedia che ti è capitata, questo potrebbe impedire che altra gente anneghi in quel mare”
“Okay, sorella. Quel che ho imparato è che non importa se sei senza soldi e se vivi in un tugurio mangiando lenticchie. L’unica cosa che conta è che tu abbia la tua famiglia con te, che tu abbia l’amore. L’amore ci dà la forza e il potere di dimenticare il dolore e la sofferenza, Dillo alla gente. Dì loro che non c’è nient’altro che conti”.
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Libro bellissimo, dovrebbero leggerlo tutti per capire quello che sta succedendo e perché la gente scappa e sale sulle navi, e perché li dobbiamo accogliere e aiutare.