I pod, You tube, He/She lost control
Sul suo blog l’amico Massimo Maugeri ha lanciato una sfida ai lettori invitandoli a votare il migliore singolo e album della storia del Rock, sulla falsa riga della Top 100 proposta dal Magazine Rolling Stone.
In tantissimi hanno così lanciato le proprie proposte ( per quanto mi riguarda ho votato Sympathy for the devil e Quadrophenia) e nel lunghissimo thread eccellentemente moderato da Gea ed Enrico, una giovane (presumo) commentatrice, Miriam, ha fatto un’osservazione che non solo mi pareva azzeccata ma che ha scatenato in me un’altra serie di interrogativi a cui ho provato a dare una risposta.
Miriam suggeriva infatti in po’ a tutti di non limitarsi a fare citazioni, riportare link a Youtube o Myspace, ma di tentare una sorta di cartografia affettiva delle canzoni cercando di trasmettere ai lettori non solo l’informazione ma anche l’emozione che aveva portato a quella scelta. Nel blog troverete ovviamente la formulazione originaria e vi invito a leggerla. Qui invece riporto la mia prima riflessione sperando con voi di trovare una risposta alla “chose”.
Postato Martedì, 19 Agosto 2008 alle 8:10 pm da effeffe
Cara Miriam,
era da un po’ di tempo che mi interrogavo su questa storia delle playlist. Sono stato tra i primi partizan dell’I-pod per puro caso.
Costretto a lasciare case e cose era l’unico modo per portare via tutta la discografia (le copertine, i libretti, le macchie sarebbero rimasti dov’erano) anche se immateriale, ovvero tracce mp3. E così mi è capitato di incontrare altri ipodisti nella mia lunga fuga (che ancora dura e sono passati più di tre anni) e di aver sperimentato quella cosa tradotta in dialoghi tipo: dai adesso mettiamo il mio ipod, no no, ho ancora due pezzi, si ma è mezz’ora che ci hai il tuo ipod collegato al mixer, è il mio turno. ..ecc. Eppure quel far ascoltare la playlist o un pezzo in particolare non produceva nell’altro emozione, proprio come nel tuo caso. In altri termini tutto il mondo che l’Ipodista aveva trasmesso a quel pezzo, il pezzo non lo trasmetteva ad altri. Banale no?
Eppure una spiegazione c’è, un’ipotesi ce l’ho. L’emozione (il discorso vale sia per l’ipod che per gli indirizzi youtube che ci si sta passando qui in questo post) non passa perché non c’è un racconto. Chi fa radio (io ne faccio un po’ con un programma in Piedmont) sa che il radioascoltatore si fa ammaliare dalla storia, dall’aneddoto, e il rock si sa si è sempre nutrito di aneddoti. Ma non solo. Un pezzo, traduce anche un tempo e la mitologia che lo presuppone. La canzone “Je ne regrette rien “di Edith Piaf va di paro paro con il lancio dei paracadutisti in Algeria,(la cantante aveva dedicato alla legione Straniera impegnata all’epoca nella Guerra d’Algeria, la registrazione del brano) o la canzone The end dei Doors che ognuno di noi dopo Apocalypse now associa al bombardamento al napalm in vietnam. Il rock produce narrazioni (ricordate la storica sfida alle bacchette tra i due batteristi, Carl Palmer (Emerson Lake and palmer) e Keith Moon (The who)e chi ama il rock si narra anche attraverso quel tipo di racconto. Un amico antropologo Marino Niola faceva notare come le nuove tecnologie si declinino attraverso i pronomi. I (io) pod, You (tu) tube. A me sembra che manchi ancora a questo stadio di riproduzione, (I pod, You Tube) la dimensione del noi che poi non è altro che la condivisione dell’esperienza, e dell’emozione.
Ecco perchè a mio avviso si affaccia sulla scena la parola share, condividere, in questi ultimissimi tempi. Lo share televisivo era n’ata cosa. Chi non viene da quel mondo (ex noi) c’entrerà da solo, non attraverso le “piste” che i genitori o i frati più grandi daranno. E allora si, che ogni nuova canzone (nuova di trent’anni fa dialogherà con quella che ha pochi giorni di vita). Così i concerti in sale microscopiche, o negli stadi dove si vedono sempre più ragazzi e ragazze. Scusa allora, Miriam, se non ci si trova ora, perché già so che ci si ritroverà più tardi, e magari avrai tra le mani un disco che uno dei più grandi fumettari italiani, Tanino Liberatore, aveva realizzato per quel grande cantautore italiano che è stato Ivan Graziani…
scusate il papiello
effeffe
Nota
Segue testo dell’articolo di Marino, a parer mio imprescindibile.
