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Su Enea

di Daniele Ventre

 

In queste settimane, in alcuni siti di estrema destra, di cui risparmierò i link ai lettori per amor di decenza, compaiono articoli secondo cui Enea non sarebbe un migrante, uno straniero arrivato in Italia e inizialmente respinto: Enea sarebbe invece discendente dell’italico Dardano e sarebbe ritornato qui non come vile disertore dopo una guerra (secondo quella che è la “interpretazione” di destra delle motivazioni per cui migliaia di persone inermi scappano dai massacri), ma come eroe sconfitto e superstite, fato profugus e dunque predestinato all’Italia.

Al di là delle idee politiche di dubbio odore, che si celano dietro questa presa di posizione, si rilevano un bel po’ di deformazioni ed errori di metodo, a partire dal fatto che il mito non è storia. Anzitutto, rimanendo al mito, come attestato in un noto passo omerico, Y 309 (tradotto da Virgilio e rifunzionalizzato a Aen, III, 98), Enea è destinato, secondo una profezia messa in bocca a Poseidone, a dare origine a una dinastia in Troade e dopo di lui regneranno “i figli dei figli e quanti nasceranno in séguito (καὶ παῖδες παίδων τοί κεν μεθόπισθε γενώνται, et nati natorum et qui nascentur ab illis). Egli appare in conflitto con la dinastia di Priamo ed Ettore, in quanto tale γένος porta il peso della colpa di Paride. Enea, immune da tale colpa, continuerà la Troade, una volta crollata la rocca dei Priamidi e di Laomedonte.

Si tratta di uno schema noto a molti miti di distruzione: la rocca dei re empi crolla, continuano i pii e morigerati capivillaggio delle campagne. Così in Ellade Ipotebe rimane, mentre la Tebe Cadmea è stata distrutta dagli epigoni. Questo schema è una proiezione delle mitistorie legate alla fase finale della crisi dei palazzi micenei in Grecia: strutture palaziali in cui si insediano nuove élites, che ripetono gli errori dei predecessori, per poi essere subissate di nuovo e in via definitiva insieme alla rocca. Le distruzioni in Anatolia, come nel caso di Hissarlik e Beycesultan, appaiono invece, dal canto loro, più direttamente legate ad altri fenomeni geopolitici di larga scala, inserite nel contesto delle strutture statuali anatoliche alla fine dell’età del bronzo.

Dopo il mito iliadico di VIII sec. la Piccola Iliade, del secolo successivo, ci fa trovare Enea schiavo di Neottolemo Pirro, figlio di Achille. Secondo altre tradizioni maggioritarie, schiavi di Neottolemo sono Eleno e Andromaca. In ogni caso, scopriamo eroi troiani variamente connessi, per ascendenze e discendenze, con la Grecia dell’entroterra e di nord-ovest (Arcadia, prima patria di Dardano avo di Enea, secondo tradizioni più antiche; Epiro). Mentre l’Enea iliadico è sicuramente collegato agli Eneadi di Cuma Eolica e Ilio in Troade, cioè ad aristocratici Eoli, che si presumevano, per legittimare col mito la loro presenza in Asia, discesi da Enea; l’Enea successivo migra progressivamente a ovest, fino a che i coloni greci di età deuterocoloniaria non se lo portano in Italia (uno dei canali potrebbe essere stato, fra gli altri, la connessione fra Cuma Eolica in Troade e Cuma di Opicia in Campania, come ben chiarito da Alfonso Mele in un vecchio ma ben fondato studio del 1982 comparso sulla rivista “Studi Magni”). Insomma, che abbiano o meno trovato sparse tracce di micenei, secondo un’ipotesi di Musti, i primi coloni magnogreci si sono portati i loro eroi in occidente. Così Diomede ha fondato colonie fra Daunia e Calabria, Telegono, figlio di Odisseo e Circe, prima allocato a Cirene, si è spostato a Tivoli e Preneste, Latino è considerato figlio di Odisseo e Circe da Esiodo. Si tratta del momento in cui, prima della battaglia di Alalia, i greci cercano di arrivare fino a Kyrnos (la Corsica). Ma dopo che le loro velleità sono state troncate nel Tirreno, e dopo che i Latini e Roma cominciano ad affermarsi come polo dialettico dei magnogreci, di tutti quei miti migrati da oriente resta solo Enea. All’inizio è un Enea un tantino impius (per seguire l’ossimorico titolo di un’agile operetta mitografica, Impius Aeneas, di Francesco Chiappinelli), visto che fra l’altro si è accordato sottobanco con gli Achei, secondo una scena tipica del folclore indoeuropeo, il dono condizionato della libertà da parte del vincitore misericordioso al vinto onorevole (si veda la sua versione al femminile nel mito indiano di Draupadi che libera i suoi cinque mariti per concessione dei nemici).

