Note su L’indifferenza naturale di Italo Testa

di Gianluca D’Andrea

Lo sguardo è lenta costruzione […]
la mente rumina le cose
le afferma per sottrazione

L’indifferenza naturale

 

L’ultimo libro di Italo Testa sembra attraversato da una carica metafisica che fa leva sulla sospensione. La parola si fa basilare, tocca il basso e l’umido di una terra di passaggio che solo in lontananza sembra fare risuonare paesaggi realmente attraversati dall’autore.

Sicuramente balugina una necessità di rinascita ma essenziale, appunto, o “naturale” come l’in-differenza cui il titolo introduce e che suggerisce una percezione ambivalente: «la vita che ignota fermenta dai fossi / in un’onda di calore svapora» (pastura, p. 16, vv. 5-6), o ancora «guarda la vita che anonima fermenta / il ritmo uguale dei giorni senza meta» (la lenza, p. 17, vv. 1-2). Ambivalenza che, almeno nei testi da cui gli estratti sono riportati, sembra inoltrarsi nella terra di mezzo di una nominazione franta, da un lato sentinella di una presenza che si appressa ma, d’altro canto, che s’immobilizza nel “non nominabile” “di un’assenza” (come è evidente nell’ultimo componimento del libro a p. 117).

Partendo da questi estremi, nella divaricazione di una cammino che si dipana per segnali e intermittenze, è possibile rintracciare ombre di presenza in una realtà indistinta, limacciosa, cui sembra destinato a ritornare ogni segno umano (e, nello specifico, la parola della poesia). Ogni documento, potrebbe “realizzarsi” in un’archiviazione indifferente, in un enorme “no-cumento” – questo il rischio che le capacità di archiviazione attuali immettono nel nostro vissuto se si dimentica la stratificazione “geologica” che i segni producono – ma la poesia indica la direzione di un recupero, per quanto disillusa, verso cui sembra muoversi l’opera di Italo Testa, incluso L’indifferenza naturale che sembra porsi in posizione “originaria” rispetto ai depositi e alle stratificazioni successive di La divisione della gioia, I camminatori e Tutto accade ovunque.

Un esempio di questo recupero in origine è rappresentato dal testo che troviamo a p. 33 e che riportiamo per intero:

 

perché sono arrivati e ci chiamano
dalle cascine sparse nella neve
e nel dicembre luminoso affondano
dietro le quinte mobili del giorno;
ho provato a fermarli: non ascoltano,
camminano sugli argini, proseguono
stringendo le spalle contro il vento
si piegano in avanti, a passi lenti
raggiungono il cofano innevato,
l’auto lasciata in mezzo al campo;
ho provato a chiamarli: non guardano
in nessuna direzione, s’inoltrano
sulla pianura estesa nel chiarore
da cui sono arrivati infine tornano.

 

Il richiamo al ciclo de I camminatori (con ramificazioni in Tutto accade ovunque, per cui è definitivamente manifesto l’orientamento “rizomatico” della ricerca di Testa) sembrerebbe in funzione, oltre che di un recupero, di una proiezione alla dimensione “sdrucciolevole” del cammino, alla possibilità (quasi necessità) della “caduta” per cogliere pienamente il mondo che avviene. E, infatti, L’indifferenza naturale è un’operazione d’archivio, e quindi di deposito lo ribadiamo, elaborata tra il 2003 e il 2010, terminata nel 2017 e, proprio per questo, postuma e originaria al tempo stesso (vista la data della sua attuale pubblicazione), per questo segnata profondamente dalla duplicità. Duplicità che si esprime per cedimenti e riprese – «la terra così tenera che cede» (dietro i calanchi, I (il regno dei corvi), p. 37, v. 6), «frana leggera» (ibid., II (caccia in volo), p. 38, v.1), «sui calanchi franosi» (ibid., III (piacenziano, notte), p. 40, v. 3), «di un tempo che frana» (ivi, p. 41, v. 21) – e da cui è possibile intravedere la storia collettiva, anche se per frammenti senza ricomposizione affabulatoria e, per ciò, coerentemente con la visione rizomatica e stratificata del mondo cui accennavamo in precedenza.

La tematica dell’ambivalenza è resa palese, sul piano simbolico, dalla presenza quasi al centro della raccolta, dell’ailanto, una pianta migrante e infestante (come ci avverte in nota l’autore: «la corteccia e le foglie di questa pianta possono provocare forti irritazioni cutanee e, nei paesi occidentali, generare ossessioni negli autoctoni», p. 121), in cui risiedono allo stesso tempo facoltà di adattamento e distruttive:

 

# 4

 

selvatici ailanti
ospiti invadenti
delle sterpaglie,
voi dolci, minacciosi
appostati sui greti
tra le ripe in attesa
attorti ai tralicci,
fitti e sinuosi
tramanti nell’aria,
ailanti luminosi

(p. 48)

 

Così nelle parole della poesia, tra fine e rinascita costante, appaiono segnali che conducono dal sereniano (e quanto novecentesco e abusato) «e mai nulla in nessun luogo» (p. 77), all’«ogni dove s’irradia / questa luce che bianca / t’assale» (di pusterliana memoria, p. 78), attraversando apparizioni di vita vegetale che accennano a un infimo inizio: «ho visto nel sole tua figlia / correre incontro ai gigli già sbocciati» (p. 70).

È abbastanza evidente, per chi segue da tempo il lavoro di Italo Testa, che anche L’indifferenza naturale s’iscrive in una poetica del limite (e del “limine”, aggiungerei) che contraddistingue il passaggio dalle “poetiche della fine” novecentesche allo slancio in direzione di una nuova definizione del mondo e che attraversa la “nudità” di senso (il mero essere di stevensiana memoria – «la lucertola è solo una lucertola», «quando tutto è solo in se stesso riposto», p. 92) che una volta Jean-Luc Nancy ha definito come  «fonte di luce» (Ottica, in J.L. Nancy e F. Ferrari, La pelle delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 72). Perché solo nella fragilità dell’«impermanente» può splendere e rinnovarsi «la ghirlanda […] dell’assenza» (p. 117):

 

ma la luce non avrei visto
se non avessi bruciato le carte
un giorno, uscendo per strada
ho sentito di essere nudo.

ma la folgore non mi ha colpito
ho continuato a camminare in silenzio
sulla piazza, già sterminata
al primo sguardo sarei caduto.

e la vita che punge nel vento
scorticandomi vi ha vendicato
quando gli occhi mi ha aperto al canto
di tutto quello che non ho amato.

 

*

 

L’indifferenza naturale di Italo Testa, Marcos y Marcos, Milano 2018

 

 

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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