Generazioni

di Roberto Antolini

Appena entro nel negozio, Diego mi fa un cenno d’intesa «Sì sì – mi dice – il pacco da Milano mi è arrivato ieri. E dentro c’era anche il tuo disco dei Country Gazette». Già uscendo dal negozio strappo subito via la copertura in cellophane, e salito in macchina schiaffo il CD nel lettore. E avvio.
Teach your children parte con quattro grattate del violino (che sostiene per tutto il pezzo la linea melodica), e subito dopo arriva la base ritmica fatta da un banjo saltellante, dal basso e dalla chitarra. Di primo acchito farebbe quasi pensare ad un pezzo di liscio, ma i Country Gazette non erano proprio solo un gruppo da cow-boy. Questo pezzo è il migliore del disco, non è musica da ballo, anche se così è stata arrangiata da loro. E tutto sommato lo si sente. Anche così arrangiata sprigiona quel qualcosa di epico che mi aveva colpito anche allora, più di 40 anni fa, accoccolato nel buio davanti al bivacco della Madonnina, sul Becco di Filadonna. Con una radiolina appiccicata all’orecchio e sotto di me, nell’inizio di una notte quasi estiva, una distesa di boschi prima e poi, in fondo, le luci colorate di Trento, baluginanti in un crepuscolo non ancora esaurito. Una musica maestosa, e un testo che anche allora mi aveva trafitto come una illuminazione: «because the past is just a good bye».

Chissà perché ho aspettato tutti questi anni per regalarmi il disco. Veramente, da principio, della canzone sapevo solo quello che ne aveva detto quella radio libera che l’aveva trasmessa quella sera : che era dei Country Gazette. Poi però, anni dopo, ascoltando musica a casa di amici, avevo scoperto la sua vera carta d’identità. Il titolo innanzitutto, e poi che non era proprio dei Country Gazette. Loro l’hanno reincisa qualche anno dopo, ma il pezzo è di Grahm Nash, un musicista inglese, che aveva iniziato la carriera nell’ambiente del British pop degli anni ’60, con il gruppo degli Hollies, uno dei primi sorti ad imitazione dei Beatles. Ma che poi si era trasferito in America, in California, dove si era integrato nella comunità di musicisti della West Coast. E là aveva contribuito a formare, giusto in tempo per il festival di Woodstock del 1969 (e quindi per venire immortalati nel famoso film-documentario che ne è stato ricavato) quel gruppo di all stars che è passato alla storia con un nome fatto dalla somma dei cognomi dei quattro componenti: Crosby, Stills, Nash & Young.
La “fucina” dei CSN&Y è fra le più creative non solo del periodo, ma di tutta la storia del rock. Si tratta di quattro personalità vivide, ciascuna caratterizzata in un proprio modo, derivato da esperienze musicali precedenti importanti e tutte ricche di un proprio humus. Oltre al British pop di Nash, si trovano a convivere, e a fondersi in un nuovo sound, il limpido country-blues di Stephen Stills ex componente dei Buffalo Springfield, il folk-rock di David Crosby uno dei fondatori dei Byrds (band molto amata da Bob Dylan, dato che gli aveva regalato il primo vero grande successo internazionale con la loro fantastica versione elettrica di Mr Tambourine Man) e l’impronta acida del canadese Neil Young, anche lui ex Buffalo. Il tutto amalgamato in un equilibrio sempre instabile, ma che ha distillato gemme immortali.

