Cose di famiglia

di Gianni Biondillo

Alla fine decisi di visitare il Niavaran Palace, quasi fosse un implicito tributo a mia madre. Con la amica iraniana che mi accompagnava fingevo di provare un sincero interesse storico, da architetto, anche se, a ben vedere, l’idea di visitare la sontuosa dimora estiva degli Scià di Persia non mi entusiasmava particolarmente. Ma quand’ero bambino mia madre mi parlava di Farah Diba, della sua bellezza e innata eleganza. Essere a Teheran e non andare a vedere casa sua mi sembrava un affronto ai suoi racconti d’infanzia. Alla fine a colpirmi non fu lo sfarzo. Non furono le pelli di orso posate a terra a mo’ di tappeto, le sale degli specchi, le camere reali. Neppure il guardaroba magnifico (davvero elegante, aveva ragione mia madre) dell’imperatrice. Fu il bagno dei suoi figli, con ancora attaccati alle piastrelle gli adesivi della Disney, di Pluto, di Topolino, o la camera del maschietto, mio coetaneo, con il pupazzo di Mazinga in bella mostra, come un qualsiasi ragazzino di tutto il mondo in quegli anni. È la potenza della cultura pop, pensavo, capace di accomunare ragazzi lontanissimi per censo e storia personale. Se gli Stati Uniti hanno dominato il novecento è stato non solo per la loro potenza economica o militare. È stato anche per la capacità seduttiva del loro immaginario. Lo stesso che, per le strade di Teheran mi faceva incontrare giovani che indossavano le tshirt di Iron Man.

La forza dell’immaginario pop americano – cinematografico, televisivo, fumettistico, etc. – non sta nella sua spettacolarità. Quello è solo un espediente. Il modo di vedere, interpretare il mondo, di raccontarlo, si basa su due fondamentali assunti: la colpa e la famiglia. Prendiamo il caso esemplare di Spiderman, un adolescente dalla famiglia complicata, senza genitori, cresciuto dagli zii, che all’improvviso si ritrova con un potere inimmaginabile. Che però, da immaturo qual è, non ha saputo mettere al servizio della comunità, provocando, involontariamente, la morte dello zio Ben, quello che lo aveva cresciuto insegnandogli che “a grandi poteri corrispondono grandi responsabilità”. È grazie al suo senso di colpa che Peter si traveste, combatte il crimine, tiene nascosto a sua zia May, e a tutte le persone che lo amano, la sua vera natura. È il suo senso di colpa che lo rende un eroe.

Sono appena uscito dal cinema, con mia moglie e le mie due figlie. Siamo andati a vedere il blockbuster della stagione: Infinity War. Divertente, spettacolare, visionario. Ma, come cercavo di spiegare alla mia famiglia (che chissà quanto si stava annoiando a sentirmi parlare), non è quello il motore implicito del film. Quello che lo tiene in piedi non sono gli effetti speciali ma i complessi rapporti familiari che mette in mostra. C’è un dio norreno, Thor, che è cresciuto assieme a un fratello adottato ma senza conoscere la sua vera sorella di sangue; c’è un miliardario farfallone e egocentrico che continua a rimandare la data del suo matrimonio; c’è un supercattivo, Thanos, che ha allevato due figlie facendole combattere fra loro (e una di esse trama per ucciderlo); c’è un giovane albero antropomorfo in piena contestazione adolescenziale; innamorati che non si dichiarano, orfani, padri putativi, coppie improbabili, una pletora infinita di tipologie, dalle più tradizionali alle più assurde, roba da mandare in visibilio Sigmund Freud. Per dirla in un tweet: un gruppo di scalcagnati eroi solitari provenienti da mondi differenti litigano e si difendono a vicenda come fossero una famiglia.

Mi sono sempre chiesto perché mia madre, una donna del popolo semianalfabeta, sia sempre stata così precisa nell’araldica del jet set. Magari non conosce il nome di un politico o di uno scienziato, non sa nulla di arte o letteratura, ma quando si parla di famiglie reali è capace di elencare alberi geneaologici e fitte parentele per non so quante generazioni. Non stiamo parlando, ovviamente, solo di sangue blu. Anche gli attori hollywoodiani, i personaggi televisivi o gli esponenti dell’alta società fanno parte di quel mondo visto da lei solo da lontano. Solo immaginato, come fosse un Eden (quando poi Hollywood incrocia l’aristocrazia allora è come se il tavolo da gioco sbancasse).

Credo che abbia a che fare con la parte infantile che ci portiamo dentro tutti. Credo che mia madre, sua sorella, le sue amiche del centro per anziani, verifichino costantemente se le fiabe che venivano raccontate loro da bambine alla fine si avverino per davvero. Se, insomma, dopo lunghe traversie, il principe e la principessa, vivano sul serio “per sempre felici e contenti”. La rivoluzione islamica in Iran, l’incidente a Grace Kelly, i tradimenti di Carlo, la fine di Diana, i suicidi dei rampolli reali o alto borghesi, le tragedie continue, le meschinerie, i litigi fra ereditieri, sono per lei, oggettivamente, sinceramente terribili, inaccettabili, ingiusti. Il bosco va attraversato, i mostri combattuti, ma alla fine il bene, l’amore, la felicità familiare deve regnare suprema. La vita di chi vive una vita da favola deve essere favolosa, senza indugi, altrimenti cosa ci resta?

