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Il tanatoprattore

di Antonio Moresco

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Questa volta proverò a raccontare alcune delle cose che mi sono successe durante l’estate.

Gavoi
Al centro della Barbagia, nel cuore della Sardegna, c’è un paese di neppure tremila abitanti che si chiama Gavoi. Qui, nel mese di luglio, si è tenuto per la prima volta un festival di letteratura intitolato L’isola delle storie, a cui uno degli organizzatori, Marcello Fois, mi ha invitato. Io ho, fin da ragazzo, un amore particolare per la Sardegna, per la sua lingua, per il suo canto ma anche per la natura, la nobiltà, la riservatezza e persino la conformazione fisica e facciale dei suoi abitanti e delle sue abitanti. Però, come sempre mi succede in questi casi, ero anche un po’ preoccupato perché non sono molto portato per questo genere di cose e mi costa molto parlare in pubblico, non ho alcuna abilità in questo, tanto che rimango sempre, alla fine, con un senso di amarezza e di solitudine, come uno che si sia dovuto spogliare in pubblico. Invece…

Non che non abbia dovuto scontrarmi, come sempre, con i miei limiti psicofisici, però questa volta c’è stato anche altro. Semplicità, stato di grazia, in chi ha organizzato queste giornate, negli abitanti del paese e in chi è venuto dalle altre zone della Sardegna. La vecchia signora nella cui casa di pietra ho avuto l’onore di venire fotografato sotto le immagini dei suoi nonni con gli antichi copricapi sardi e le lunghe barbe e che alla fine mi ha offerto un bicchierino di mirto fatto con le sue mani. Ma anche le altre persone invitate come me e incontrate in quei giorni, quelle che mi hanno, più che intervistato, sostenuto e sorretto durante i due incontri, e la serietà e la vivacità e l’attenzione attiva e profonda di chi vi ha partecipato. «Abbiamo creato un mostro!» ha scherzato Podde, il presidente della manifestazione, alla fine. «Adesso chi lo ferma più!» Chi lo sa se riuscirà a rimanere così – mi domando – sotto le pressioni cui verrà sicuramente sottoposto in futuro, se non si trasformerà un po’ alla volta in una delle solite vetrine di libri per lo più industriali che ci sono in Italia, ostaggio di macchine editoriali e mediatiche e di perbenismo culturale e di logiche conformistiche e spettacolari.

Auguri a Gavoi e il mio ringraziamento e il mio affetto alle persone che vi ho incontrato. Come Ermanno Olmi, che ha assistito a uno dei miei due incontri e che ho conosciuto alla fine. Mi è parso una persona meravigliosa, piena di entusiasmo e candore e di libertà. Le cose che mi ha detto mi hanno sorpreso per la loro generosità fuori dagli schemi e per la loro apertura. Io gli ho raccontato del mio sbalordimento quando, in un suo film (L’albero degli zoccoli) ho riconosciuto improvvisamente, nel buio di una sala, alcuni particolari interni di un convento-orfanatrofio dove mi sono trovato a vivere durante la mia adolescenza. «Dobbiamo incontrarci al più presto, parlare!» mi ha detto. «Che peccato che io non abiti più a Milano!» Poi mi ha detto che si sarebbe procurato subito i miei libri. Io ho pensato che dicesse così solo per gentilezza. D’altronde so bene che le persone che operano nel mondo dello spettacolo parlano a volte con leggerezza. Invece un amico mi ha detto che, poche settimane dopo, ha raccomandato la lettura dei miei libri e ha detto altre cose generose sulla mia persona in un’intervista sull’«Avvenire». E a me è parso un raro gesto di libertà che il regista dell’Albero degli zoccoli parlasse così – per di più sul giornale dei vescovi – dell’autore di Canti del caos, e anche una lezione per molti conformisti culturali ideologici e arcadici, arroganti e chiusi che ho incontrato sulla mia strada.

