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NApolinaire Sud n°18- Editoriale + Pasquale Panella

Editoriale effeffe

 

Diciotto

 

18 Novembre. Una data importante per noi ex allievi della Nunziatella. Anniversario della nascita del Real Collegio, anno 1787, che anno dopo anno vede nel cuore della città di Napoli, in questo giorno, schiere di ex-allievi, famiglie, cittadini che hanno a cuore quella che è insieme una istituzione e un vanto di un tempo oltre il tempo e di uno spazio che corre ben oltre le mura del Rosso Maniero che domina da Montedidio la città. Novembre è un mese importante per noi di Sud. La data di nascita del primo numero della rivista diretta da Pasquale Prunas, è il 15 novembre 1945 con il sottotitolo di “Quindicinale di letteratura ed arte”, lo stesso che abbiamo conservato insieme al logo disegnato dal suo direttore che nel suo editoriale avverte che la rivista sarà “contro ogni classificazione, numerazione, sezionamento, contro ogni politica suddivisione del sentimento, contro ogni barriera doganale”. Contro, è la parola che ripete Pasquale Prunas per ben tre volte, con una foga che quasi ci pare di sentirglielo dire. Contro vuol dire schierarsi, prendere posizione e difenderla, anche a costo della propria vita, anche pagando il prezzo di una sconfitta per quanto inevitabile, nonostante ogni ragionevole dubbio di riuscire nell’impresa. Novembre è un mese importante per l’arte intesa come avanguardia. Il 9 novembre 1918 Guillaume Apollinaire moriva stroncato dalla febbre spagnola pochi anni dopo essere stato ferito gravemente sul fronte il 17 marzo del 1916. Come viene magnificamente ricordato nel testo scritto da Laurence Campa, curatrice presso Gallimard dell’opera del poeta e autrice di quella che viene considerata come la migliore biografia di Apollinaire in circolazione, “Guardare il mondo con gli occhi di Apollinaire, vuol dire tenere d’occhio “le belle cose nuove” e accoglierne la loro epifania. Vuol dire cercare delle meraviglie.” Ci sono tempi in cui indugiare su di esse, farsene allo stesso tempo testimoni e beneficiari, conservatori e custodi, non potrà che significare essere inevitabilmente contro . Contro parole d’ordine urlate in ogni angolo d’Europa e che intimano, invece, separazione, barriere, classificazioni. Il valore dell’amicizia è fondamentale nella grande avventura delle avanguardie, avventura che vale la pena ricordarlo si è sempre fondata sulla vita delle riviste, sulle vite di chi ha sempre creduto all’arte e alla letteratura come a una missione oltre ogni ragionevole calcolo, al di là di tutte le ambizioni personali. Come ai tantissimi e spesso rimasti ignoti poeti caduti sul fronte di quella terribile guerra. E abbiamo voluto rendere omaggio anche ai nostri brothers in arms d’oltralpe, a Lakis Proguidis direttore dell’Atelier du Roman, rivista internazionale e al nostro fianco sin dal numero zero della nuova serie di Sud e che festeggia i suoi venticinque anni di vita in questi nostri stessi giorni. Allo stesso modo va letta la pagina che vede celebrato l’amore di due nostre storiche firme, l’americano Roger Salloch e Yvonne Baby, immortalati da Henri Cartier-Bresson perché significa per noi soffermarci sul meraviglioso. Ma qual è il misterioso legame che unisce il grande poeta francese al Rosso Maniero? Alla nostra città dell’origine? Da qualche anno con il presidente Giuseppe Catenacci, ci confrontavamo su fonti probabili d’appartenenza del padre del poeta alla nostra valorosa per quanto irregolare schiera degli ex allievi. Il punto di partenza era stato una bellissima mostra allestita al Musée de l’Orangerie: Apollinaire : lo sguardo del poeta. Tra le varie opere e fotografie presenti a quella magnifica mostra, una aveva catturato la mia attenzione, quella in cui si fa riferimento al pére militaire napolitain inconnu. Conoscendo la sensibilità degli ex allievi alle belle donne una campanella d’allarme è risuonata in me e così immediatamente con Il Presidente Catenacci ci siamo messi alla ricerca del nostro piccolo tesoro storiografico. Tra l’altro l’ex allievo Renato Benintendi, pubblicava su Loro di Napoli sempre nello stesso periodo una nota stringata ma estremamente precisa.

