Risveglio
di Rosella Postorino
Valerio, vieni a bere.
Valerio saltella sulle scarpe da ginnastica, le guance rosse di chi ha corso troppo e ora ha sete. Si avvicina alla fontanella.
Fa finta di schizzarla e lei fa uno scatto indietro, ma le scappa una risata.
Dài, amore, bevi.
Il bambino accosta il viso all’acqua, tira fuori la lingua e lascia che si inzuppi, come i cani.
Carla guarda suo figlio di 10 anni. La bocca spalancata come un’insolente linguaccia.
Intorno alle rive dell’Aniene il verde si estende selvaggio. Carla lo insegue fino a perdita d’occhio.
Valerio, hai finito di be– Valerio!
Lo scarico della fontanella sta risucchiando il corpo di Valerio. Carla nemmeno riesce a urlare, si lancia su di lui nel tentativo di afferrarlo ma fa solo in tempo a vederlo ingoiare dal tombino, il getto dell’acqua che si schianta contro la base di pietra, vuota, senza sosta, mentre Valerio, suo figlio, è scomparso per sempre.
Carla si sveglia con la tachicardia. Di nuovo quel sogno.
Resta immobile nel letto. Sul comodino e alle pareti, la stessa foto in bianco e nero. Il volto di suo figlio diventato una specie di riproduzione in serie. Il viso sorridente di Valerio, un’icona da pop art.
Chissà chi l’aveva scattata, quella foto. La passione per la fotografia era di Valerio, e proprio lì, in un angolo della stanza dove adesso dorme lei, suo figlio aveva creato una camera oscura. Sviluppava le foto scattate con l’attrezzatura che gli aveva regalato suo padre, contento di questa sua passione.
Carla, invece, preferiva lo sport, e suo figlio ne praticava molti. Dal nuoto alle arti marziali. Per anni lo aveva accompagnato a Tor di Quinto, di mattina, durante le vacanze estive. Lei prendeva il sole in piscina mentre lui seguiva lezioni di judo. Poi tornavano a casa, nel quartiere di viale Jonio, a pranzare. Sì, preferiva il suo corpo in movimento, sudato. L’odore che ogni madre respira sul collo del proprio bambino dopo che ha corso. La prova che è vivo.
Sono passati 27 anni. C’è stato il primo cancro, la perdita di suo marito, il secondo cancro. E soprattutto, sempre, quel modo di risvegliarsi. La coscienza di essere stata condannata a sopportare un dolore senza sconti. Col trascorrere degli anni, non più un’ulcera. Solo, una macchia sbiadita sull’esistenza. Per anni l’incendio distrugge paesaggi, sfigura volti, riduce in cenere capelli. Spegnendosi, lascia terre nere, carbonizzate. Diventa un alone, indelebile.
Erano le 12 e 20 del 22 febbraio 1980: a Roma era quasi primavera. Gli alberi di viale Jonio stavano fiorendo, il sole era fermo, pulito come un piatto di ceramica. Carla e suo marito erano appena rientrati. Lei si stava sfilando uno stivale, quando sentì suonare il campanello.
Chi è?
Siamo amici di Valerio, signora.
Ma Valerio non c’è, è a scuola–
Sì, lo sappiamo, ma noi abbiamo fatto sciopero, siamo stanchi, per favore ci fa entrare? Lo aspettiamo qui…
Carla aprì. Fece in tempo a vedere dei riccioli biondi, poi uno strattone la scosse, una mano le coprì la bocca.
Carla, chi è?, chiese suo marito dalla stanza da letto. I ladri, sono i ladri, avrebbe voluto dirgli, ma hanno chiesto di Valerio, hanno chiesto di nostro figlio, cosa vogliono da lui? Carla gemeva contro la mano del biondo.
Erano entrati in tre, ognuno armato di pistola. La spinsero fino in camera da suo marito. Legarono e imbavagliarono entrambi con lo scotch da pacchi, li bloccarono sul letto. Il biondo restò di guardia. Gli altri due rovistavano in camera di Valerio.
Non preoccupatevi, non vi facciamo niente. Vogliamo solo sapere delle cose da vostro figlio.
Suo figlio, volevano vedere suo figlio, non erano ladri e avevano tre pistole, Valerio, che ore sono? Valerio stava per tornare, avrebbe potuto restare a pranzo da un amico, spesso lo faceva, lo diceva sempre all’ultimo minuto, Valerio, andava sempre forte in vespa, lei gli urlava di fare piano, magari fosse caduto dalla vespa, quel giorno Carla sperava in un incidente, tutto purché non tornasse a casa.
Avrebbe voluto guardare in faccia suo marito, cercava invano di dargli una gomitata. Anche lui forse ci stava pensando. Alle foto. Quelle del dossier. Pochi mesi prima, la polizia aveva perquisito la stanza, il dossier era finito in mano alla magistratura. Ai mortaretti fatti con zucchero e diserbante nella campagna di Colle Salario, oh lì non c’era ancora la stazione no, era il 1979, in casa lo zucchero finiva troppo presto, ma Carla non ci faceva caso. E alla pistola. Valerio, per sette mesi il più giovane di Regina Coeli. Lo chiamavano Bombarolo. Quando era stato rilasciato come innocente, Carla non aveva chiesto nulla. Suo marito aveva domandato, Cosa c’era in quel dossier? Solo foto, aveva riposto Valerio. Poi, avevano taciuto. Cosa avrebbero potuto dire? Come si fa a estorcere al proprio figlio la verità?
Carla si appoggia una mano sul petto, il battito è ancora accelerato. Allora non era come adesso. Allora, l’identità di un individuo si definiva soprattutto a partire dal colore politico. Allora, era normale essere schierati. Ma oggi Carla ha dimenticato ogni discussione politica in casa sua. Non ce ne sono mai state. Ricorda solo, di domenica, gli “scontri” tra suo marito, laziale, e suo figlio, romanista.
Quel giorno Carla avrebbe voluto sentire la voce di suo marito, Andrà tutto bene, avrebbe detto, mentre si avvicinava l’ora in cui suo figlio tornava, nel giorno in cui dentro la sua stessa casa non era più lei e nemmeno suo marito ad attenderlo, ma tre sconosciuti col passamontagna che una madre non può nemmeno immaginare cosa vogliano, nemmeno provandoci, nel giorno in cui la sua mente si sforzò di capire cosa stesse succedendo, fino quasi a sfibrarsi, Vedrai, le avrebbe detto suo marito se avesse potuto parlare, è a Colle Salario con la sua ragazza, preferisce fare l’amore anziché mangiare per oggi, tornerà tardissimo, credimi, quei tre si stancheranno, se ne andranno, dopo troveremo una soluzione, poi ci penseremo.
Poi ci avrebbero pensato, se glielo avessero concesso. A come si fa a salvare il proprio figlio dalla sua stessa vita, da un mondo che lo coinvolge senza che forse nemmeno lui lo sappia, perché ha solo 18 anni. Senza che loro ne facciano parte, ne intuiscano i meccanismi. Stranieri, fatalmente. Come si fa, a tenersi stretto un figlio.
Carla sentì le chiavi nella toppa. Il biondo scattò fuori dalla stanza. Grida. Colpi. Un fragore sul pavimento. Ansimi, stridio di corpi.
Così legata, sembrava ancora più piccola. Carla voleva a tutti i costi scendere dal letto.
Mamma, aiutami! Aiuto, mamma!