L’ IO E IL TU DELL’ UMANITÀ COMUNICANTE
Repubblica — 26 luglio 2008 pagina 35 sezione: CULTURA
di
Marino Niola
IPod, YouTube: prima e seconda persona singolare dell’ individualismo di massa. L’ io e il tu dell’ umanità comunicante, i pronomi personali dell’ interlocuzione globale. Nomi brevi, assonanti, allusivi. Misteri etimologici, nuovi mondi da scoprire e da nominare. Sono questi i miti d’ oggi, le bussole che aiutano l’ homo tecnologicus a navigare nel mare del presente, a esplorare, più che a spiegare, una realtà in perpetua, rapidissima trasformazione. Che è poi da sempre la funzione del mito: traghettare il senso negli stretti insidiosi che separano un mondo che scompare e quello nuovo che si profila in forme sconosciute, enigmatiche, inquietanti. Il mito è una parola scelta dalla storia, diceva Roland Barthes nei suoi Miti d’ oggi.
Un libro che quando uscì, nel 1957, fece epoca, perché riepilogava il presente in poche parole, lo riassumeva in un glossario fatto di alcuni termini chiave – oggetti simbolo – che sintetizzavano la mutazione antropologica della società che usciva dalla guerra. La bistecca e le patate fritte, lo strip-tease, la due cavalli, il vino rosso, i detersivi, la Guide bleu, il Tour de France, Brigitte Bardot. Passioni-ossessioni della prima società dei consumi, che si era appena lasciata la miseria alle spalle e sognava cose concrete, solide, di sostanza. Un simbolismo nutriente, addirittura ricostituente, tutto il contrario del nostro ascetico immaginario a cristalli liquidi, immateriale, vuoto, mobile, virtuale. Perché quando la storia supera un tornante la macchina del mito si resetta. E fabbrica nuove icone. è in questo senso che iPod e YouTube sono entrati nella mitologia contemporanea. Come ologrammi che condensano in un oggetto lo spirito di questo tempo.
Nato come merce, l’ iPod (ma anche l’ i-phone) è diventato improvvisamente significato. E in questa metamorfosi c’ è la chiave della consacrazione di un semplice lettore di musica e video a emblema di uno stile di vita hi-tech. Simbolo di identità e perciò stesso rivendicazione di una differenza. A caratterizzare i prodotti contrassegnati con la i e i soggetti che li scelgono è proprio il non essere come gli altri. IPod non è un walkman, come i-book non è un pc e come i-phone non è un telefonino. In un mondo spersonalizzante, competitivo, minacciosamente tecnocratico, gli strumenti con la i diventano il nostro io tecnologico, incarnano il volto umano della mobilità, permettono insomma una sostenibile leggerezza dell’ essere. Bianco, elegante, levigato, minimale, il design stesso realizza l’ utopia di un nuovo modo di vivere la tecnologia che ne fa una seconda natura, senza la discontinuità robotica dell’ informatica ancien régime. IPod replica con mimetismo ibrido, più che animale meno che umano, lo scorrere ininterrotto e trasversale dei flussi della nostra memoria.
Senza scatti per passare da una traccia all’ altra, un panta rei digitale che sembra riprodurre l’ anatomia stessa del ricordo. Nelle play list che costruiamo e che scambiamo con altri – dando vita a forme inedite di comunità estetiche, di reti armoniche – la musica registrata perde, infatti, il suo carattere esterno, oggettivo, impersonale, archivistico per trasformarsi in ricordo, in qualcosa della nostra soggettività che viene condiviso. L’ oggetto diventa così un prolungamento di noi stessi, realizzando la mutazione antropologica della tecnologia. Con l’ effetto di una naturalizzazione del digitale che smette di essere una protesi elettronica per trasformarsi in organo pulsante, attaccato alla pelle al punto da diventare me. Digito ergo sum. è il motto di uno spostamento progressivo dal tecnologico al biologico, dall’ avere all’ essere, dalla terza alla prima persona. Il che consente all’ informatica di realizzare la promessa contenuta nel suo nome e di diventare pura sinapsi, materia subtilis, funzione senza peso. IPod, letteralmente io-piede, o in senso figurato io-cammino, o ancora io non resto fermo.
