Michel Houellebecq ou l’extension du domaine des livres (prima parte)
di
Francesco Forlani
“Sono davvero sotto shock, non mi era mai capitata una cosa del genere, non lo auguro davvero a nessuno di trovarsi come me davanti a una finestra e un attimo dopo scaraventato in bagno dall’esplosione. Quando ho visto il letto ricoperto dalle schegge dei vetri andati in frantumi ho pensato sì alla fortuna di non essermi trovato lì ma soprattutto, te lo ripeto, a momenti come questi dove in un attimo quello che c’era prima di colpo non c’è più.”
Così mi ha detto al telefono, quasi ansimando, uno dei reporter coinvolti nella terribile esplosione avvenuta una settimana fa nel quartiere detto dei Grands Boulevards in seguito a una fuga di gas in una boulangerie. Il suo migliore amico Davide mi aveva telefonato per chiedermi di dargli una mano ed è per questo che lo avevo sentito. Ma al di là della coincidenza temporale di quell’evento e dell’altro dei gilets jaunes mobilitati come ogni sabato – il ragazzo era del resto venuto proprio per documentare la manifestazione – con la lettura appena finita del nuovo libro di Michel Houellebecq, credo che nessuna immagine possa rendere al meglio l’idea di Serotonina quanto quella descrizione fatta dal miracolato cronista.
Non è raro per un autore intercettare “lo spirito del tempo”, questa dovrebbe esserne anzi la regola, ma di rado accade che un libro agisca come detonatore, possa innescare seppure “romanzescamente” e far esplodere la polveriera che ogni epoca più o meno consapevolmente custodisce con le proprie contraddizioni e violenza congenita.
Per capire meglio questo perentorio cambiamento di stato basterebbe avere sotto gli occhi le due edizioni, quella francese e quella italiana. Se la prima è vuota, nella sua neutralità, la seconda sembra fin troppo piena; da una parte il silenzio di Flammarion e dall’altra il vacarme della Nave di Teseo.
Innanzitutto che cos’è la serotonina? C’est un petit comprimé blanc, ovale, sécable. L’incipit del romanzo è la definizione che segue immediatamente dopo la voce, il titolo in copertina. Ne è il prologo e ne sarà l’epilogo con delle pagine finali che sono un vero pugno allo stomaco e una carezza, talmente autenticamente sincere da indurre perfino il più cinico dei lettori alla commozione. La pagina di apertura è dedicata essenzialmente ai sintomi dell’infelicità di cui soffre il protagonista, Florent-Claude Labrouste, alla sua droga preferita la nicotina, perfetta perché “se définit entièrement par le manque et par la cessation du manque”. La Serotonina è un neurotrasmettitore, conosciuto come l’ormone del buon umore e serve a curare la depressione mentre Captorix è il nome del medicinale che l’autore cita in apertura prima ancora del proprio, come se, poniamo il caso, Melville prima di scrivere Call me Ishmael si fosse attardato sugli istinti suicidi del narrante, sul cattivo appetito, l’insonnia. Comunque sia Florent-Claude non ama affatto i due nomi, entrambi da froci seppure per ragioni diverse.
A lungo mi sono chiesto chi fossero mai i creatori dei nomi delle droghe vendute in farmacia, e non so se sia per invidia di quelle parole pagate a prezzo d’oro o per via dell’aura mitica che generalmente evocano. Basti pensare ad alcuni antidepressivi da evitare “assolutamente” nel 2018 secondo la rivista Prescrire:
Valdoxan (ottimo nome per una fontina d’Aosta)
Cymbalta (musicalissimo)
Cipralex (Da manuale giuridico)
Effexor (effeffe)
Stablon (Nomen omen)
Come avvertenza al lettore – e non ho mai capito perché in questo campo i foglietti del mode d’emploi si definiscano bugiardini- vale la pena informarlo che a nulla servirà richiedere al proprio farmacista di fiducia Captorix perché semplicemente non esiste. Per ora. Se fossi infatti il PDG di una casa farmaceutica lo avrei immediatamente commercializzato, sfruttando se non altro la vasta popolarità che Serotonina gli ha assicurato con le centinaia di migliaia di copie vendute in poche settimane.
Per tornare alla doppia copertina, alla descrizione di un’esplosione utilizzata all’inizio, ho pensato che la parola più giusta per descrivere il romanzo di Michel Houellebecq fosse “precipitato”. Da una parte per via della sua pertinenza al mondo della chimica e dall’altra per il suo richiamare il vuoto che solo un precipizio potrà indurre a temere davvero.
Un precipitato è il sedimento frutto di una separazione, è cio’ che resta, potremo dire, alla fine di un processo. In campo giuridico, scrive la Treccani: ciò che si manifesta come conseguenza necessaria di determinate premesse. Precipitate sono le storie d’amore che in un diaporama a ritmi irregolari ma ben scanditi dallo scatto del carrello su cui sono piazzate le diapositive, i fermo-immagine che il protagonista conserva, osserva e racconta fornendo più un’ anatomia della battaglia che una convincente analisi simbolica sul modello della Chambre Claire di Roland Barthes.