Si rotolò fino a cadere sul pavimento, strisciò verso la porta e tentò disperatamente di sollevare il suo corpo fino a raggiungere la maniglia. D’improvviso, uno sparo. Un nido di vespe si liberò nella sua testa, le martorizzò il cranio, la nuca bruciava, il fuoco era divampato, l’incendio da estinguere come una pena quotidiana si era appena acceso. Carla si arrampicò respirando a fatica. Col mento riuscì a spingere la maniglia verso il basso e aprire la porta.
Un altro sparo. Con la faccia al pavimento, Carla vide le loro scarpe correre via, fuori, l’attaccapanni in ferro rivoltato per terra e, oltre l’ingresso della sala, la testa appoggiata sul lato destro del divano, lì dove adesso c’è un gattino di pezza, Valerio, il suo bambino. Quello che rideva forte di lei quando erano stati a Venezia, e i piccioni di piazza San Marco si posavano sul suo cappello e lei li scacciava con smorfie di disgusto, un po’ perché era schizzinosa, un po’ perché era una gioia impagabile veder ridere così il proprio figlio. Valerio, in uniforme da judo, la nuca odorosa di palestra e di movimento e di tensione per la gara. Di vita.
Valerio era riverso sul divano, rivoli di sangue dalla bocca. Il primo colpo era entrato nel muro. Il secondo dentro la sua nuca. Aveva cercato di scappare, uscire sul balcone che circondava l’appartamento, arrivare in camera dai suoi genitori, sapeva che l’avrebbero protetto, c’erano i suoi genitori in casa, nessuno avrebbe potuto fargli del male, c’erano loro, l’avrebbero salvato.
Carla si copre gli occhi con le mani. Non piange. Non ha mai pianto.
Dopo c’erano stati i vicini, l’ambulanza, la Digos, lei che implorava lasciatemi andare da mio figlio, loro che continuavano a fare domande, lo sapeva che non si sarebbe salvato, ma voleva stare con lui mentre moriva, con lui mentre sull’ambulanza quello che era suo figlio si trasformava in un cadavere, così scrissero sul resoconto del Policlinico al suo arrivo: cadavere.
Carla si copre fino alle spalle. Nel parco dell’Aniene, il getto d’acqua sulla pietra vuota, per sempre. L’acqua che si schianta, senza tregua, ogni giorno, sulla pietra nuda delle fontane di Roma.
[Questo racconto, dedicato a Carla, madre di Valerio Verbano, ucciso il 22 febbraio 1980 a Roma, è apparso su “la Repubblica – Cronaca di Roma” del 17 agosto 2008].
C’è una riga, terribile. “Mamma, aiutami! Aiuto, mamma!”. A volte leggo frasi come queste e sento un dolore serio, vero, come se fossero dette a me, in questo momento. Come nel racconto di Dalcielo: vivendoci dentro – ma i nomi ci sono, e sono sempre miei.
Io scrissi di altri omicidi, e mi piacerebbe parlare di Fausto e Iaio, Marta Russo, altri. Qualcuno disse che le ferite possono diventare feritoie.
Bel pezzo, e soprattutto importante. E’fondamentale ricordatre chi morì di politica in quegli anni senza mitizzare e cercando di capire cosa accadde veramente, perchè, purtroppo, certe categorie, certi modi di agire e di pensare, generati da quella violenza sono ancora presenti. E troppo spesso i carnefici sono trattati come eroi romantici e i giovani, i miei coetanei, digiuni della storia di quegli anni ne apprezzano le gesta e vorrebbero emularli.
È una prospettiva inedita? È mai stato raccontato prima d’ora questo fatto declinato al femminile-materno? Dal punto di vista di chi è sopravvissuto per convivere quotidianamente (certo senza alcuna retorica) con l’incendio del proprio sangue? Non so. Di sicuro è interessante. Non esaurisce tutto ciò che una esecuzione infame e inspiegata porta con sé, ma ne mostra un aspetto preciso, un filo narrativo commovente e umano. Mi son perso la Repubblica romana del 17 agosto. Brava Rosella. Grazie a Franz Krauspenhaar per aver riproposto l’articolo-racconto di Rosella.
E’un racconto che ho letto assorta nella vicende, lo svolgimento dei fatti.
Nello stesso momento si intreccia il dolore della madre.
Un racconto che accattiva e stravolge il cuore.
La prima immagine di freschezza ( purezza, innocenza del gioco con l’acqua) si oppone all’immagine dell’incendio ( il ricordo brucia).
Complimenti per il post.
cara véronique, la ringrazio per questo commento. la so lettrice molto attenta di nazione indiana, e quindi mi fa piacere che abbia lasciato una sua impressione.
caro roberto, non so se è una prospettiva inedita, di sicuro è quella che mi è stata più a cuore. per il modo in cui la morte è avvenuta, non ho potuto fare a meno di pensare a quel dolore, al dolore della madre, impotente nella sua stessa casa. a prescindere dalle implicazioni politiche, quello che più mi sconvolgeva era l’impossibilità dei genitori di salvare i propri figli da se stessi, e dal mondo. l’impossibilità degli esseri umani di salvarsi, nonostante il sangue e la carne, nonostante l’amore. il mistero che un figlio non smette di essere, come ogni essere umano di fronte a un altro.
Grazie per il tuo commento Rosella e la sensibilità che hai analizzando l’amore materno; un amore che entra nel cuore di tutte le donne.
Per ragioni anagrafiche, Rosella non ha respirato l’atmosfera di quegli anni, ma ne ha colto un aspetto essenziale, la rimozione. Nella prima parte del racconto, predominano immagini vivide di un’ attenzione trepidante della madre verso un bambino vivace, che si schizza alla fontanella, si scalmana nella corsa, nello sport. Si intuisce una comunicazione continua, una complicità tra i due. Durante i cosidetti anni di piombo, lo scambio cessa. Attenzione. Ci troviamo di fronte a una famiglia unita, dove circolano affetto, fiducia. Dove si parla, c’è calore, ci si aiuta. Niente a che vedere con gli sfasci di coppie in cui i ragazzi finiscono in balia di sé stessi. Un ragazzo normalissimo, che si scontra col padre sulla Roma e sulla Lazio, un certo momento si mette nei guai. Niente di irreparabile, ma di serio, si. Roba di qualche mese a Regina Coeli. Successivamente prosciolto. C’è un dossier di mezzo, ma che importanza può avere un dossier preparato da un ragazzino? Stanche domande da parte dei genitori, risposte evasive del ragazzo. Disarmati, i due. “Cosa avrebbero potuto dire? Come si fa a estorcere al proprio figlio la verità? Allora non era come adesso. Allora, l’identità di un individuo si definiva soprattutto dal colore politico.” Identità, colore politico. Cose grosse, di fronte a alle quali ci si ritrae con sgomento, un senso di impotenza, addirittura di timidezza. La rimozione nasce da qui e si cela dietro cortine fumogene consolatorie. Purché non si metta ancora nei guai, ma no non lo farà, la lezione gli è bastata. Promettimi. Si mamma ti prometto. Dialogo immaginario ma plausibile. Anche perché ciò che avviene nel giardino segreto della cosiddetta politica, è davvero segreto, non traspare nei comportamenti familiari. Un ragazzo normalissimo, come tanti altri, probabilmente anche meglio di tanti altri. Che viene freddato in casa, davanti ai genitori, forse per un dossier: un dossier preparato da un ragazzino di 18 anni. I killer si muovono con fredda determinazione, da professionisti. Simboleggiano una crudeltà inutile. Un connotato costante dei crimini di quegli anni, a cui Rosella forse non ha pensato, ma che ci ha fatto intravedere. La futilità.
caro ivano, certo: è giusto parlarne. anzi, mi piacerebbe leggere quello che hai scritto.