Come dire la mobilità in un nome che, non a caso, evoca il movimento, il camminare poiché deriverebbe dalla parola piede. Esattamente come Edipo, il più mitico dei nomi. L’ etimologia, lungi dall’ essere certa è tuttavia piena di verità. Una verità di ordine simbolico e non di ordine logico o filologico. L’ autenticità dei miti, infatti, sta tutta nel valore condiviso che essi assumono e la loro forza sta nella capacità di orientare il senso comune: il mito funziona come una bussola e non come un microscopio. La parola mitica è sempre un concentrato di senso, o meglio di sensi. è significato ad altissima densità iconica. Per esempio il nome Edipo, che significa letteralmente “piede gonfio”, rende il gonfiore dei piedi universalmente significativo, ne fa il simbolo di uno zoppicamento del mondo, di un cattivo andamento della realtà che precipita tragicamente, come una persona che cade in disgrazia. E le fatali Sirene hanno già nel nome – dalla radice sir che vuol dire canto – sia l’ incantesimo del suono che il grido dell’ allarme. Il pensiero mitico trasforma dunque un nome comune in un nome proprio di cui tutti riconoscono il senso a prima vista e che applicano alla realtà come un cifrario, come una chiave d’ interpretazione.
Ecco perché iPod diventa la personificazione di un’ azione, l’ iconizzazione di una funzione, la sua sacralizzazione laica. Al fondo del nostro linguaggio di ogni giorno giace una sterminata mitologia, un infinito catalogo di significati virtuali che di volta in volta le correnti epocali e le onde emotive disincagliano facendole venire a galla, passandoci sopra un colpo di evidenziatore collettivo. Proprio come nel web dove si parla di far galleggiare l’ informazione, di linkarla. In fondo i miti, di ieri e di oggi, sono proprio dei link che fanno affiorare le parti nascoste della realtà, gli strati giacenti del linguaggio, richiamando alla superficie le profondità inesplorate dell’ essere che emergono dalla quotidianità della parola stessa. Potenza di un piede. Talmente iconico da figliare parole nuove come podcasting – composta da pod e da broadcasting, ovvero condivisione di file audio – eletta parola dell’ anno 2005 dal New Oxford Dictionary celebrando di fatto la metamorfosi della funzione tecnica in indicazione mitica.
Se iPod è insieme anima e mente dell’ individuo di massa – contrazione egocentrica, quasi autistica della propria interiorità, del proprio mondo, delle proprie preferenze e passioni in pochi grammi di guscio – YouTube rappresenta invece l’ interlocuzione globale all’ ennesima potenza. Che fa di ciascuno la seconda persona di un tu per tu planetario tra immagini. E dunque la relazione con l’ altro appare totalmente oggettivata, quasi anatomizzata. La rete funziona da lente d’ ingrandimento che mostra a una velocità vertiginosa – ogni giorno cento milioni di video visionati e sessantacinquemila nuovi filmati aggiunti – l’ umanità ridotta ai suoi minimi particolari, spesso i più bizzarri, mostruosi, paradossografici, rendendola di fatto estranea, mero oggetto di visione posto a distanza telescopica. E proprio telescopio significa in antico slang il termine tube. Ciascuno è voyeur ed entomologo di una realtà ancora in frammenti: una zoologia imperfetta fatta di individui non ancora raggruppati in specie. è la vera Naturalis historia dell’ immaginario globale, fatta di eccezioni di cui è difficile trovare la regola. Un’ umanità singolare che sembra uscita dalla penna di Erodoto o di Plinio. Ma attende ancora un Linneo che metta ordine nel suo caos e ci insegni a leggerne le figure.
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L’uso dei pronomi personali “I”, “you”, “we”, e degli aggettivi possessivi “my”, “your”, “our”, è tipico di un certo linguaggio americano orientato al marketing. A parte gli esempi citati, nel(la) web non è infrequente incontrare “my site”, “my account”, laddove noi europei usiamo forme più spersonalizzate e meno possessive. Credo che questo tipo di linguaggio sia connaturato alla cultura americana, che sta diventando con queste nuove tecnologie la cultura globale. Ha senso dunque farci sopra una sociologia, ma solo come ennesima dimostrazione della capacità di penetrazione di quella cultura attraverso il mercato.
D’accordo invece per il racconto legato all’emozione che può trasmettere un prodotto (musica o vide in questo caso, ma il discorso potrebbe valere per tutto). Ben l’ha capito Giovanni Allevi, che nei suoi concerti fa precedere l’esecuzione di ogni brano dal racconto della piccola storiellina che l’ha ispirato.
racconti che ho trovato, al concerto a cui sono andato, di una poesia e lucidità straordinarie.
per quanto riguarda la matrice linguistica quella non è negata ma come spiega marino si esplicita attraverso comportamenti (il modo di camminare, l’uso delle cuffiette, la maniera di viversi la musica) che più che inseguire un modello lo incarnano alla perfezione. LA si potrebbe anche definire come colonnasonorizzazione della vita.
effeffe
Caro Effe Effe, sono una giovanissima di spirito. Mi accosto a ciò che non conosco con stupore. Non ho una cultura musicale (chissà perché?), ma sembra sia tipico degli artisti lavorare alle immagini in assoluto silenzio,forse, perché la buona musica è essa stessa immagine. Ho riletto il tuo post, il testo di Nicola Marino e l’intervento che mi precede, certo la sensibilità dovrebbe sempre governare gli interessi, altrimenti la ricerca dell’esperienza si limita all’oggetto, producendo poi solo un apparente godimento, o per dirla come Spinoza, una forma di infinita “tristezza”. Domani sul post di Maugeri avranno inizio le votazioni per scegliere, è comunque un gioco, i titoli richiesti: la miglior canzone, il miglior album.
