Come pedinare uno sconosciuto

di Antonio Merola

Questa è una storia senza parole: voglio dire che le parole ci sono, ma non quelle che chiunque tra noi avrebbe sperato di sentire uscire prima o poi dalla bocca di una persona come Agostino Brestolani. Credo che avesse almeno trentacinque anni quando decise di tentare la prima vera rivoluzione in senso stretto della sua vita: seguire una famiglia in un bar e ordinare un caffè, benché fuori il cielo rosa gli ricordasse che tra non molto sarebbe dovuto andare a letto – succedeva tutte le sere alle ventitré in punto. La bambina che affiancava i genitori in una giacca troppo grande per lei e con il cappellino di lana, la sciarpa avvolta velocemente intorno al collo e le guance rosse c’entrava poco: è vero che lungo la strada gli aveva sorriso, ma Agostino Brestolani non era quel tipo di persona. Era stata la famiglia intera che lo aveva portato là dentro, l’uomo e la donna, la tradizione e forse, l’apparenza di una relazione forte.

«Una cioccolata calda, una camomilla e un caffè».

«Voglio anche la panna» aggiunse la bambina al padre, ignorando il vecchio barista che doveva ricordargli in qualche modo l’orrore o la fine della vita. Sono sicuro cioè che si chiedesse silenziosamente come mai gli tremassero le mani e che allo stesso tempo ritenesse ingiusto che potessero davvero tremare le mani a qualcuno.

«Una cioccolata calda con la panna, allora».

«E per lei invece?»

«Un caffè anche per me, grazie» rispose Agostino, ma per non ridicolizzarsi fino a quel punto decise subito di correggere l’ordinazione: «Me lo potrebbe anche macchiare?». Imitare la bambina infatti gli sembrava più saggio che imitare apertamente il padre: si trattava di una forma di imitazione più raffinata, perché riguardava non tanto l’oggetto dell’ordine, quanto una comune volontà di variare le cose, abbellirle, renderle migliori. La bambina allora sospese per un attimo le proprie divagazioni intorno a quella ingiustizia dell’esistenza e si mise a guardare Agostino Brestolani come si guardano le persone buffe o i pazzi – poi si nascose dietro la madre. La coppia sembrava discutere di qualche cosa che doveva avere agitato la donna, perché lei continuava a ripetere al marito che con quelle persone non sarebbe uscita mai più e soltanto quando il vecchio barista porse a tutti la propria tazzina calda, Agostino si accorse di avere parlato precedentemente alle spalle dell’uomo: nel caffè non c’era nemmeno una macchia di latte. Ecco una seconda ingiustizia: l’ingiustizia che ripete sé stessa in una forma nuova, per punire l’ingiustizia precedente.

Tuttavia il motivo per cui Agostino Brestolani aveva seguito proprio quella famiglia nel bar, gli impediva adesso di turbare la stessa scena a cui assisteva volontariamente: un po’ di panna era finita sotto il naso della bambina, accanto la mamma beveva la camomilla in silenzio e pareva essersi calmata, mentre l’uomo giocava con lo zucchero rimasto sul fondo della tazzina; era dopotutto un momento di pace, come pochi se ne trovano in giro – o almeno, di una tale semplicità. Così anche Agostino bevve il suo caffè senza latte, dimenticandosi brevemente di esistere.

Questa pausa ci permette di descrivere meglio il locale: non era grande, appariva anzi come uno stretto corridoio diviso a metà dal bancone, così che i clienti dovevano consumare l’uno accanto all’altro e in piedi. Chiunque entrasse era quindi costretto a unirsi alla fila e sperare di essere raggiunto dal barista che si muoveva sempre di più avanti e indietro, avanti e indietro, finché quando capitava che la sala fosse piena, lo si poteva scambiare facilmente per uno di quegli animali dello zoo o per quei carcerati che si allungano da un estremo all’altro della loro gabbia nella  certezza quotidiana che è impossibile attraversare le sbarre – e che nonostante questo, continuano a muoversi. Era stata la dimensione del luogo che aveva portato quindi Agostino Brestolani e il padre di famiglia faccia a faccia: il secondo aveva già pagato alla cassa in fondo al bancone, quando la mente di Brestolani riprese il proprio possesso sull’uomo e lo spinse strategicamente nella stessa direzione con il portafoglio in mano, mentre si faceva spazio attraverso la minuscola folla composta dalla bambina e da sua madre, che ormai si sarebbero detti un unico corpo o meglio che la piccola, così stretta alla donna, se avesse potuto sarebbe ritornata fin dentro l’utero e avrebbe chiuso la porta agli estranei – ora era sicura: quel tizio doveva essere malato o pazzo. Il padre di famiglia si trovava perciò bloccato contro il muro, perché la postazione della cassa riduceva ulteriormente l’ampiezza permessa alla normale circolazione dei clienti a uno spazietto esiguo, che ora Brestolani occupava per intero. Certo, sarebbe bastato chiedere permesso: ma l’uomo non sembrava interessato a guadagnare tempo e aspettava con una pazienza silenziosa e disinteressata. Agostino Brestolani si accorse solo ora che aveva gli occhi verdi.