>un dolore senza sconti.
E’ un dolore che si fatica perfino a esprimere, è complicato trovare i margini e lì fermarsi per seguirli.
E’ una narrazione che non da tregua, e ‘quella’ madre a tratti può chiamarsi Carla ma anche Martina o Rita o Barbara. E’ il ‘non poter’ che mi è arrivato addosso, leggendo. La consapevolezza di essere solo spettatore, pur avendo generato, amato infinitamente e desiderato di dare tutto per.
Ci sono si, tragedie che restano a galleggiare nelle memorie, impresse tra infiniti srotoli di notizie che sono lampeggi temporanei. Arrivano, investono poi muoiono, dentro e fuori di noi. Altre però, fortunatamente no. Fortunatamente qualcuno le ricorda, pensa, prova a ricostruire a immaginare, a ‘entrare’ in tragedie destinate a rimanere aloni indelebili.
Narrazioni come questa ci fanno bene, non solo perché lo stile colpisce, scheggia e scalfisce. Ma perché ci umanizza, ci riporta a quando i fatti, le parole, i dolori avevano ancora sensi precisi, riconoscibili (era ieri? Dieci anni fa? O stamattina?). E’ importante parlarne, anche così, attraverso gli occhi di chi non c’era ma ha saputo ascoltare, ha tentato.
Troppo spesso guardiamo e ascoltiamo senza vedere tanto meno sentire. Troppo spesso i volti, le voci, le storie, la ‘fantomatica’ cronaca, diventano solo contenitori vuoti, sterili, dimenticati. Soprammobili di giornate frenetiche e scadenze.
>Poi ci avrebbero pensato, se glielo avessero concesso. A come si fa a salvare il proprio figlio dalla sua stessa vita, da un mondo che lo coinvolge senza che forse nemmeno lui lo sappia, perché ha solo 18 anni. Senza che loro ne facciano parte, ne intuiscano i meccanismi. Stranieri, fatalmente. Come si fa, a tenersi stretto un figlio.
Credo sia una delle domande, dei timori, che più insidiano e tolgono sonno e tranquillità a un genitore. La consapevolezza che si cresce, si cambia. Che non è possibile prevedere o prevenire tutto. Che i figli scivolano, cadono, e possono anche non riuscire a rialzarsi. Ma soprattutto che un genitore non può tutto, non quanto vorrebbe. Che nulla può essere dato per scontato, a dispetto delle convenzioni che ragionano per ‘buona educazione’, contro le ‘cattive compagnie’ e di ‘genitore presente’ contro ‘il menefreghismo moderno’. A dispetto di ‘certe’ regole, ci sono risvegli che restano eterni, dentro di noi
L’odore del collo sudato del proprio figlio è il più buono del mondo.
E l’immagine di una madre chiusa in una stanza mentre quel figlio, il suo bambino dietro la porta viene ammazzato, piega le ginocchia.
Riesce davvero a colpire forte questo racconto. Attraverso il racconto di una vita che non sembra uscire dai ranghi della normalità, in cui l’attività politica sembra, tutto sommato, più marginale della passione per la fotografia, l’avvento della morte piomba dall’alto, imprevedibile e feroce come un meteorite. E lascia un cratere di terra bruciata, incolmabile.
Bravissima Rosella.
grazie sabrina (che sei anche una madre oltre che una scrittrice).
UNA VERA FOTOGRAFIA NON RIVELA IL MONDO, LO REINVENTA
Le dareste in mano la vostra storia?
Non vedete i suoi occhi dietro lenti fumè, lei vi sta guardando.
Che luce filtra dietro quegli occhiali?
Un destino tramonta, ripiomba nel buio, cade, si rialza.
Cosa si nasconde dietro la curva della strada?
Non importa. Troverà il suo senso, ci crederete anche voi.
Un’altra (vostra) storia.
Così succede quando Rosella scrive.
Raccontino da terza media, o giù di lì. Pieno di puntualizzazioni patetiche e didascaliche:
“Carla si copre gli occhi con le mani. Non piange. Non ha mai pianto…”
Che vuol dire che non ha mai pianto? Che delle volte si soffre di più non piangendo? Sarà mica che la donna è semplicemente sotto shock? La precisazione è da dilettanti, come molte altre.
Dopo c’erano stati i vicini, l’ambulanza, la Digos, lei che implorava lasciatemi andare da mio figlio, loro che continuavano a fare domande, lo sapeva che non si sarebbe salvato, ma voleva stare con lui mentre moriva, con lui mentre sull’ambulanza quello che era suo figlio si trasformava in un cadavere, così scrissero sul resoconto del Policlinico al suo arrivo: cadavere.
Questo è patetico, vorebbe scavare in fondo a qualcosa, ma non si sa che cosa.
Carla si copre fino alle spalle. Nel parco dell’Aniene, il getto d’acqua sulla pietra vuota, per sempre. L’acqua che si schianta, senza tregua, ogni giorno, sulla pietra nuda delle fontane di Roma.”
Lo sappiamo tutti, Rosella, cosa si prova davanti alla morte di una persona che si ama. Il resoconto spicciolo di un sentimento del genere non ha ragion d’essere, specie se è intessuto dei più umilianti luoghi comuni filtrati da Dawson’s creek su tale circostanza. Alla letteratura si chiede davvero altro (la lingua, il dettaglio VERO, la visione, una giusto uso delle subordinate, la suspense, il coraggio…)
Niente contro Rosella, il commento può essere rivolto a molti altri scrittori.
Innazitutto, per un commento come questo, così “pesante” (e lo dico senza ironia) sarebbe forse più ragionevole usare il proprio nome e cognome.
Lei, Stella, avrebbe più forza diciamo così “contrattuale”.
Ora, io non so come sono i raccontini di terza media. E’ passato troppo tempo, più che altro.
A me, sinceramente, questo non pare un “resoconto spicciolo”.
Cosa si chiede davvero alla letteratura. Beh, non le si chiede nulla, a mio parere. Ci sono i gusti e i disgusti (come i suoi in questo caso).
Niente contro Rosella, lei dice. Posso anche crederci, in fondo lei non dimostra acrimonia contro l’autrice, lei se la prende con il racconto.
Ma se il commento può essere rivolto a molti altri scrittori, sarebbe interessante, e forse istruttivo (e anche qui, nessuna ironia) conoscere altri nomi, altri titoli, altri brani. Una breve selezione potrebbe bastare.
Altrimenti non si riesce a capire se questo è un attacco alla persona mascherato da arringa difensiva per le ragioni della Grande Letteratura (come io sospetto, e questo sarebbe davvero di cattivo gusto) o a un certo tipo di descrizione della realtà da Dawson’s Creek che lei qui, maledettamente a torto, ravvede.