Così è nato il titolo Napolinaire (in origine con due elle ma poi come suggerito da Jean- Charles Vegliante corretto nella versione attuale) un mot valise che ci rendeva possibile il viaggio che pagina dopo pagina i nostri lettori faranno. Per la prima volta alcuni testi saranno leggibili nella lingua originale perché volevamo rendere visibile la dimensione internazionale del nostro progetto oltre che dei nostri lettori. Ultima annotazione. Al principio della nostra corrispondenza Lawrence Campa, da vera studiosa ci suggeriva di indicare al lettore che l’identità del padre del poeta rimaneva a tutt’oggi non provata e che la pista da noi battuta sembrava appartenere più alla leggenda che alla realtà storica. Ecco perché lasceremo ai nostri lettori la possibilità di scegliere, tra la realtà e l’immaginazione, sapendo pur tuttavia come quest’ultima possa in maniera quasi involontaria produrre delle vere e proprie meraviglie, speriamo, come questo numero diciotto che graficamente porta la stessa firma, quella di Marco De Luca e il gesto generoso della sezione estera degli ex allievi. Buona lettura. Segue il magnifico testo di Pasquale Panella scritto per noi.

 

Pasquale Panella
QUESTA POESIA NON È

Questa poesia è un calligramma ossia
una poesia in forma di poesia
È il gatto Jago, è la cana Musa,
così ritratti a mente con le lettere
Si vede che hanno i baffi? Sì, si vede

Sono i suoi capelli, le parole,
le frasi che le scendono sul collo,
le ciocche e i riccioli delle cì, delle esse,
anche le doppie punte delle doppie lettere
Di chi? Si vede: i suoi di Lei
(diciamo Lou)
E le sue labbra, tutte
È il sole della O in corpo
grande grande, coi raggi delle frasi
tutt’intorno, che non significano niente
finalmente, o cose terra terra, dal sole
sopra questa terra, cose come:
io sono la frase luminosa, io sono
la frase accecante, io sono la frase
calda calda, io sono la frase della foto
sintesi clorofilliana (e questa raggiunge
le frasi a forma di foglia a pagina aperta,
perché si chiama pagina la faccia della foglia)

Immagine di copertina e per editoriale di Andrea Pedrazzini

Perché, l’ho sempre detto, non vorrei essere
letto ma guardato, visto,
non io in persona ma io pagina, io scritto,
oppure anch’io, però che faccio un fischio,
che m’esce pieno d’effe e i e u dalla bocca
(le congiunzioni stanno dentro il fischio),
e per gambe ho due frasi articolate,
e per piede ho un piede classico,
tarso, metatarso, arsi, tesi,
manciate di sillabe ossee
lanciate come dadi
Ci si diverte, sì, ci
si diverte a far
passi poetici
Ma sì, queste parole se ne vanno
(ma sì che si può dire, sì, dillo:)
come le rondinelle in volo
vanno, e il filo della frase
oscilla abbandonato
come un tratto di
frazione, ottima
in aritmetica
se poi vuoi
fare due
conti

Questa poesia è un calligramma ossia
una poesia in forma di poesia
così ti rendi conto che la parola non è
che scritta (la parola scritta)
Ti sei mai reso conto, tu, di questo:
che la parola è scritta?
E questo basta perché la carta canti?

Ora, Guglie’, tu dici: i calligrammi
per convincere l’occhio a accettare
una visione totale della parola scritta
(ossia ch’essa non sia soltanto scritta)
Ma questo da che ti viene? Dillo
Dall’insopportazione di accettare
che la parola porti in carico tutt’altro:
pesi parziali, però pesanti più della visione
totale che, in quanto tale, è appunto
apparizione leggerissima di cose
come in sogno, soprannaturali,
sopra per leggerezza, ecco perché sopra
Ti viene dalla sofferenza, questa:
che la parola, carico e carretta in un tutt’uno,
porti al mercato il suo significato
e addirittura l’interpretazione
costringendo l’utente a un lavorìo
da scaricatore, sottopagato, anzi pagato
niente, con dissennato sciupio
di forza lavoro in pluslavorìo
e con esiti, tra l’altro, assai fallati
a danno e scapito e ammaccature
dei pezzi della macchina poetica