La defigurazione in atto – di quella dell’autore ne avevamo parlato in un’intervista al suo traduttore Vincenzo Vega già qui – da intendersi come esibizione delle figure ha sicuramente un suo antecedente in Rester Vivant , l’omaggio che Le Palais de Tokyo,il prestigioso museo parigino d’arte contemporanea aveva dedicato a Michel Houellebecq mettendogli a disposizione le proprie sale.
“Non è una mostra « su » Michel Houellebecq, ma « di » Michel Houellebecq : come lo scrittore produce una forma che partecipa alla reinvenzione dell’esposizione sparigliando le carte tra letteratura e fotografia, reale e finzione.” recita il catalogo della mostra. Fu proprio in quella occasione che per esempio venni a conoscenza di tre dati biografici a mio avviso essenziali per capire Serotonina. Il primo, che il suo vero nome fosse Michel Thomas successivamente cambiato in Houellebecq, cognome della nonna materna; il secondo, che la madre fosse medico e il padre guida di montagna; il terzo, che Michel Houellebecq si sia laureato in agronomia.
Il protagonista del romanzo è effettivamente un agronomo di professione e la sua esistenza sembra davvero in bilico tra due distinti paesaggi di una stessa natura, la prima interiore, fisiologica, chimica, e l’altra costellata di cime, crepacci, camminamenti- basti pensare al nome della cittadina in cui si risolve sul finale una delle più drammatiche scene del protagonista, Falaise. Due distinte visioni che partecipano di quella stessa parola, precipitato.
Ogni fine capitolo, peraltro estremamente conciso, rapido, si accompagna di una riflessione talvolta lirica altre più teorica su tutte le variazioni sullo stesso tema, la paura della caduta certo ma non quanto quella del volo. In un passaggio tra i più folgoranti, in cui l’esercizio della ratio, la misura, il calcolo, si sovrappone allo slancio metafisico, il protagonista ci dice che “ce n’était pas de l’impact avant tout dont j’avais peur, mais du vol, et la physique l’etablissait avec certitude, mon vol serait bref.”
Molti sono gli scenari in cui il lettore si ritrova insieme al protagonista sul bordo del precipizio, quasi ne sente il respiro, ne segue le titubanze, i “non ricordo” rivolti al lettore ma soprattutto tentato alla stessa maniera di trattenerlo dal compiere il gesto finale o piuttosto di spingerlo a farlo come quando lo vedi indietreggiare e non sai se è perché ha desistito dal proposito o perché sta solo prendendo la rincorsa.
La fotografia che scopriamo nella prima parte del ritrovamento dei corpi dei suoi genitori ha in sé qualcosa di estremamente mitico, ancestrale e allo stesso tempo contemporaneo come il ritrovamento di qualche tempo fa del bacio più lungo della storia scoperto durante uno scavo nell’area archeologica della città di Teppe Hasanlu, nel nord-ovest dell’Iran.
Nell’immagine sembra allora risuonare la voce del cameriere francese quarantenne che a Schwerin serve al tavolo di Florent-Claude e Kate, la ragazza danese che gli aveva offerto probabilmente la sua più grande chance di amare ed essere amato. Lui lo capisce e di ritorno con le ordinazioni dice ” restez comme ça tous les deux, je vous en prie, restez comme ça”. E’ solo quando non si rimane che riaffiorano i resti.
Ancora una volta è l’amore il mistero a cui si attacca Michel Houellebecq con uno stile per certi versi nuovo e forse per questo ancor più efficace nel ritorno in libreria. Ma non c’è soltanto l’amore. Ci sono il potere e l’amicizia, il primo totalmente asservito all’economia del non libero scambio e la seconda che pur di non perdere la sua natura più profonda ovvero la gratuità preferisce farsi da parte. Ci sono i maestri. C’è il tredicesimo arrondissement, il quartiere in cui vivo e soprattutto il Calvados che è probabilmente l’alcol più comunista e dandy sulla faccia della terra. Di questo l’umile estensore di questa nota vi dirà nella seconda parte ma solo a patto che i lettori ne facciano richiesta nei commenti.
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Secoli che non ‘mi immergo’ nel Calvados. Il solo richiamo ha agito come le madeleines proustiane….ho rivisto il verde francese, la sacralitá con la quale un produttore consegnava all’amico della vita (Jacques Bertoin) la bottiglia (a me destinata), il certificato di autentica….Preferirei restare con questi ricordi sensazione….quella finestra sul verde francese non sul tempo ritrovato (banale oramai…)….il meleto…..l’amico della vita….il mountpassiano, struggente, fuggente Calvados della giovinezza……Aspettiamo il seguito Furlen all’insegna…..
Finito oggi il romanzo tra Toledo e Dante, letto adesso il tuo pezzo.
Belli entrambi, ma solo a patto che racconti il seguito.
J’attends la deuxième partie avec une anticipation avide.
Merci Effeeffe