Se le va.
cara stella, la precisazione del “non pianto” non vuole essere niente, se non semplicemente riportare una cosa vera: carla verbano non ha mai pianto, lei stessa me lo ha detto più volte, e stupita. ha avuto due cancri, dopo l’accaduto, lei crede che sia questo il modo in cui ha sfogato il dolore. per il resto, lei ha ragione di fare le osservazioni che vuole. tutti noi le facciamo, sugli scritti di tutti. “l’uso delle subordinate” mi ha fatto molto ridere, però, in effetti.
gli umilianti luoghi comuni, non so. questo racconto viene fuori da un pomeriggio passato a casa di carla verbano, insieme a lei. il sogno della fontana è suo, non è un’invenzione letteraria (purtroppo). il resoconto della morte e la precisazione del “cadavere”: anche quella è una precisazione di carla verbano, quella parola sul foglio, riferita a suo figlio, inaccettabile: cadavere. ma questo non lo dico per giustificare il mio racconto, nessuno scrittore deve mai giustificarsi, la pubblicazione di un testo dice di per sé quello che l’autore ne pensa, e sarebbe assurdo aggiungere altro. mi dispiace però che si definiscano patetici luoghi comuni il racconto doloroso e vero – perché più vero di così si muore – di una madre su quello che è accaduto a suo figlio. poi sul discorso fra letteratura e verità bisognerebbe aprire altre parentesi, ma diventerebbero saggi, e adesso non è quello che ci interessa. almeno a me.
è sempre complicato scrivere del dolore, perché è molto facile che i lettori usino le parole che ha usato lei: patetico, innanzitutto. ne parlavo proprio ieri notte al telefono con un amico, pensi!
poi, che tutti sappiamo che cosa vuol dire perdere una persona cara, be’, mi auguro che non sia davvero così, per lei: io non lo so che cosa vuol dire perdere un figlio. e sarebbe stato disonesto provare a parlarne senza ascoltare, per ore, chi davvero questa cosa l’aveva vissuta. la cosa che più mi stava a cuore era non tradire quella madre, e lei mi ha detto che non è stato così. per me è sufficiente.
in ogni caso, grazie del commento. e senza ironia, anch’io.
Non è un attacco alla persona, che non conoscevo e di cui ho letto in rete molto bene. Il commento non è pesante e vuole solo esprimere un giudizio sincero su un testo in cui manca la verve. Questo non mette affatto in discussione il talento di Rosella. Sarebbe assurdo giudicare uno scrittore da una paginetta.
Pure per me questo racconto è patetico e banale. Anche se non l’ho ascoltata, immagino che la signora Carla, mentre parlava di questi ricordi, non lo fosse affatto patetica e banale. Immagino che avesse toni e sguardi e modi di muovere le mani o di tenerle ferme che davano un’altra forma alle sue parole. Queste cose qui non ci sono, per lo meno io non le ho lette.
Forse Stella non ha capito di trovarsi davanti a un “resoconto”, piuttosto che a un “racconto”.
Vero: sempre “conto”è.
Soltanto che nel racconto la “verve” è un belletto. Ce la costruiamo, stando attenti al “giusto uso delle subordinate”, in modo da conquistarci la piacevole ammirazione dei lettori.
Ma quale verve nella descrizione di un testa spappolata. In un cadavere sporco di sangue? Vero.
A quali subordinate dobbiamo stare attenti nel rendere conto del dolore di una madre per la morte di un figlio? Un dolore che non si placa.
“Patetico”, è patetico sottolinearlo, viene da “pathos”, “sofferenza”. Perchè è spregiativo?
Dobbiamo vergognarci di soffrire, di farlo vedere?
Vergognarsi del dolore.
Esiste anche una forma di fascismo, machismo letterario?
“Un, due, tre, Stella!” :faceva parte di un gioco, questo sì infantile.
La prossima volta, ripensaci tre volte, Stella, prima di sparare.
Resto sempre stupefatta e mai assuefatta di fronte a certi commenti come quelli di Stella che mettono le subordinate come top della vita, quelle persone che vogliono fare le maestre con la matita rossa impugnata al posto del coltello.
Rosella ha saputo magnificamente raccontare una cosa tragica con una voce sublime. Ho sentito tutto il dolore e l’amore di una madre per la morte così violenta del proprio figlio. Ciao Lucia
@giulia brandini, scusa ma che cosa significa il tuo commento? il “modo di muovere le mani”? il racconto è narrato non dal punto di vista di un osservatore che ascolta un soggetto raccontare ma dal punto di vista del soggetto stesso in terza persona; non si capisce quindi che volevi dire. ti sei confusa?
in ogni caso, il dolore è molto più banale di quanto ci piacerebbe pensare per dare alla Letteratura (!) quell’apparato intellettualistico e “innovativo” che ci fa sentire tutti più intelligenti, e originali. spiacente, ma è così.
Se è un resoconto veritiero di ciò che ha raccontato quella povera mamma, allora siamo di fronte a un pezzo giornalistico. Molto efficace, molto toccante per molti aspetti. E fin qui tutto bene. Il problema è che di racconti giornalistici di questo tipo ce ne sono a migliaia. E forse anche di più tragici e commoventi. Basta seguire i reportage dalle zone di guerra di questo pianeta, tanto per fare un esempio. Quindi niente di nuovo sul fronte occidentale.
Forse nel commento critico si aveva in mente la letteratura moderna che riesce anche a raccontare la nostra storia, il dolore, i rapporti interpersonali. Tipo “Il cacciatore di aquiloni” per intenderci. Ma non credo fosse questa l’aspirazione del testo qui presentato, anche se comunque senza una precisazione è facile essere tratti in inganno.
E vabbè, è un racconto bellissimo, scritto benissimo. con cose del tipo “Ho finito di be-” che vorrebbero essere originali, forse, ma risultano un tantino datate. Le faceva la Santacroce una quindicina abbondante di anni fa. Allora: se io racconto la mia storia a uno scrittore e dico “Ho sete. Ho sempre sete, con questo caldo”, il dilettante scrive: La donna ha sete, ha sempre avuto sete, un caldo fortissimo le prende alla gola.”
Lo scrittore scrive “La donna, assettata, ricorda il caldo che negli anni le ha martoriato la gola…”
>Allora: se io racconto la mia storia a uno scrittore e dico “Ho sete. Ho sempre sete, con questo caldo”, il dilettante scrive: La donna ha sete, ha sempre avuto sete, un caldo fortissimo le prende alla gola.”
Lo scrittore scrive “La donna, assettata, ricorda il caldo che negli anni le ha martoriato la gola…”
Non capisco – davvero – per quale motivo se c’è la possibilità di commentare uno scritto (di qualsiasi natura, genere, stile, tematica…) si debba finire per fare i ‘sapienti’ a tutti i costi. Chi l’ha stabilito?
Stella spiega:Il dilettante scrive…
Lo scrittore scrive…
Dov’è che si trovano i comandamenti universali che decretano queste distinzioni?
Ma soprattutto: partendo da uno scritto (con precisi connotati poi spiegati dalla stessa autrice, ok) come si fa a stabilire cos’ha davvero raccontato, detto, la reale protagonista a chi, poi, ha scritto la storia?
Possibile che sia davvero questo l’unico modo per esprimere un’opinione?
Quello che si legge può non piacere, non colpire, non lasciare nulla, non interessare, stonare per stile o approccio, sembrare eccessivo, volgare, pretenzioso… va bene tutto secondo me, nel senso che ognuno ha il diritto a ragionare con la sua testa.
Però mettersi in cattedra non è obbligatorio. Mi sembra distruttivo e basta, cara Stella.
Poi, libertà va bene.
Ma il rispetto mai?
Che non vuol dire fingere un piacere non provato, scrivere ‘bene’ di qualcosa che invece non è piaciuto per niente.