«Quant’è?»
«Novanta centesimi».

Tin. Spostiamoci verso l’uscita: ecco la bambina, seguita da sua madre, da Agostino e alla fine dal padre. Ringraziano in coro il vecchio barista. Brestolani si chiede adesso dove mai vada a finire la gente; ma la vera domanda che lo preme è se qualcuno tra quella gente si chieda mai dove vada invece a finire lui. Decide allora di improvvisare questo ultimo gesto patetico: dopo essere uscito dal bar, mantiene aperta la porta di vetro per aiutare l’uomo a tornare dalla sua famiglia.

«Grazie».

Avrei lasciato anche io Agostino Brestolani fuori quel bar, se non fosse successo ancora qualcosa. Se guardate bene tra i posti a sedere sull’ultima fila della linea 23, ci troverete un uomo semplice semplice preso a studiare l’effetto che l’inquinamento luminoso della città ha sul tramonto e quello strano gioco di colore sugli edifici, le strade, gli alberi tra i marciapiedi che scorrono attraverso il grande finestrino sporco. Ma dovete starci davvero molto attenti, altrimenti nessuno di voi si accorgerebbe del completo di seconda mano che porta dentro il corpo di una persona così uguale alle altre – ecco perché non voglio descrivervela nella sua fisicità.

Tuttavia, mentre noi non saremmo potuti intervenire perché siamo qui come dei fantasmi o delle ombre, Agostino avrebbe potuto fare certamente qualcosa quando sentì gridare quella grave minaccia più avanti nella vettura: «Stai zitto o ti tiro uno schiaffo, chiaro?»

Tutti avevano alzato gli occhi verso il vecchietto che era stato preso di mira – alcuni a dire il vero lo avevano già notato con una certa antipatia mentre cercava di farsi spazio tra di loro e a voce alta malediva chiunque si frapponesse tra lui e il proprio posto a sedere -, ma nessuno osava rimproverare anche solo con una occhiata l’altro, il gradasso, la voce prepotente di quel microcosmo a quattro ruote che si muoveva incontro alla notte profonda poco lontana.

Agostino come gli altri si era rivolto dapprima a quella vecchia e incerta figura, poi aveva calcolato minuziosamente le fermate che mancavano a casa sua: una mano si era mossa senza farsi notare e teneva ora chiuse tre dita. C’era abbastanza tempo per fare finta di niente. Bisognava solo agire in modo personale, cercare cioè di rendere quella finzione qualcosa di normale: sarebbe stato impossibile non sentire niente mentre si guardava fuori dal finestrino, a meno che non si fosse immersi in un pensiero così simile alla nebbia da isolare completamente il pensatore o addirittura da pervaderlo, come se arrivasse da chissà dove a cercare proprio lui, lasciandolo con gli occhi confusi e immobili. Quasi tutti i passeggeri dell’autobus però sembravano avere avuto la stessa idea: quattro teste su cinque erano adesso girate a giudicare il traffico che li bloccava in quella posizione. Si riusciva a vedere perfino il collo di una donna rimasta in piedi che si tendeva oltre tutti gli altri colli nella sua stessa condizione per guardare ancora più lontano. C’era poco da fare, doveva trovare subito un’altra soluzione altrimenti il vecchio avrebbe capito – voglio dire che Agostino sentiva che avrebbe capito tutto, perché adesso credeva che il mondo fosse nudo davanti a lui e che ogni cosa gli fosse evidente, ma che insieme quel vecchio fosse anche incapace di perdonare davvero gli uomini. Ma prendere il cellulare gli sembrava stupido: sarebbe stata una finzione troppo assurda per una persona con una rubrica vuota capace di simulare soltanto ciò che conosceva bene. E a dire il vero qualsiasi altro gesto adesso si mostrava del tutto comune, troppo simile all’ordinario e quindi falso, quasi innaturale, come qualsiasi uomo o donna che cercavano di imitare una azione che in una condizione diversa avrebbero compiuto ugualmente con maggiore piattume e sicurezza.