Come faccio a dirle che nessuno può vivere “felice e contento” per tutta la vita? Non è un caso che le fiabe finiscano con quella formula. Chi ha mai saputo raccontare cosa succede dopo? Com’è la vita di due persone “felici e contente”? A chi interessa per davvero? L’eterna felicità ha qualcosa di mistico, di metafisico. È il Nirvana dei buddisti, è la contemplazione dantesca di Dio in Paradiso. Ma qui, sulla terra, nella vita vera, senza crisi, fratture, senza colpa, non c’è storia.

Insomma, aveva ragione il solito Tolstoj. Ricordate l’incipit di Anna Karenina? “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo.” Raccontare una famiglia felice è noioso, è molto più divertente raccontare quelle infelici. E ora che ci penso, se a Tolstoj ci aggiungiamo il tema del senso di colpa sviscerato da Dostoevskij in Delitto e castigo mi viene da dire che in fondo il famoso immaginario pop americano è debitore in toto del romanzo russo ottocentesco.

Il nucleo sociale fondamentale di ogni società è la famiglia, in ogni sua forma. Esiste, anzi, una storia dell’idea di famiglia (allargata, parentale, mononucleare, etc.) che racconta di suo la società stessa che l’ha creata. Raccontare la famiglia è, per esperienza diretta, raccontare l’esistenza. Indentificarvici. “Vuoi diventare uno scrittore?” lessi una volta su un libro. “La tua famiglia è fottuta!”

Il bagaglio di dolori e di infelicità che ti porti dietro diventa il tuo patrimonio da spendere come narratore. È per questo che non sarò mai un grande scrittore, purtroppo. Amo mia moglie, adoro le mie figlie. Una famiglia noiosissima. Ricordo che quando anni fa pubblicai un romanzo che parlava di un divorzio, gli amici, i lettori, ne rimasero affranti. “Mi dispiace” continuavano a dirmi, “eravate una così bella coppia”. Un libro così duro non poteva che essere autobiografico. Ho passato mesi a raccontare in giro che a casa andava tutto bene. Che era solo finzione. (probabilmente qualcuno ci sarà pure rimasto male).

Ho paura che se nella vita voglio continuare a fare lo scrittore ho bisogno di una famiglia più incasinata. Per un po’ avevo sperato nel conflitto generazionale con Laura e Sara, le mie figlie. Macché, ascoltiamo la stessa musica, guardiamo gli stessi film, leggiamo le stesse riviste. Poi ho sperato nel primo amore di Laura. Mi sono immaginato il suo primo fidanzato entrare in casa mia. Già me lo pregustavo coi capelli a cresta, viola, pieno di tatuaggi e anelli al naso, scurrile, rozzo, arrogante. Un mezzo tossico, pericoloso, uno di quelli che mette gli scarponi inzaccherati sui cuscini del divano, ordinando a Laura di andargli a prendere una birra. Sarebbe stato perfetto. Potevo litigare con lui, arrivare alle mani, buttarlo fuori di casa (“Sparisci dalla mia vista!”), inseguire mia figlia che nel frattempo si era barricata in cameretta, bussare alla porta (“Apri, sono tuo padre!”) per ricevere solo singhiozzi e urla (“Ti odio! Non ti voglio più vedere!”).

Niente da fare. Il fidanzato di mia figlia è un bravo ragazzo, educato, gentile, servizievole. Dei due il rozzo sono io. Impossibile odiarlo. Mia moglie l’ha praticamente adottato. Qui o Sara, la figlia più piccola, fra qualche anno mi combina qualche guaio o mi tocca cambiare mestiere, che altrimenti resterò per sempre uno scrittore mediocre. Che ci posso fare, vivo in una famiglia felice e contenta. Devo per caso sentirmi in colpa?

 

(precedentemente pubblicato su Lampoon the fashionable, n° 14 settembre 2018)

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1 commento

  1. Visitando il nascondiglio segreto dove vissero Anna Frank e i suoi ad Amsterdam rimasi folgorato dal particolare delle piccole immagini tratte da una rivistina made in Usa che Anna aveva ritagliato e incollato sulla parete del minuscolo gabinetto….Insomma una prova in piú di come il melting pot di tutte le razze presente negli States sia capace di incidere sull’immaginario di praticamente tutti.
    Quanto al bagaglio di dolori e infelicitá capace di indirizzare e sommuovere il grande scrittore….personalmente non saprei proprio. Non vedo l’equazione….Semmai la radicalitá di certe lacerazioni puó imporsi e provocare l’urgenza della ricerca dell’altro da….

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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