CSN&Y includono Teach your children nel loro primo disco d’assieme Déjà Vu del 1970. Dimostrando che la ricettività del gruppo non è solo musicale. Nel 1970 la gioventù americana è in rivolta contro la scelta di Nixon di approfondire la guerra in Viet Nam aumentando continuamente il numero di soldati americani mandati laggiù (vi ricorda niente dell’oggi?) e bombardando a tappeto il piccolo Viet Nam del nord, su cui alla fine verranno rovesciate più bombe di quelle sganciate in tutta la seconda guerra mondiale, inutilmente perché comunque gli americani nel 1975 dovranno andarsene. Teach your children è una canzone sulla guerra, ma non solo su quella del Viet Nam. Parla del gap-generazionale fra padri e figli, giustapponendo i ricordi degli orrori della seconda guerra mondiale che ancora tengono irrigiditi i padri nella guerra fredda, con la rivolta contro la guerra in Viet Nam dei figli. Canta la comprensione tramite il rispetto dei reciproci traumi, e di vissuti divaricati e resi incommensurabili dalla storia, che solo l’affetto può avvicinare. Già Bob Dylan aveva cantato ai genitori – in The times they are a-changin’  – «non respingete quello che non potete capire». Nash dice ai padri: «Voi che avete fatto molta strada/Dovete trovare una regola secondo la quale vivere e diventare voi stessi/Perché il passato è solo un addio/Insegnate bene ai vostri figli/L’inferno dei padri lentamente scomparirà». Ma dice anche ai figli «E voi che siete nel fiore degli anni/Non potete sapere le paure con le quali sono cresciuti i vostri genitori/Perciò vi prego aiutateli con la vostra giovinezza/Loro cercano la verità prima di poter morire».
La versione CSN&Y di Teach your children è molto bella. Ha una sua forza essenziale, basata sul semplice suono di una chitarra ritmica, punteggiata da luminosi ricami della steel guitar di una guest-star come Jerry Garcia, il miglior chitarrista della West Coast. Ma è resa folgorante soprattutto da un impasto vocale straordinario, sommessamente polifonico, che sarà il marchio di fabbrica dei CSN&Y. Insomma, quella dei CSN&Y è indubbiamente la migliore, ma per me la versione dei Country Gazette è una madeleine, mi fa fare un salto indietro di 40 anni.

In quel maggio avanzato di metà anni ‘70 stavo facendo il servizio militare negli alpini, in un paesino sperduto del bellunese, e mi avevano dato la prima licenza, di un week-end. Ma io, appena arrivato a casa – con sommo sconcerto di mia madre – invece di crogiolarmi negli affetti familiari, sbatto quattro cose, fra cui una radiolina, in uno zaino e parto, a sera, per andare a dormire nel bivacco della Madonnina, sul Becco di Filadonna. Arrivo giusto in tempo per prendere l’ultima corsa della cabinovia che da Folgaria portava al rifugio Paradiso, un po’ sotto la cima del Monte Cornetto (qualche giorno fa, per nostalgia, sono tornato a cercare la cabinovia, ma non c’e’ più, hanno tirato via anche i cavi).
Da lì poi, già con le prime ombre della sera, parto all’arrembaggio. Salgo un erto pratone sopra il rifugio. Mi perdo ad un certo punto tra i mughi, e – tra i mughi, nella sera calante – vengo preso da sconforto. Ma ritrovo in tempo la strada e sono subito in cima al Cornetto. È una zona che porta impressi i segni della prima guerra mondiale 1914-1918 (un secolo ci separa da quel disastro, da cui è iniziato il declino dell’Europa ed il passaggio dell’egemonia mondiale oltre l’Atlantico). Dopo il Cornetto, lungo il sentiero di origine militare che con lievi saliscendi batte la cresta verso il Becco di Filadonna, se ne notano continuamente tracce: resti di fortificazioni, ormai sgretolate dalle molte stagioni, ma non ancora riassorbite completamente dalla montagna. Di sotto, ad est, ai piedi di uno strapiombo roccioso, si stende l’altipiano di Lavarone. Lì correva il fonte della Grande Guerra, e nel 1916 è impazzata la Strafexpedizion del comandante austroungarico Conrad von Hötzendorf, in cui è scomparso anche il fratello di mio nonno (anche il nonno è stato poi portato via dalla guerra, falciato in Galizia da una malattia da trincea, ma per fortuna però, prima, aveva fatto in tempo a concepire mia madre). Dai forti di entrambe le parti, collocati ai margini opposti dell’altipiano, i cannoni rovesciavano valanghe di fuoco. Le truppe bloccate nei forti venivano martellate senza un attimo di respiro per giorni e settimane. Morivano, impazzivano, i corpi restavano atrocemente mutilati nell’indifferenza.
Adesso nel sottostante altipiano tutto tace, la vita scorre immemore, i resti dei forti sono diventati attrattive turistiche, si spandono le ombre di una quieta sera, because the past is just a good bye.
Grazie al mio allenamento di marce alpine, scivolo anch’io quietamente lungo la cresta, in leggerezza. Eccitato da tanta libertà dopo mesi di caserma, con un leggero venticello nei capelli, ammaliato da tanta serotina bellezza. Sono rapidamente nella conca sotto il Becco, e decido di lasciar perdere la cima, che già conosco. Punto diritto al Bivacco. Attraverso una bocchetta a fianco del Becco e prendo l’ultimo tratto di sentiero ora in leggera discesa, che percorre una cengia sottoroccia. Compare subito, prima in lontananza, poi rapidamente guadagnata, l’affascinante guglia di pietra della Madonnina, sotto cui sta, a 2030 metri sull’altezza del mare, il bivacco.
Ancorato ad uno spalto roccioso incombente sopra la sella di Vigolo Vattaro. Ad est il lago di Caldonazzo, ad ovest Trento. Nient’altro che una baracca metallica con letti a castello, tutto quello che serviva per una notte di libertà, fra camosci lunari e gli spiriti delle cime.
Non ho bisogno di nient’altro.
Senza smettere di contemplare tiro fuori dallo zaino la mia radiolina, me la attacco all’orecchio, accendo. Cominciano a fluire le note di Teach your children.
E le parole :