Per me vuol dire esprimere opinioni – libere, si – ma senza ‘prendersi’ ruoli al di sopra, senza usare sarcasmo e ironia come armi, senza stabilire confini o limiti che, in realtà, non sono per niente oggettivi (in letteratura almeno).
… ognuno ha il diritto di ragionare con la sua testa.
Mi scuso per il refuso.
quanto è inutile, stella, questo tono. questo racconto non ha nessuna ricerca di originalità, glielo assicuro. è un racconto semplice. nasce per entrare in una pagina di quotidiano, ha un limite di battute imposto e una traccia precisa: raccontare la storia di una donna di roma. non mi sembra che nessuno lo abbia presentato dicendo: signori e signore, ecco a voi un esempio di Grande Letteratura, né abbia definito me una Grande Scrittrice, quindi non si capisce con cosa si stia scontrando. con un pre-concetto, probabilmente. lei ha trovato un racconto, che non ha grosse pretese (e cercare l’originalità nel tentativo di dare nel modo più semplice possibile l’idea di un discorso spezzato mi sembra assurdo, e mi preoccupa la sua idea di originalità), solo quella di raccontare una storia vera da un parziale punto di vista, molto parziale, e di solito uno che legge o si sente toccato oppure no, poi quando si accanisce vuol dire che c’è dell’altro. l’ho sempre detto, l’accanimento contro gli scrittori ha qualcosa di irrisolto dietro, quantomeno una specie di condanna per essersi permessi di credere di avere il diritto di pubblicare.
in ogni caso, a me il periodo che lei attribuirebbe a un grande scrittore (e lei deve dunque esserlo, se è riuscita a produrlo, e in modo così istantaneo, e solo per fare un esempio fra tanti), non piace di più di quello precedente. ciò che mi stupisce è che ci si ostini ancora, nel 2008, a oggettivare il gusto in teoria della letteratura.
sa, però, c’era anche chi diceva: non riesco più a leggere i libri. è per via delle frasi.
le ho risposto perché ho risposto a ogni commento, però non mi va di fare un dibattito che assomiglia a un’autodifesa, perché davvero è una cosa che non tollero. mi perdoni, dunque, se non riuscirò a rispondere oltre.
(mi scuso per eventuali refusi, la tastiera non funziona bene).
Cara Rosella
non sono una scrittrice. Non sono un critico.
Penso solo che chi scrive con il cuore e’ sempre da apprezzare.
Mi dispiace per certi commenti letti quissu’. Non conosco personalmente Carla ma ho un affettuoso scambio di opinioni sia attraverso la sua mail privata che sul blog. Carla ha apprezzato sicuramente il Tuo racconto. Questa e’ la cosa piu’ importante, secondo me.
Ciao.
Patrizia
Certo. E poi esiste una cosa che si chiama sensibilità. E un’altra che si chiama senso delle cose. E un’altra che si chiama senso delle proporzioni.
E magari se un racconto, uno scritto, una poesia, un rutto, un addio, un “torno subito” non piacciono, si può pure tacere e passare ad altro.
patrizia, che piacere. grazie davvero.
conosco Carla e conosco la terribile vicenda della famiglia Verbano.. A me lo scritto è sembrato ben fatto, soprattutto coerente con l’immagine che ho di questa donna offesa dalla vita.. Di letteratura non ne capisco, non sono in grado di giudicare, ne voglio farlo. Quello che mi colpisce è la facilità con cui una “storia” così terribile, ma pur sempre vera, passi in secondo piano rispetto ad una polemica sul come si deve esprimere uno scrittore piuttosto che un giornalista.. Vorrei solo ricordare che in tutta questa vicenda Carla aspetta ancora uno straccio di giustizia.. pensiamoci ermanno
Personalmente non ho alcuna ambizione di scrittura. Sono cresciuta leggendo molto, tutto qui. Non ho mai scritto un racconto in vita mia, e se lo facessi il risultato sarebbe più che mediocre, se non addirittura pessimo. Ciò non togliere che io possa esprimere un giudizio critico su un raccontino scipito, il che non giustifica, da parte mia, nessuna mancanza di rispetto. Voi siete irrispettosi nel giudicare passabile quello che non lo è. E’ rispetto per il buon gusto, per la cultura.
ktauspenharr ma tu stai sempre in mezzo come il prezzemolino? Che lavoro fai, giochi nella nazionale indiana?
Rispetto per il buon gusto? Per la cultura?
A me sembra che Stella abbia solo voglia di farsi notare. Quale sia il fine non riesco a capirlo. Saro’ dura io…..
Stella, è domenica e mi diverto con i miei amichetti. Se non le piacciono le critiche io non so cosa farci.
E lei che lavoro fa?
Rossella:
«L’ho sempre detto, l’accanimento contro gli scrittori ha qualcosa di irrisolto dietro, quantomeno una specie di condanna per essersi permessi di credere di avere il diritto di pubblicare».
Franz:
«E magari se un racconto, uno scritto, una poesia, un rutto, un addio, un “torno subito” non piacciono, si può pure tacere e passare ad altro».
L’accanimento contro gli scrittori… Tacere… Un tema ricorrente ultimamente su questo blog. Però: un diritto alla critica ci deve pur essere, no?!
Ovviamente vanno censurati (in senso lato) gli attacchi personali ingiustificati, però ci si deve pure poter aspettare qualche opinione diversa da quella dell’elogio! Mi ricordo il caso di Christian Raimo prima che uscisse da NI: i commenti ai suoi scritti erano sempre più spesso o elogi acritici o feroci attacchi personali. Però Raimo raramente rispondeva alle provocazioni, e le sue sporadiche repliche erano sempre nel merito delle questioni.
Credo insomma che se qualcuno, in maniera civile – in maniera civile lo sottolineo – esprime un’opinione personale, anche di carattere estetico o tecnico, lo scrittore che ha pubblicato il post ha il dovere di spiegare il suo punto di vista e di cercare di farlo capire anche agli altri. Non deve prendere subito d’aceto. Altrimenti è inutile lasciare i commenti aperti (come hanno fatto i “fuoriusciti” del Primo Amore).
Mi scuso se intervengo di nuovo, poi mi taccio.
Cristoforo, ma qui di critiche io ne leggo parecchie. Da anni. E poi, mica siamo tutti come Raimo, purtroppo. Ognuno ha il carattere che ha.
Una critica la si può esprimere in molti modi, però.
Ma del contenuto del racconto della Postorino ne vogliamo parlare?
Vogliamo anche parlare del fatto che parla – tra l’altro – di una madre che ha perso suo figlio? E che questa madre, forse, dico forse, potrebbe leggere questi commenti?
Sono cose di secondo piano, queste? Sono cose subordinate alle “subordinate”? Mettersi nei panni del’altro è così difficile?
Solo questo.
Vado a lavorare, davvero.
cristoforo, ma certo, ma chi ha detto che non si debbano fare delle critiche? per carità: l’ho detto dal principio: ognuno ha il diritto di pensare e scrivere quello che vuole sugli scritti di altri. né io né franz contestiamo questo. io non contesto nulla, tra l’altro. parlo di accanimento. che è diverso dalla critica. ha del livore in più. come se fosse stato offeso qualcosa o qualcuno. è che io non credo che la letteratura sia questione di vita o di morte, anche se ci lavoro, del tutto affondata dentro. per questo difficilmente mi accanisco contro i libri degli altri, contro la scrittura in genere. è altro che mi fa fare aceto, come dici tu, credimi.