Allora è giusto fare i fiorellini,
le rondini, il gatto coi baffetti,
il cavallino, un ritratto
con le guance bianche,
un liofante, una cravatta
sul petto della pagina,
la pioggia e l’orologio,
il mandolino, il garofano e il bambù,
e il cuore trafitto dalla freccia, sì,
sulla corteccia dell’albero a parole,
che sono tutte rondini, poi, quelle parole,
storni, tordi, mosche, moschini,
corvi, cornacchie, passeri, colombi,
api melense, le pungenti vespe
E allora se ne volino
se tu batti le mani alla poesia
Ma sì, se ne voli la parola scritta
poi che è stata messa in riga,
forzata a lavorare sul binario
unico del rigo, ma sì, evada,
se ne vada in evasione


E se ne voli
per un battito di ciglia pure il mare
(o in un altro battito
tenendo gli occhi chiusi, ti ritorni)

Infatti me ne sto
(stavo ma me ne sto)
sullo scoglio a Sorrento
nemmeno diciottenne, me ne sto
tra noi fiocinatori in costume storico
ossia lo slip del mare punto e basta,
col sole che è pungente sugli arpioni
In queste condizioni parlare di poesia,
che cosa molle sarebbe, nemmeno la medusa
morta a riva. I versi? Ma che versi?
La murena a bocca aperta, quella sì.
I tentacoli del polpo, altro che versi,
la spigola invincibile, la seppia
che di notte è luminosa
e ’a fess’ ’e sòrete

O scorrettezza, sta’ accorta
a non correggerti col tempo

Ma che bellezza, quando scrivere
era solo immaginario, quando
undicimila tonni vergavano il mare
come versi, crescendo a nuoto,
sodi, penetranti dentro il Golfo

Poi si diventa fessi appresso ai versi
sulla carta: le parole scritte dai terrestri
(ma i tonni hanno più corpo e pinne
e guizzo e una tremante morte)
Perché dico questo? Perché ho in mente
i poeti corretti, i poeti correnti, i poeti
serali a passeggio in Corso d’Opera,
insomma, i poeti che, m’è parso di capire,
colano sulla pagina, sì, essi colano
E poi non so chi siano, ma chi sono?
Poeta è chi ti dà del poeta, perché non sa
chi sei, se lo sapesse non s’azzarderebbe

Iscritta nel Vesuvio, ho visto da Sorrento
la tua testa a pera, o Apollinapoli, come
nello specchio dei tuoi versi estroversi,
usciti fuor di segno (socievoli, espansivi,
tonni, forse?, e le forme poetiche, forse,
sono formazioni migratorie?, dirette
alla tonnara sanguinaria di chi legge?)
e la fiamma rovesciata del tuo cuore
e i re che muoiono sulla corona scritta
e, gira gira, rinascono nel cuore dei poeti
E che vuol dire? Questo: che i re rinascono
nel cuore dei poeti, più chiaro di così
si muore anche da re, fiocinando
in un tutt’uno un re, un poeta e un cuore,
bel colpo, bella mossa, e nello specchio
tu sei chiuso vivo e vero come gli angeli
immaginati e non come riflesso umano
Anche questo vuol dire esattamente
quel che è detto, come è vero
che con ‘surrealista’ tu intendevi
‘sopra detta’ l’opera, tu la volevi
surrealizzare ovvero ‘sopra-dire’,
sovrapponendo alla parola scritta
un tuo disegno, inteso anche come
macchinazione, un macchinario scenico
a parole, perché scrivere (e figuriamoci
scrivere da poeta) è cosa fantasiosa, sì,
ma la parola scritta è un limite reale,
così tu illimitasti la parola in vignetta
ingenua, in costellazione di lettere
nel profondo spazio bianco della pagina
(non sopra e basta ma nella pagina
ossia in un sopra-ovunque come se essa
non fosse più piattamente piana),
in un disegno (che come quello
composto dalle stelle è un’illusione umana)
fatto di parole e sfatto dalle stesse
che, dirompenti dal rigo, espansive,
chissà dove poi vanno a non più dire