Agostino Brestolani concluse allora che quella doveva essere una punizione per la mancanza di rapidità a cui continuava a piegare sé stesso ogni giorno: chiunque là dentro infatti si era affidato alla propria vigliaccheria chiudendo semplicemente gli occhi così da sospendere qualunque senso di giudizio proprio come ci viene insegnato nelle favole che ci ostiniamo ad ascoltare da bambini, mentre Agostino aveva sentito il dovere morale di domandarle come mai avesse deciso di presenziare al ritorno a casa di tutta quella gente, e aveva preso a girarla e rigirarla senza trovare una risposta precisa se non che adesso (o forse era accaduto già da molto tempo) il vecchio taceva e si lasciava guardare senza battere ciglio. E così Agostino si accorse della precisione con cui la pelle gli scendeva flaccida lungo le braccia, fino a gonfiare in modo innaturale le maniche di una larga giacca a rombi per poi esplodere fuori come una cascata lungo i polsi magri e deboli, e che attraverso il volto rugoso, la mascella giocava a smuovere da una parte all’altra la dentiera; davanti a lui invece delle gambe robuste dentro pantaloni stretti, poco più su una cintura che si chiudeva al quinto o al sesto buco e poi nient’altro, perché era qui che lo sguardo gli si fermava: l’altro uomo rimaneva ancora senza volto.

Agostino Brestolani arrivò così a una seconda conclusione, cioè che il vecchietto dopotutto si era meritato quel rimprovero: era chiaro infatti che nessuno avrebbe mai occupato quel posto per fargli un dispetto o anche solo per sbadataggine. Certo l’autobus era pieno e si faceva senza dubbio fatica a muoversi, ma tutti avevano sentito da subito le imprecazioni del nuovo arrivato e dopo avere giudicato rapidamente la sua età con una occhiata storpia, avevano deciso di rimanere in silenzio e chi si trovava vicino alla seduta libera era rimasto fermo. Perché allora continuare a bestemmiare una volta che era riuscito a sedersi? Erano tutti quanti stanchi, specie (credeva Agostino) l’uomo seduto davanti al vecchio che doveva avere lavorato tutto il giorno. Ecco, non c’era altro da aggiungere: bisognava scendere alla fermata sbagliata, per lasciare che di quella oppressione se ne occupassero gli altri.

Ora Agostino è già in strada da dieci minuti e cammina verso casa, anche se mi sembra che abbia allungato il percorso girando a destra nella traversa sbagliata. La verità è che ha preso a seguire un uomo che aveva ricambiato il suo sguardo – anche se adesso non riesce a ricordare il colore dei suoi occhi. Deve mancargli molto il calore di un corpo maschile, se è disposto a pedinare uno sconosciuto. Ma perché diamine non si volta? Eccoli che girano di nuovo. È importante, mentre continuiamo a seguirli anche noi, che non consideriate la possibilità che quell’uomo abbia paura di Agostino Brestolani: dopotutto, le apparenze contano. E nessuno potrebbe avere davvero paura di lui. La strada è deserta, ci sono i lampioni con le luci basse e qualche stella nel cielo, ma non voglio che vi lasciate ingannare da una atmosfera stereotipata: questa non è una storia degli orrori. Siamo dietro a un uomo semplice semplice che segue un altro uomo perché estremamente attratto da lui, ecco tutto. Peraltro (bisogna dirlo) davvero affascinante.

A questo punto però devo ammettere che mi dispiace: vi avevo promesso una rivoluzione, ma è chiaro che non succederà niente. Agostino si è voltato all’improvviso e sta tornando a casa. Non ha il coraggio di parlare con quell’uomo, nonostante lui abbia ricambiato il suo sguardo. È troppo poco, non basta: gli manca la certezza della riuscita. Eppure non me la sento di giudicare Agostino; adesso è nel bagno a lavarsi i denti, ha già indossato il pigiama. Tiene persino i calzini. Voglio dire che cosa vi aspettavate da una persona del genere? Tra meno di sessanta secondi saranno le ventitré in punto e come ogni sera andrà a dormire.  Ecco perché oggi Agostino chiude gli occhi alle ventitré e zero uno.

 

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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