Nevio nel suo misterioso flashback contenuto nel Bellum Poenicum, ma soprattutto Virgilio, ne ripuliscono il mito; Virgilio in specie, per poter costruire il suo poema, deve agire fra tre paradigmi: il modello politico dell’ideologia augustea, fondato sui quattro valori di iustitia, pietas, clementia, virtus e sull’obbiettivo della pace conseguita dall’Impero universale multietnico uscito dalle guerre civili; il modello epico arcaico dell’eroe omerico, Achille e Odisseo; il modello antiepico ellenistico “moderno” e poeticamente à la page del non eroe delle Argonautiche di Apollonio Rodio, Giàsone. Risultato: l’eroe giusto e pio, che richiesto di dare la pace ai morti, risponde in piena guerra che vorrebbe darla anche ai vinti, ma per necessità deve immeggersi di nuovo nella strage che detesta e che lo ha segnato, per conquistare una terra che sente straniera e che lo sente straniero, al di là delle genealogie mitologiche invocate a legittimare la presenza dei Troiani in Italia, in quanto discendenti di Dardano (il cui nome, più che al greco δαρδάπτειν “sbranare, uccidere”, sembra riconnettersi alla lenizione di Tarhunt- il dio delle tempeste ittita, lo Zeus anatolico).

In Enea convivono pertanto mitistorie anatoliche e tracofrigie assimilate dagli Eoli e proiettate in occidente, dove i Romani le catturano per legittimare il loro dominio sull’oriente ellenico ed ellenizzato, fra Acaia e Ponto. Ma di per sé, l’Enea di Virgilio è un eroe sradicato, respinto (Aen. I, 389, Europa atque Asia pulsus), in cerca di nuove terre a cui offre pace e ne riceve guerra. Guerra che fra l’altro gli viene da un tale Turno, un Tursnus, un Τυρσανός, italico per modo di dire e in realtà etrusco, tirreno, che come tutti gli etruschi, viene in parte dall’Anatolia (come dimostrano traccianti genici di esseri umani e animali domestici; che sia straniero anche Turno, in omaggio a una vecchia profezia, sono in parecchi a ripeterlo, visto che, pur col suo nome etruscoide, il mito lo indica come figlio di Dauno, migrato dall’Illiria meridionale, l’odierna Albania, in Puglia, da cui aveva scacciato gli Ausoni, che a loro volta le mitistorie coloniarie dei Greci legano a Ulisse tramite l’eroe eponimo Ausone, figlio dell’itacese e della ninfa Calipso) -senza considerare l’etrusco Mezenzio e Tarconte, che la sua origine anatolica la denuncia anch’egli nel nome, Tarhunt-, ancora il dio ittita luvio delle tempeste. Sta di fatto che senza questa natura di straniero sradicato, anche negli affetti (ha perso le uniche donne che per lui contassero, regine immense e semidivine come Creusa e Didone, per sposare una scialba principessa votata a essere semplice merce di scambio politico), la poesia dell’Eneide non sussisterebbe: l’Eneide non sarebbe più un poema epico patrimonio della letteratura mondiale, ma solo il piccolo manifesto di propaganda di una piccola fazione aggressiva e nazionalistica, senza futuro né prospettive, non certo il fondatore mitico della città dell’impero multi-etnico, che, per citare l’ultimo grande poeta latino, Rutilio Namaziano, fecit patriam diversis gentibus unam. Ovvio: Enea non era certo turco, come talvolta si celia, visto che i Turchi si impadronirono dell’entroterra anatolico solo dopo la battaglia di Manzicerta, nel 1071 d.C.; ma rimane un migrante, uno straniero d’oltremare, in un Mediterraneo percorso in lungo e in largo da ecisti e colonizzatori di tutte le etnie e di tutte le lingue, dalla Fenicia a Creta all’Ellade, all’Italia. Per questo invocare Enea come legittimatore mitologico di italiche purezze -l’ennesimo impiego propagandistico fascista dei materiali del mito- è un vero e proprio crimine contro la civilità, contro la poesia, contro la decenza.