E come scrisse Aragon? (E quel che è scritto
può essere letto al contrario
anche per dritto). Scrisse che tu conoscevi
la volgarità turbativa che al meglio
si esprime nelle vignette delle cartoline
rispetto alle quali la sincerità e la vita
fanno le loro pessime figure
E c’è da decidere chi ci rimette:
se le vignette o la sincerità e la vita
(chi legge decida in quale verso legge il verso)
Insomma, se non c’è un disegno,
c’è forse, nella vita, un disegnino,
un calligramma candido sul bianco
della pagina, il più sincero segno
(perché ingenuo, quindi rivoltoso)
di una sfacciata sfiducia nella parola
scritta se non è scritta come fosse un gioco,
perché se non è un gioco è solo scritta,
stampata come un calco macchinoso,
un pezzo della macchina poetica,
e poesia significa produrre, e se appartiene
a un mondo è al mondo della produzione
che appartiene, basta saperlo, basta
sapere che anch’essa produce i suoi fumi
e le scorie soffocanti dell’umano,
senza poi fare troppo i sensibili e i contriti
e i suscettibili al destino dell’umanità,
che è palesemente solo uno:

l’onesta distruzione di sé stessa
(e sarà l’unica onestà di cui è capace)
anche ridendo del piagnisteo conservatore
di chi oppone il suo lamento all’estinzione
E che sarà mai? Un calligramma sarà
Il verso che si allontana dal suo rigo,
tutta la poesia in un disegnino, verso
un destino espansivo che è lo stesso
della cipria sotto uno starnuto,
della farina sotto una manata,
della polvere di stelle assai cantata:
la polverizzazione nello spazio

Per farcela una volta, la volta buona,
a non diventare merce citabile
né materiale da interpretazione
ma (guarda che ti dico) verso d’amore,
divertimento e amenità per gli occhi,
goduria e bellezza, il piacere,
nel quale noi sfoghiamo la certezza
che dopo il godimento c’è estinzione
Hai voglia a fare, voglia, sì, voglia
a dire, hai voglia, hai quella voglia
di sparire

Ché basta col pensare di pensare,
parlare di parlare, scrivere di scrivere
Il gatto coi baffetti sta lì (questo
è il significato) per abbandonare
la pagina senza nemmeno dover scrivere
con che rumore, perché non fa rumore
(come si dice?, si dice: felpato, felpato
il suo pensiero, felpato il suo parlare,
o recondita armonia dell’aggettivo
che, sotto sotto e accanto accanto,
più del sostantivo rende, esso, l’idea:
ti sei mai reso conto che l’aggettivo
rende ideale la parola, non più cosa?),
le rondini taglienti la taglieranno, la pagina
(senza stare a cercare un sinonimo del taglio)
e il rumore dello strappo è sì un garrito,
le vocali del cavallo sono zoccolate
sempre più lontane dalla pagina,
il liofante aspirerà con la proboscide
la pagina e sé stesso, e il ritratto di Lou
è soltanto un invito, un manifesto
delle nuove regole del testo, svanente
casomai lei si facesse viva col suo viso,
in carne e ossa, non soltanto annuncio
ossia in tournée in una lontananza assai da te,
e io mi slaccio la cravatta dal petto
della pagina, la pioggia ha raggiunto
il taglio basso e scola come le poesie
dei poeti, appunto, e l’orologio segna
la sua unica ultima ora, il mandolino
coglie l’ultimo tremito della mano
che lo suona, il garofano sfoga gli ultimi
suoi petali, e nel bambù passa l’ultimo
ritmo cavo come l’ultima corsa della metro,
e questo è il momento del finale, il momento,
non dico di quale tempo, se dell’anno, del mese,
della settimana, del giorno, qui non è più
questione di racconto, e questa poesia non è,
è il momento e basta, questo, qui, il momento
in cui ti dico: fai di me, fai di me, fai
(invece di far io la poesia, fai tu di me, foutu)
E quel che voglio è quello che vuoi farmi,
fuor di significato ma in pieno senso, o Lou

 

 

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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