Caro Krauspenhaar,
parlare di una madre che ha perso il figlio lo si faccia in altra sede. Questo vuole essere un blog di letteratura. Se la mettiamo su questo piano. Non significa, se uno parla di una cosa importante, che l’ha necessariamente scritta in maniera importante.
Sono molto amareggiata per i commenti di Stella,forse non ha figli,e non può comprendere il dolore di una madre che, vede morire suo figlio davanti ai suoi occhi,per questo non può capire,il raccontodi Rossella è cominciato con un sogno ricorrente che faccio,tutto quì.io sono soddisfatta di ciò che ha scritto,bravissima,dei commenti negativi degli altri, a me non interessa. Grazie Rossella sei una persona sensibile e umana,e questo basta Carla Verbano
cara carla, grazie. mi dispiace, non avrei mai voluto che se ne parlasse in questi toni, mi avrebbe fatto piacere che si parlasse di valerio e non di stile, è per questo che ho scritto il racconto: perché si continuasse a parlare di tuo figlio, per dare un contributo, anche piccolo, alla tua battaglia. all’inizio sembrava che il testo fosse stato recepito così. dopo ci si è concentrati su altro. è giusto che ognuno esprima i giudizi che vuole, e custodisca personali gerarchie di valori, anche incondivisibili, lo dico con sincerità. io mi rammarico solo di non essere riuscita a dare un’occasione a valerio, e ai ragazzi come lui, che si parlasse davvero di loro, e questo forse è un demerito. ma grazie, grazie ancora di essere intervenuta.
stella, o stello, perché ti dà così fastidio? hai trovato un racconto bruttino sulla tua strada, può essere fastidioso, per carità, ma puoi anche superare l’impasse. perché insisti così? davvero stento a credere che non ci sia altro, oppure, ti prego: spiegami. “trovare altra sede”? ma entra nella redazione di nazione indiana, almeno, così potrai legittimamente selezionare testi a tua volta, e scartare ciò che è talmente butto da turbati a questo modo.una frase così perentoria, “trovare altra sede”, detta dall’esterno, la trovo aggressiva, di un’aggressvità che non riesco a comprendere. e poi, io mi rivolgo direttamente a te. e tu ti rivolgi sempre ad altri. mi sfuggi. è proprio bizzarro, stella, o stello.
Sono molto amareggiata per i commenti di Stella,molto probabilmente,lei non ha figli,quindi,non può capire il dolore di una madre,nel veder morire di fronte ai suoi occhi il proprio figlio,le auguro di non doverlo mai provare,Rossella ha scritto il racconto,basandosi su un sogno mio,ricorrente,e ha scritto un bell’articolo,a me è piaciuto,e dei commenti negativi,non me ne importa niente,Rossella è una persona molto sensibile e umana,cose che mancano a Stella. Grazie Rossella Carla Verbano
Un po’ mi annoiano questo genere di polemiche, confesso. Di solito smetto di leggere dopo tre commenti ed è quello che farò. Però, prima, vorrei dire una cosa soltanto.
Leggendo questo racconto. e conoscendo la scrittura di Rosella Postorino, sono rimasta sorpresa dallo stile, molto meno “colorito”, evocativo e lirico, rispetto a quello di La stanza di sopra, romanzo che ho amato moltissimo.
Mi sono chiesta il perchè di questo tono così “asciutto”, e l’ho trovato, o credo di averlo trovato, nella parentesi quadra che chiude il racconto.
Una parentesi che pesa come un macigno.
La spiegazione che mi sono data ha un solo nome, che è “rispetto”. Rispetto di Rosella Postorino per un dolore enorme di madre, ma anche rispetto verso una donna e le sue immagini, i suoi sogni, il sapore (così sobrio e asciutto) del suo dolore.
Si può stare per ore a parlare di virgole e di subordinate, forse questa sarà anche la sede più adatta. Scrittori o scriventi di varia natura e aspirazioni che si fanno le pulci l’un l’altro, benissimo, va tutto bene finchè ci si diverte.
Ma in questo caso, in questo particolarissimo caso, c’è una scrittrice (bravissima, ma i gusti sono gusti e io rispetto quelli di tutti, e quindi sto parlando per me e punto) che ha messo la sua penna a servizio di una storia da ricordare, di un dolore che in pochi, pochissimi possiamo immaginare (fortunatamente per noi) e l’ha fatto (o almeno è questo che io ho percepito) mettendosi da parte, rinunciando al suo “armamentario” di scrittrice, alle belle metafore e alle costruzioni “forti”, l’ha fatto parlando la voce di una madre, una madre che ha avuto la forza e l’impegno di stare ad ascoltare, mentre le raccontava la sua storia.
Questo, per me, essendo esseri umani prima che scrittori o presunti tali, o lettori, o sedicenti tali, questo, dicevo, ha un valore. Grande.
Certo, a tirare fuori la penna rossa e fare i cerchietti sulle virgole c’è più gusto, capisco, per cui vi lascio pure fare.
Mi dispiace, sul serio che la signora Carla Verbano si sia trovata a passare di qui, questo sì.
Rosella, ciò che hai scritto e come lo hai scritto per quanto mi riguarda va benissimo. Valerio vien fuori dalle righe in tutta la sua fragilitàdegli anni e anche il dolore della madre, per quanto difficile sempre da decrivere, rimbalza sulla pelle di chi legge con la sensibilità dovuta al caso.
un caro saluto
jolanda
Chiedo scusa alla signora Carla se l’ho offesa in qualche modo, comunque indirettamente. Credo di poter solo intuire il dolore che ha passato. Il mio attacco non era rivolto al contenuto del racconto, mi pareva anche evidente. Non mi sarei mai permessa.
Ma la cosa che qui più disturba non è l’aver messo in discussione (ammesso che io l’abbia fatto!) il contenuto del racconto, ma la forma, dicendo che è mal scritto. E questo continua a far ciarlare la Rosella, che se le si fosse detto quant’è brava, anche se il contenuto non va, avrebbe taciuto. Il racconto è scritto male, anzi, è un raccontino come tanti, come quelli della Tamaro, che infestano la rete e basta. Non ho nulla con Rosella, ma uno non può dire che è un brutto racconto?? Oh, ma scherziamo? Non mi piace, non piace a me. Punto. Arrivederci.
-una scrittura di sottili equilibri-
ho letto il racconto di rosella p. con la pelle accapponata.
come un’attrice, per entrare in un ruolo, deve essere in grado di mettere a tacere il proprio io per non rischiare di “sporcare” la parte. cosi rosy ha saputo descrivere gli eventi con coraggio ma tenendo le corde della sua voce (autoriale) sommesse/dimesse per dar spazio ai VERI personaggi e al LORO personale dramma: questo significa aver rispetto della scrittura e della vita: mettendo in rilievo, grazie alla sua sensibilità, non solo i fatti ma anche gli stati emotivi delle persone coinvolte. per questo l’ho “nominata” una scrittura di sottili equilibri! grazie
Questo racconto non lo trovo “bello” o “brutto”: trovo che sia un racconto che “andava scritto”, grazie a rosella per averlo fatto.
Stella, lei ha perso un’occasione. Per far cosa però non glielo scrivo (esiste l’autocensura).
Stella, Stella, quanta ipocrisia nelle sue parole. Non ho voglia di smontare i suoi interventi, si rilegga lei e compia un atto di onestà, nei confronti della verità. Il suo non è un semplice desiderio di critica ma livore malcelato. Troppo accanimento, troppo assolutismo e troppa saccenza. Pure troppa incoerenza, lei che rivendica l’attribuzione di innocenti commenti e poi usa termini come Ciarlare.
