Della liquefazione del “tu”
di Mariasole Ariot
“Un senso di decadenza ci deprime, se opponiamo allo scatenamento senza misura, all’assenza di paura, il calcolo.”
G. Bataille
Esiste una zona vuota, in perdita, all’interno della quale i soggetti si muovono attraverso la parola – nella quale i soggetti muovono e sono mossi dalla parola, incisi, marchiati, tracciati, modificati dalla parola, parola che proviene dalla propria bocca, come dalla bocca dell’altro. Il presupposto quindi per cui un soggetto venga in qualche modo prodotto e sia in continua produzione è in primo luogo il fatto che vi sia parola, in secondo luogo, che questa parola venga ascoltata o sia ascoltata, in terzo luogo, che questo incontro si dia all’interno di una zona vuota.
Dove abita il troppo, non può darsi nulla, se non l’incessante ripetizione di ciò che già c’era. È questo forse il più difficile nodo da aggirare: significa spogliarsi, denudare gli spazi, creare nuove pareti e nuovi confini, aprire interstizi atemporali e aspaziali. Qualunque incontro avvenga all’interno di un dispositivo già ammobiliato, già previsto, già costituito – dove nulla c’è da attendersi se non ciò che già ci si attende – non produce movimenti significativi nei soggetti. Al contrario: siamo di fronte alla caduta della soggettività e alla presa di potere del potere stesso, un potere fine a sé stesso, che non ha più bisogno di niente, che si basta da solo.
Se cade la soggettività, cade anche, di conseguenza, la possibilità di produzione di nuovi significanti e significati e il passaggio liquido di produzioni attraverso la porosità dei corpi della lingua.
Non si tratta di uno svuotamento, del porsi come esseri vuoti, ma di saper aprire zone vuote all’interno di corpi pieni.
Quando ciò non accade, quando corpi e spazi restano come masse informi di carni compatte, non c’è più incontro con l’Altro ma piuttosto un incontro con la devitalizzazione di una possibilità mancata – che a sua volta produce non perdita dell’io ma perdita del vitale.
Il soggetto si immobilizza, diventa ossa, sasso, pietra, ombra di sé stesso.
Se questa devitalizzazione si realizza fino al compimento, se nasce da un incontro già previsto, che non contempla stupore, non possiamo credere che questo passi sotto traccia senza incidere i soggetti dell’incontro: piuttosto li scarnifica. Un “non è” non significa che quel “non è” non sia attivo, che non agisca sui corpi e sulle soggettività in causa: agisce per difetto, portando a desertificazione.
Eppure: non siamo forse al centro di un’epoca in cui il tu non è più un tu soggetto singolare ma piuttosto un tu espanso fino alla sua dissolvenza? In cui si smette di parlare ad un singolo (in una danza tra il dire e l’ascolto) e si parla solo alla moltitudine in una produzione di un incessante rumore di sottofondo che scarnifica la parola fino a farla diventare l’ombra di ciò che potrebbe essere?
Un’esigenza di spalancare la bocca di fronte a un tutti che in fondo è un nessuno, un proliferare di frasi, elementi, tracciati rivolti a una platea in forma di corpo unico che non ha teste.
Perdute le teste degli altri, cade anche la propria, scollata dal contingente, scollata dall’infinito, testa che si addobba di decori e si dilata fino ad occupare tutto lo spazio presente.
E dove lo spazio è chiuso, dove non esiste più spazio all’interno dello spazio, là muore il linguaggio, là muore l’incontro, là muore il dire, là avviene l’indicibile: miliardi di io cantano sordomuti della parola.
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In principio era il Verbo…,e vi risparmio il resto.
Cara Mariasole Ariot,
lei scrive che il nodo da offrire è “creare nuove pareti e nuovi confini, aprire intersizi atemporali e aspaziali”. Bene. Evito di riscrivere altre faccende complicate di cui lei parla per evitare che l’emicrania, nel tentativo di seguire il suo scritto, diventi una pulsazione così insistente da costringermi a infilare le pantofole, bermi una camomilla, o una purga qualsiasi e sperare di addormentarmi, mentre ripenso al suo scritto che si contorce come un serpente, e va a casaccio, , come un fannullone bighellona il pomeriggio in una via di provincia, snza una meta precisa, tirando sera. Mi domando di cosa sta parlando, e se ha scritto questo testo da sobria. Forse è anche per questo che la gente semplice sta lontana dalla letteratura, guarda dall’alto in basso il mondo intellettuale. Lei crede che dopo aver sgobbato dalle sei del mattino, fino a sera, ci sia qualcuno di questi lavoratori che possa capirci una mazza di ciò che lei scrive? Ricordo, per esempio, le polemiche del “Gruppo ’63” con Carlo Cassola e Giorgio Bassani. Anche la saggistica, la filosofia, la psicologia può essere spiegata con il dovuto rispetto per chi legge. Altrimenti, non hanno torto le parole di mio padre, che faceva il saldatore in fabbrica: un mese agli altiforni fa bene a tutti, rimette in riga i pensieri. Un caro saluto.
Non credo di “aver mancato di rispetto a nessuno”, scrivendo le mie idee. Sì, l’ho scritto da sobria e lucida. Come del resto scrivo tutto ciò che scrivo. Soprattutto, non è detto che non abbia lavorato agli altiforni anch’io. Né che sia un’intellettuale: tutt’altro.
A me sembra che letto con la dovuta attenzione il testo riveli una profondità di visione notevole. Certo non è di facile lettura, è denso, richiede uno sforzo. Ma se lei la sera, al ritorno dai suoi amati altiforni, ha voglia di dedicarsi a letture più rassicuranti perché non lo fa? Insomma, chi la obbliga?
L’analisi mi sembra molto lucida. Quindi i social network sarebbero il luogo principale di questo “troppo”, in cui tutti parlano ad una moltitudine indistinta. E in effetti nei social non si produce niente di nuovo, o forse in minima parte, visto che l’esposizione di sé ha assunto stilemi e linguaggi di una ripetitività vomitevole. Oltre al fatto che la parola diventa un grido, perde misura, e non fa altro diventare sempre più sfogo di istinti animaleschi. E la parola che prova ad andare a fondo, dei fatti delle emozioni delle idee, in realtà affonda sotto la montagna di “rumore”.
Nella società liquida non si perde solo il potere del linguaggio, si perde il potere comunicativo e indagatore di questo. Quello che rimarrà sarà una emissione gutturale ritrita e banale che consentirà l’esprimersi senza collegarsi ai neuroni del cervello. Bruttissima cosa!
Concordo, Gustavo. La mia preoccupazione è proprio questa. Poi mi chiedo: siamonin una società liquida o al contrario assolutamente rigida e pietrificata?