Nella mia assoluta ignoranza voterò un solo titolo, come scelta simbolica e storica; proporrò la canzone dell’Uomo Nero: Wonderful Word di Louis Amstrong. Di là ho già spiegato perché e lo ripeto brevemente qui; l’Uomo Bianco ha colonizzato abbastanza, continuerà a farlo, ma, per quanto mi riguarda ritengo sia fondamentale riconoscere, nel considerare la musica contemporanea, il merito delle origini afro-americane. Non esiste, negli Usa un museo alla memoria degli schiavi , Susan Sontag spiega il perché e il ragionamento è anche condivisibile, ma qui, in un gioco letterario di fine estate possiamo liberamente salutare quella canzone e l’interpretazione di Amstrong come un rispettoso e universale omaggio alle culture del mondo e alle possibili commistioni.
Ciao, Miriam
ti consiglio però la versione dei ramones in questo caso
effeffe
ps
la narrazione à suivre
Letto, visto e ascoltato (lo conoscevo), ma così salta la simbologia. Io voto per un’icona d’arte (azione creatrice) che si riveste, sempre di nuovi significati rielaborando i dati della memoria collettiva e personale.
Ciao, mr
Splendido articolo di Marino Niola e splendido gioco delle perle di plettro.
Grazie Effeffe.
quante chiacchiere, e soprattutto quanto inutile intellettualismo, per un fenomeno di una banalità imbarazzante: è ovvio che una “lista” è una roba fredda, mentre un elenco affettivo è una narrazione. è la differenza tra burocrazia, e potere, e affezione (spinoza), e racconto. io, tu, niola, ipod, youtube… quante chiacchiere…
belle e buone soprattutto a carnevale, no?
effeffe
«Il sesso è meglio delle chiacchiere. Le chiacchiere le devi sopportare per arrivare al sesso». (Val Waxman, nel film Hollywood Ending di Woody Allen)
Piccola glossa su allevi, per Forlani. Dici, a proposito dei raccontini che Allevi antepone ad ogni canzone: «racconti che ho trovato, al concerto a cui sono andato, di una poesia e lucidità straordinarie».
Ora: sulla “poesia” non esagererei, mentre sui raccontini posso dire che all’inizio, quando anch’io avevo assistito a un suo concerto del Joy Tour, credevo che fossero spontanei e improvvisati. Poi, confrontandomi con degli amici che hanno assistito ad altri concerti dello stesso tour o di altri, ho scoperto che Allevi ripeteva esattamente le stesse cose, con le stesse pause, le stesse incertezze in stile adolescenziale, ad ogni concerto. Evidentemente facevano parte di un copione, impostato su un’idea di concerto mutuata dalla musica leggera. Tuttavia mi sono sentito un po’ come Stanlio e Ollio in una famosa comica in cui loro, per dimenticare una donna fatale di cui avevano entrambi la foto, si arruolano nella la legione straniera e lì scoprono che tutti gli arruolati avevano al stessa foto…
Quindi: il racconto come affabulazione narrativa da premettere a un qualche prodotto o “dizionario affettivo” ci può anche stare, ma non deve diventare un cliché. Altrimenti è mistificazione.
e anche questo è vero
effeffe
Ho molto apprezzato la finezza della riflessione linguistica e l’accenno a Roland Barthes.
Un post che dà energia all’intelligenza, la riflessione su oggetto della nostra società, emblematico della nostra relazione con gli altri.
A un io consumo, preferisco un io interiore.
A un io fuggitivo, preferisco un io radicato.
A un tu finto, un tu di vicinanza.
In somma il ” noi” di effeffe.
Penso alla forma dei oggettti che sono collegati al nostro corpo come cordon ombelicale, il corpo del oggetto che custodisce la nostra memoria
di gusto, di piacere, di emozione.
un miracolo che dice Efffeffe nella sua lunga fuga, come un oggetto che assicura la permanenza in un mondo di più precario.
Caro Francesco,
desideravo ringraziarti pubblicamente per questo bel post e per il link a Letteratitudine.
(perdona il ritardo, ma come sai ero in vacanza… off line).