Se riuscirò a vincere il mio imbarazzo e la mia timidezza, proverò a chiamarlo al numero di telefono che mi ha dato, tanto più che ho amato molti dei suoi film, nel corso degli anni: I fidanzati, che ho visto da ragazzo e che ricordo ancora, L’albero degli zoccoli, con quella indimenticabile lucina nella notte che chiude il film, La leggenda del santo bevitore, il sorprendente Lunga vita alla signora, il cui allarme non è stato purtroppo raccolto, Il mestiere delle armi
Olmi è uno che è sempre andato per la sua strada e un maestro, un regista anomalo e inclassificabile, come quell’altro, a volte discontinuo ma sempre nevralgico regista che era Marco Ferreri. Anche lui, come Olmi, non ha ancora avuto tutto quello che gli spetta e non è stato ascoltato. Io non riesco a togliermi dalla testa alcuni suoi piccoli e magari imperfetti film come Chiedo asilo e L’udienza. Mi è capitato di vedere solo pochi anni fa, per la prima volta, una copia restaurata della Grande abbuffata. Un film sbalorditivo, impensabile oggi. Tutti gli spazi di turbolenza, delicatezza, furore e di libertà e poesia sembrano essersi chiusi quasi completamente. La forza del cinema è stata per lo più ingabbiata in piccoli esercizi televisivi e autopubblicitari dove non si respira il movimento e lo sfondamento del cinema. Dialogo, primo piano, primo piano, storiella. Sarà mica questo il cinema! Dopo avere visto alcuni film di Olmi, o di Ferreri o di Rossellini, Fellini, Pasolini ecc., possiamo misurare in quale stato – tranne rare eccezioni, che pure ci sono – sia ridotto e sia stato ridotto il nostro cinema. Sono passati solamente pochi decenni, eppure sembrano passati secoli. Ora ci arriva ancora del cinema magari dall’Iran, da Taiwan, dalla Scandinavia, da Hong Kong, tutti film apprezzati anche in casa nostra ma che da noi non troverebbero uno straccio di produzione. Siamo sommersi da tutta questa melma da reality show televisivo che si vorrebbe spacciare per cinema. Un paese che ha messo al mondo uno sfondamento cinematografico fuori dal comune e che ora è costretto a consumare questa pappina. Il cinema è una cosa grande! È uno squarcio nella vita spirituale, mentale e corporea di un paese. Senza un grande cinema, senza una grande letteratura, un paese è senz’anima. Io sogno che possano nascere anche da noi, dal basso, delle produzioni indipendenti e ardite che riaprano la possibilità di un cinema di respiro e movimento e visione. Perché non basta continuare a lamentare la quasi totale mancanza di tutto questo, bisogna anche creare le condizioni perché qualcosa di diverso possa nascere, senza aspettare che venga finalmente elargito dall’alto. Perché non è vero che il cinema è arrivato alla fine. Il cinema è solo all’inizio. Le possibilità che si potrebbero aprire al cinema in questa epoca sono senza confronto con tutto ciò che è avvenuto prima. Si potrebbe andare fin dentro il nucleo emotivo corporeo e mentale della vita profonda, oltre le logiche desertificanti delle piccole e grandi macchine genocide che stanno cercando di annichilire tutto, in questa epoca.

Amo il cinema. Sento la sua quasi mancanza nel nostro paese come una perdita irreparabile. Io stesso, nel mio piccolo, ho cercato di fare qualcosa. Un paio di anni fa ho scritto, a quattro mani col giovane regista Giovanni Davide Maderna, una sceneggiatura liberamente tratta da un mio racconto (Clandestinità), che abbiamo intitolato Cielo stellato, rifiutata da tutti i produttori cui è stata proposta. E ancora un anno fa ho scritto, da solo, una sceneggiatura sul Risorgimento, dove ho cercato di far conflagrare più piani, storici, biologici, temporali, emotivi e mentali, per poter entrare, insurrezionalmente, nell’inerzia terminale e infinitamente mortale di oggi. Ma non so ancora se il regista che mi aveva spronato a scriverla vorrà davvero correre il rischio di inventarci sopra un film e battersi per realizzarlo. Sembra davvero passata un’era da quando scrittori come Pasolini riuscivano a trovare un produttore che si assumesse il rischio di tirare fuori di tasca propria i quattrini per produrre film come Accattone, Il vangelo secondo Matteo… Eppure chi ricorderebbe oggi il nome di Alfredo Bini se non comparisse, esso stesso come parte della visione, all’inizio di questi film? E chi accetterebbe oggi di produrre un film interamente parlato in dialetto bergamasco e ambientato tra poveri contadini come L’albero degli zoccoli? O come Lunga vita alla signora, o come Dillinger è morto, dove “non succede niente” eppure succede tutto, o come l’esplosiva e premonitrice Grande abbuffata, o persino film-mostro allora celebrati come La dolce vita, Roma, oppure come L’eclisse, Il disordine, tanti altri?

Il tanatoprattore
Ho letto sul giornale delle novità introdotte dal progetto di legge sulla nuova disciplina delle attività del settore funerario definite dalla commissione Affari sociali della Camera. «Sale di commiato», «palazzine sparse per la città dove poter dare l’ultimo saluto alle persone care in modo dignitoso, senza dover sostare in fredde sale mortuarie», «possibilità di tenere in casa le ceneri, di disperderle secondo le volontà del defunto», «forni crematori gestiti anche da privati»…
Ma la cosa che mi ha colpito di più è stata questa: «Nel testo viene disciplinata una nuova figura, il tanatoprattore, che interverrà sul corpo del defunto per fare in modo che si mantenga nel migliore dei modi fino al giorno delle esequie».
Ecco, questa figura del tanatoprattore mi sembra assolutamente emblematica dell’Italia di questi anni. Per cui è giusto che qualcuno se ne sia accorto e che il potere politico abbia deciso di dargli finalmente uno status. In effetti quanti tanatoprattori ci sono in giro in questi anni, in Italia, nel mondo, in ogni campo! Nel cinema, in letteratura, nelle cosiddette scienze applicate, in politica, nelle istituzioni religiose…

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Pubblicato su “Fernandel” 4/2004

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