Voi che siete pieni di esperienza
Dovete avere una regola secondo la quale vivere
E diventare voi stessi
Perché il passato è solo un addio.

Insegnate bene ai vostri figli,
L’inferno dei padri lentamente scomparirà,
E nutriteli con i vostri sogni
Quello che sceglieranno, voi lo saprete.

E voi, che siete nel fiore degli anni,
Non potete sapere le paure con le quali sono cresciuti i vostri genitori,
Perciò vi prego aiutateli con la vostra giovinezza,
Loro cercano la verità prima di poter morire.

Insegnate bene ai vostri genitori,
L’inferno dei figli lentamente scomparirà,
E nutriteli con i vostri sogni
Quello che sceglieranno, voi lo saprete.

 

Ndr: questo pezzo, intitolato “Generazioni”  apre – quasi un prologo che dà la colorazione emotiva – la bella raccolta di passeggiate/narrazioni storiche di Roberto Antolini “Verso il Brennero”, pubblicata da Publistampa (Pergine Valsugana, 2018), con introduzione di Giulio Mozzi. In passato Nazione Indiana ha accolto uno dei testi inseriti in questo volume (nella sezione “Altipiani”). Nell’immagine più in basso: il forte Cherle di Lavarone, del quale si parla nello scritto.

Questa la presentazione del libro sulla quarta di copertina:

Questo libro compie un vagabondaggio. Dai sentieri della Prima guerra mondiale che ancora tracciano le creste del Becco di Filadonna, ai palazzi che sono stati sede di case commerciali nel distretto paleo-industriale della seta della Rovereto sei-settecentesca, in una passeggiata che attraversa i luoghi forgiati dall’età della seta roveretana. Dagli altipiani coperti di selve affacciati sulla val d’Adige, colonizzati da popolazioni germaniche nel basso medioevo, alle architetture razionaliste della Bolzano “italianizzata” dal fascismo dopo la Grande Guerra. Dalla valle dell’Isarco, grande scenario della rivolta contadina del 1525 guidata dal Bauernführer Gaismair, alla val Pusteria che nella prima metà Cinquecento pullulava di anabattisti, e dove ancora tornano – discendenti degli esuli – gli hutteriti canadesi a metter lapidi in onore del loro fondatore, al maso natale di Moos. Luoghi nelle terre fra Verona e il Brennero, da sempre corridoio di transito per merci, eserciti, idee, in viaggio fra l’Europa centrale e il mondo mediterraneo. Resta in bocca il sapore della polvere del tempo, «perché il passato – come cantavano negli anni ’70 Crosby, Stills, Nash & Young – diventa subito un addio», nel succedersi delle generazioni che formano la Storia.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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