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4 Commenti

  1. Contrattissima sintesi di Ventre col merito di toccare non in distratta superficie i referenti, gli archetipi, le ramificazioni, le componenti di un poema della letteratura universale redatto all’apice della pax augustea. Altro merito quello di averci dato tutte le proiezioni che….la Squola non trasmise e forse ancora non trasmette….(la ‘q’ é ampiamente meritata)….E poi promana dal testo di Ventre qualcosa, l’aura forse e non a caso….della Magna Grecia nella Napoli crocevia…

  2. Al netto della filologia e della ricostruzione del mito del nostro Ventre, rimane l’uso strumentale, degli uni e degli altri, quindi anche del nostro Ventre, del mito, della poesia, per dar legittimità a idee che di per sé avrebbero bisogno di ragionamento, di dati, dell’empiria, come dicono i dotti come il nostro Ventre, per essere supportate, non di ricostruzione filologica né di poesia né di mito. L’Europa, oggi, non esiste in quanto impero, in quanto continente unito, in quanto megastato: è solo un’accozzaglia invereconda di Stati, uniti solo da un’unione doganale, assai utile solo ai trafficanti di merci, ai capitalisti, alle grosse banche d’affari, non di certo al cittadino minuto, quello che guadagna poco, non sa le lingue, fa lavori relativamente umili, si arrabatta per far quadrare le spese; insomma, il cittadino tipo di ogni paese aderente alla ridente unione europea. L’unione doganale e monetaria tra paesi diversi, per giunta fintamente federati, come quelli della zona euro, per funzionare deve prevedere anche la libera circolazione delle persone, per questo gli organi di propaganda unionisti sono così teneri con gli immigrati; crederete mica che gente come Juncker sia filantropa? Non potete essere così sprovveduti… Non vedere ciò che è intimamente diviso non giova a nessuno: uno che ignori ancora, e così sfacciatamente, in barba alle evidenze, in modo così insipiente, questa realtà, così chiara, così evidente, così lampante, si rende un inutile idiota, uno che si balocca con la poesia, con la letteratura, con la visione ombelicale di cui si è imbevuto sicuramente in anni di poco profittevole studio universitario, anni in cui le sue meningi hanno trovato modo di asfissiare i pochi neuroni funzionanti. La maggior parte degli immigrati regolari in Italia guadagna meno di 800 euro (fonte Istat), in Europa, e segnatamente in Italia, Grecia, Spagna, e paesi del Sud, compresa la Francia, ci sono milioni di disoccupati, gli stessi paesi in cui siamo ormai oltre la crisi demografica, ma abbiamo decisamente preso la via dello spopolamento: in Italia, ad esempio, nell’ultimo anno, dati Istat, abbiamo perso circa 100.000 persone. Secondo voi l’Europa ha bisogno di altra forza lavoro, che non sia, ovviamente, una forza lavoro a buonissimo mercato, molto competitiva, molto concorrenziale nei confronti del suddetto cittadino minuto? Non saranno gli immigrati neri a rimpolpare una demografia ben oltre lo stadio del declino, dell’agonia. Persuadetevi: la realtà ha un’impassibile, granitica pazienza: aspetterà fino all’ultimo lento di testa, fino all’ultimo filologo.

  3. Guai a parlare due diversissimi linguaggi. Ventre riplasma nella poesia e nel mito l’Eneide. Quanto all’Europa accozzaglia di….questo é ben altro discorso. L’Europa politica non a caso fu esigenza (a posteriori) dopo il disastro della seconda guerra mondiale e dell’allora sottaciuto Olocausto. Due piani diversissimi che non possono toccarsi o contaminarsi. Non le pare Lombardini?

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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