Si può dire che un racconto non piace, si possono anche spiegare le ragioni, ma lei non ha fatto questo, lei ha accusato il racconto di essere banale, anche patetico (lo diceva spesso una mia compagna di classe alle medie, quando voleva darsi un tono). Dice il giusto quando afferma che non è automatico parlare di cose importanti e scrivere un racconto importante, si tratterebbe adesso di capire quale è il suo parametro di qualità. Sarei curioso di sapere se applica sempre questo grado critico.
Rosella l’inizio di questo racconto mi ha tolto il respiro, la storia è drammatica e la disperazione della madre l’ho sentita nello stomaco, come pure l’amore per il figlio. Il dolore di una madre ha qualcosa di sacro, nel suo essere individuale ha qualcosa di corale.
Conoscevo la vicenda, è una delle tante che mi infiammano il sangue di rabbia e indignazione.
Complimenti per averne parlato, complimenti per averlo fatto in una forma che non è la tua solita, complimenti per aver cercato un modo fedele per restituire un’esperienza umana così tragica.
Non discuto dello stile del racconto, non ne ho la volontà di fronte all’importanza ed al rispetto che ho per le persone citate, anche se questo è un Blog letterario… affermo solo l’importanza di portare in ogni luogo la Storia di Valerio e della sua tragica morte per mano fascista, in un periodo, il nostro, in cui nuovi e vecchi fascismi ci vengono riproposti in chiave moderna, ma sempre legata ad una violenza intrinseca, come l’unica soluzione a questo o a quel determinato problema. Perciò ti ringrazio Rossella per aver illustrato il dolore di Carla, ma hai fatto solo la metà del tuo lavoro! Ora dovresti raccontare al mondo chi era Valerio e cosa rappresenta per tutte le nuove generazioni! Buon lavoro!
A leggere questi commenti uno si fa l’idea che tutti i testi che vengono scritti su omicidi, stragi e stermini siano intoccabili. E invece una vocina mi dice che non é così :-)
certo, giulia, che non è così. la sua vocina può gridarlo: ha ragione. però, dopo aver fatto le pulci ed essere tutti consapevoli ognuno delle proprie posizioni e i propri limiti, non si può fare più nulla. se non provare a capire perché quel racconto, che magari ci sembra così brutto, è stato scritto. credo che i commenti intendano questo. provare a capire non risolverà la bruttezza ai nostri occhi, però ci aiuterà a metterci nella posizione di chi ci ha provato, scrivendo, ossia facendo un gesto che non toglie nulla a nessuno e per questo non merita mai livore, a meno che non sia seguito da arroganza, ma non è questo il caso; e nella posizione di chi lo ha ritenuto degno di essere letto. questo non dovrà farci cambiare il nostro giudizio, sia chiaro, ma solo farci prendere il prendibile anche da una cosa che inizialmente ci respinge, se qualcosa da prendere comunque c’è, e se questa cosa non ci è nociva, naturalmente. come nella vita, insomma.
Lasciando stare l’articolo in questione, credo che sia fuori di dubbio che negli scrittori italiani ci sia questa naturale propensione a un “piagnonismo” esasperato. Si pensi al Cerami che scrive la sceneggiatura de “La vita è bella”, tanto per intenderci. E questo credo che sia un “male oscuro” letterario connaturato alla nostra storia, alla nostra cultura, che qualcuno definisce “cattolica” e qualcun altro “catto-fascista”. La famiglia, la mamma, il lavoro, la scuola, e tutti gli stereotipi “intoccabili” che ne discendono. Male che è croce e delizia della nostra letteratura.
Quanto alla vicenda drammatica raccontata nell’articolo, di storie come quella Roma purtroppo in quegli anni ne ha vissute tante, troppe. Si era radicalizzato uno scontro che non risparmiava nessuno. C’erano gli obiettivi “alti”, quelli delle BR per intenderci, ma c’era anche parecchia gente comune che ci andava di mezzo. E la cosa riguardava tanto l’estrema destra quanto l’estrema sinistra. Erano i nostri “anni di piombo”. Si pensi al rogo di Primavalle del 1973 o all’assalto a Radio Città Futura nel 1979, tanto per fare due esempi politicamente “contrapposti”. Quegli anni, e quella brutale radicalizzazione dello scontro ideologico, sono stati superati per fortuna. E questa è stata una grande conquista democratica. Perché la violenza è violenza, e i morti sono morti, e non c’è nessun pensiero degno di tale nome a questo mondo che possa prevedere la morte e la sofferenza come strumento di lotta o di progresso.
Ah Malacarne, ma che te voi smontà tu?
Ciao Cristoforo,
tanto per rispondere alle tue assurde semplificazioni e banalità ti enuncio questa perla di saggezza: “Chi nasce pera, non muore mela!”
Ma ce l’hai un pensiero tuo o copi ed incolli tutto quello che il tuo tubo catodico ti passa nel cervello!?!
Di persone presuntuose, violente e saccenti come te, caro Andrea Senzacognome, ne ho conosciute diverse negli ultimi tempi. Persone che lanciano il sasso e nascondo la mano, e si nascondono. Persone vili, che non hanno il coraggio di argomentare esponendosi, di far capire con umiltà il proprio pensiero, che sanno solo insultare, che esprimo giudizi senza conoscere.
La mia migliore risposta è dunque sintetizzabile nella famosa espressione di Beppe Grillo. A gente come te non vale la pena di dire altro.
Ciao Cristoforo,
la violenza e la saccenza sono solo nelle tue parole, quando, in maniera bieca e insensata, riduci uno dei periodi della storia italiana che ha visto conquiste e lotte per assicurare a chi sarrebbe venuto dopo, ed anche a te, maggiori diritti e libertà, ad un mero scontro tra opposte fazioni!! Sei tu, che, con le tue perle di saggezza, insulti la memoria di quanti hanno perso la vita per mano fascista! Dalla tua citazione capisco anche che sei solo un buffone come la persona che citi e che le tue idee sono esattamente, come ho scritto prima, un rigurgito, neppure rielaborato, proveniente direttamente dal tubo catodico della tua televisione!! Pensaci mille volte prima di offendere, ma soprattutto “pensa”!!! Risulta troppo semplice miscelare insieme i pensieri degli altri!
me ne volevo tacere per non rimanere intrappolato nello scontro tra giovani saggi incoscienti e quelli che invece han raggiunta un’età che ti consente di vedere le cose senza sovrabbondanza ormonale.
ma devo dire a stella e andrea qualcosa. non perchè sarà la verità, ma perchè la loro verve, probabilmente genuina, non cada nella trappola del ridicolo.
a stella volevo dire che quello che ti han cercato di dire, giustamente, è che nessuno contesta la possibilità di critica, ma questa andrebbe anticipata da un “io penso che, a me sembra che, la mia opinione è questa, ecc.”. questo avrebbe dato alla tua critica, il peso che merita, e cioè, che quella è la “tua critica”.
ad andrea invece, che l’offesa e l’ostentata sicumera di chi sa e ha capito senza dire cosa e come, non aiutano a far capire le tue idee; che probabilmente sono ben più articolate e fondate di quanto invece non appaia così.
un saluto ad entrambi
Ciao Cristiano,
ti ringrazio del “giovane”, aggettivo che mi fa sempre piacere! Per quanto riguarda le offese ti devo però contraddire in quanto io le ho subite, essendo stato definito ‘presuntuoso, violento e saccente.. vile’ Non è certo nelle mie intenzioni fare politica in un sito che si occupa di letteratura ed “articoli stipendiati” come in questo nostro caso! Ma sai, leggere certe sciocchezze, mi manda letteralmente in bestia! La mia provocazione e critica ad una visione stereotipata ed omologata, che, comunque, quasi tutti fanno degli anni che vanno dal ’68 fino ai primi anni ’80, visione che riconduce tutto ad uno scontro giovanile tra opposti estremismi fa il gioco di chi persevera nello sfruttamento dell’uomo e quindi non merita rispetto, anzi il mio sberleffo è stato fin troppo sottile! Per una analisi più approfondita di quegli anni ti rimando ad una sede più appropriata: la piazza! Ma so già che tale mia proposta sarà da tutti voi disertata, perché alla piazza preferite il vostro comodo salotto…
se on piazza intendiamo la gente, io ci campo con la gente schiacciata da quello che, dando per scontato che una parola non possa sintetizzare tanta complessità, si può definire “sistema”. ci campo nel senso che ci lavoro, che non si fraintenda.
ebbene se per piazza intendiamo quello, ci sto dentro ogni giorno.
premesso questo, aggiunto che probabilmente il pregiudizio ci ha coinvolti, resta il fatto che si discute di un “pezzo”, e questo innesca discussioni, dibattiti, confronti. che sono una forma di relazione.
e qui le piazze, le genti, i salotti, in qualche modo, diventano individui che comunicano tra loro.
a me serve. e per servirmi di più, necessita della certezza che ogni volta mi cambia di un poco. e che questo succede anche ad altre persone.
il pezzo, mi è piaciuto. e il dolore va scritto e parlato. correndo il rischio di banalizzarlo.
se posso,
Nessuno ha messo a fuoco il fatto grave che il racconto non è ben inquadrato per logiche e regole taciute, immagino io dettate dall’editore, a occhio e per mia esperienza personale su coloro i quali quel giorno hanno acquistato la consueta copia del giornale, pochi hanno creduto con cognizione di cronaca di trovarsi dinnanzi una storia vera, un pezzo sanguinoso dell’Italia più recente e volontariamente nascosta dal potere governativo. Nessuno deve aver ben capito, previa pessima impaginazione (qui perlomeno c’è tanto di foto di Valerio Verbano) che si trattava non di una storia romanzata ma di un ragazzo vissuto di vita vera e morto per i suoi ideali. La Repubblica dovrebbe fare ammenda e dire di aver sbagliato strategia comunicativa, non si introduce un racconto che ad oggi (visto che molti fanno della smemoratezza un piano di chiaro revisionismo) necessità più che mai di un’inquadratura allargata e di un contesto storico preciso. Non mi sembra d’aver visto occhielli che parlassero di Valerio Verbano, del dossier che prese in custodia il giudice Amato. Oggi il giornalismo dovrebbe essere questo, ma non perché prima fosse meno chiaro il suo ruolo (e qui evito di dilungarmi), oggi dovrebbe essere Informazione, e con un racconto sulle Donne di Roma ebbene non ne fa. E’ depistaggio e malainformazione è edulcorare il senso, di un atto o di un percorso che di vita aveva scelto d’essere missione civica. E tutto questo dov’è?
Io, come molti altri, non l’ho visto nemmeno in tralice.
Se poi vige la regola “purché se ne parli”, allora accettiamone i moderni parametri, ma che abbiano ben chiaro l’imprescindibile scopo informativo.
Saluti, Francesca
Cara Francesca,
la tua analisi è lucida e corretta! Non posso che concordare con tutto ciò che hai scritto.
Saluti, Andrea
E comunque, cara Rosella, penso tu abbia sperimentato sulla pelle calabra un disagio amaro da questa metodica espressiva inconsistente. Ciononostante non va generalizzata nel panorama critichese (post-atomico) del tuo racconto.
Una cosa è certa: in pochi conoscono la responsabilità della PAROLA. Ma finché sono i lettori, esercitiamo un atto di comprensione cristiana…
Detto ciò, torno sempre su uno degli aspetti fondamentali e doverosi di chi esercita seriamente la scrittura, e si rifà proprio alla gestione accurata della parola.
La parola scritta è tutto ciò che abbiamo: un possedimento concreto, una configurazione cosmica all’interno di un assolvimento preciso e di alta disciplina letteraria. Un tentativo di comprensione, di discesa agl’inferi -nei parametri del possibile e del non-possibile (uno scrittore serio si misurerà sempre su ciò che è duro, doloroso, scomodo, impossibile)- in questa circostanza precisa “vivendo” ex-novo un avvenimento storico di cui l’autore, nello specifico Rosella Postorino, è tramite “sciamanico”.
Lo indirizza a tutti noi. Perché la Memoria collettiva è un’opera di dedizione verso gli altri; è il percorso su un tratto stradale lunghissimo nel quale inciampi tra screpolature, schegge di marciapiede avariato, o piccole grandi voragini terrene.
A noi toccano anche gli orridi. Questa è la vita.
Lettori e scrittori, postanti e postini telegrafici, umani superdotati di cinismo e crudeltà gratuita per inveire contro il dolore di una madre, per quel tassello di DNA improvvisamente venuto meno (IL FIGLIO, il figlio!). L’immagine costante che devasta il vissuto diurno e notturno incuneato dall’ossessione di chi ha dato vita alla vita; e di qualcuno che ha sottratto vita a colei che l’ha generata per rivelazione e dono d’amore. Carne e sangue, sangue e carne del proprio sangue e della propria carne.
Tu, Rosella, hai compiuto un’operazione coraggiosa. A te va il merito di questo racconto che trova la ragione della sua esitenza radicandosi in ognuno di noi. Ed io ti ringrazio, perché scendere agl’inferi e restituirsi “quasi” integri per amore, è patrimonio etico e di sensibilità grandissimi.
Non è un compitino da terza elementare. E’ dovere di testimonianza, brillantemente assolto dalla forza della tua scrittura.
Un abbraccio forte. E ancora grazie.
Anche io ti ringrazio Rosella. Carla mi onora della sua amicizia e la storia di Valerio fa parte del mio vissuto di quegli anni. E’ importartissimo ricordarLo, gesto coraggioso in tempi superficiali. Il racconto è secondo me molto bello. Non mi azzardo nella critica letteraria perchè non sono all’altezza. E’ bello, scritto bene e raggiunge lo scopo di trasmettere ciò che senti. Brava davvero e grazie.
Con po’ in ritardo, Rosella, vorrei dirti che il tuo racconto mi ha profondamente emozionato. Hai scritto una storia terribile e penso che tu l’abbia fatto molto bene.
Sono rimasta sorpresa nel trovare alcuni commenti che definirei gratuiti e fuori luogo. Ma del resto si perdono fra quelli positivi.
Sei giovane e non hai vissuto quegli anni, eppure sei riuscita a raccontare la spietatezza, l’assurdità di una morte come questa. Così come lo sono state tante altre in quell’epoca. Ma soprattutto mi hai avvicinato al dolore della madre, alla sua impotenza di fronte al destino del figlio. Che è qualcosa di intollerabile. Perciò un pensiero va anche a questa donna che sta ancora soffrendo. Grazie Rosella, davvero brava.