EPITAFFI
di Linnio Accorroni
Se, come suggerisce Nabokov ne ‘I bastardi’, tutti siamo capaci di inventare il futuro, ma solo chi è saggio può creare il (proprio) passato, la sobria compattezza dell’epitaffio è come una specie di cartina da tornasole che serve a valutare empiricamente a quale livello di saggezza si è giunti. In quelle poche succinte frasi che lo suggellano, si deve sintetizzare non solo, ex post, la trama scoscesa o piana di un percorso esistenziale comunque compiuto e definito, ma anche il tentativo di ‘immaginare’ l’imperscrutabilità di quel Grande Nulla che ci attende tutti postmortem. L’epitaffio è quindi contemporaneamente almeno tre cose: un resoconto che richiede efficacia comunicativa e fulminante sinteticità, un bilancio che si dovrebbe offrire al netto di ogni ambiguità e finzione, un viatico tra l’augurale e l’elegiaco ad accompagnare il trapassato in un viaggio di sola andata. Quella prosa scarna, che in alcuni casi sa però essere anche essere ritmica ed avvolgente come un passo di danza, deve comunque affrontare una impresa che pare impossibile: saper condensare e ‘raffinare’, in un certo senso, nello spazio di poche sillabe, il mistero che appartiene ad ogni esistenza umana. Quello che Gianfranco Funari ha voluto inciso sulla sua lapide ‘Ho smesso di fumare’ è dunque solo l’ultimo arrivato di una sequenza lunghissima e stratificata nel tempo: la ‘plurima mortis imago’, cioè i tanti aspetti della morte, come venne chiamata da Virgilio, ha avuto infatti da sempre uno stuolo di interpreti ed autori. A pensarci bene, poi, tutti gli epitaffi, così come accade anche ad altri generi testuali standardizzati dalla tradizione scritta, sembrano fra loro tutti uguali; ma per l’infinità possibilità delle variazioni sul tema paiono alla fine tutti diversi. Uguali per l’intrinseca, necessaria laconicità che li distingue, diversi perché devono fissare quegli aspetti che rendono peculiare ed irripetibile ogni parabola umana. Alcuni poi sembrano addirittura ‘surclassare’ il genere, poiché utilizzano la stessa cadenza meditativa e cerebrale di avvincenti aforismi filosofici: si pensi a quello letto e annotato da Roland Barthes che l’aveva visto scolpito su una tomba di un cimitero di Parigi: “Ieri ero quello che sei, domani sarai quello che sono”. Ma anche a quello stupendo, di cui volentieri mi approprierei quando mi accadrà d’entrare nel paese da cui nessuno ritorna, come sostiene Amleto. È quello scritto sulla tomba di Lucio Pomerio Vittorio Marsico, soldato romano di guarnigione a Reggio, che appare come una coraggiosa e apodittica affermazione di materialismo, tanto più ammirevole proprio perchè fatta in quella ‘zona Cesarini’ in cui, per viltà ed ipocrisia, avvengono spesso conversioni tardive e mistificanti: “credo certe ne cras” (sono sicuro che non c’e domani), sentenzia dalla tomba, con stoica e beffarda lungimiranza, quel laicissimo milite, nostro fratello d’ateismo. Curiosa invece la storia dell’epitaffio di Rilke. La sera del 27 ottobre 1925, a Muzot, Rilke scrive il proprio testamento, e lo invia all’amica Nanny Wunderly. Chiede che gli sia tenuto lontano ogni conforto religioso, qualora non fosse più in grado, a causa della malattia, di rifiutarlo da sé e sceglie il luogo nel quale essere sepolto (una collina accanto a un’antica chiesa). Avanza una bizzarra richiesta: non una lapide moderna, ma una vecchia pietra, dalla quale cancellare ciò che è scritto e incidere un nuovo nome. Un epitaffio-palinsesto. Sulla lapide, oltre al nome e allo stemma di famiglia, una frase di appena tre versi: “Rosa, oh contraddizione chiara, desiderio, di nessuno essere sonno sotto così tante palpebre.” Ma, attraversando celermente spazi e tempi, vale la pena ricordare quello che Sciascia volle scolpito sulla sua tomba: “ce ne ricorderemo, di questo pianeta” frase che lo scrittore siciliano attinse da una delle sue ultime passioni letterarie, cioè il francese Villier de l’ Isle-Adam. Oppure l’haiku di Basho che Tiziano Terzani ha voluto sulla sua tomba: “Dilegua l’eco della campana del tempio: persiste la fragranza delicata dei fiori. Ed è sera”. Ma c’è anche quello lirico ed ultraromantico di Keats che assurge, a dispetto della sua austera brevità, ad una specie di manifesto poetico e generazionale degli eterni outsider: “Qui giace uno il cui nome è scritto sull’acqua”. Oppure quello celeberrimo e citatissimo (spesso anche a sproposito) di Kant: “La legge morale dentro di me, il cielo stellato sopra di me”. Quello desolato e melanconicissimo del cantante suicida dei Joy Division, Ian Curtis che riprende il titolo di una delle più famose canzoni del gruppo: “Love will tear us apart” e ci offre anche un indizio non labile sulle cause del suo suicidio. Un po’ come è accaduto a Primo Levi che volle incisa sulla sua tomba, al cimitero monumentale di Torino, un epitaffio dolente e scabro che recava il suo numero identificativo di Auschwitz: “174517”. Altri invece hanno un tono più scherzoso, un’allure quasi parodica come se si volesse esorcizzare, con una specie di estremo scherno, l’immanente rendez-vous con l’Ignoto. Penso a quello di Walter Chiari: “non vi preoccupate, è solo sonno arretrato”. Ma anche a quello di Dorothy Parker: “Scusate la polvere”; a quello di Duchamp: “D’altronde, sono solo gli altri che muoiono”, per finire con quello di Bernanos: “Si prega l’angelo trombettiere di suonare forte: il defunto è duro di orecchie”. Infine, last but not least, a quello che George Byron, celebre poeta inglese, fece incidere sulla tomba del suo amato cane, un terranova di nome Boatswain: “Qui sono sepolti i resti di uno che possedeva bellezza senza vanità, forza senza ferocia e tutte le virtù dell’ uomo senza i suoi vizi.”
[ pubblicato, con qualche modifica, su Liberazione del 19 agosto ]
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Veramente bello questo pezzo. Bukowski c’ha scritto sulla propria tomba: don’t try. Vorrei solo correggere un refuso: Ian Curtis era il cantante dei Joy Division, non dei Cure. Buona domenica a tutti.
molto suggestivo…
– il mio segreto: sotto un tumulo che non troverete mai –
dice la signora Sibley in una delle duecento e più epigrafi delll’Antologia di Spoon River.
:-)
Bellissimo, devo trovare il modo di rilanciare questo post nel mio blog, dato che il titolo del mia modesta casetta è “Epitaffi” e il riferimento diretto era proprio un inno all’epigrafe e un velato omaggio a Spoon River (oltre che il titolo di una mia poesia). (troppo autoreferenziale? ;-). Grazie ad ogni modo.
Bianca
Come già detto da un commentatore ne “Il Commiato” di Franz,
il 2006 è stato proprio un bell’anno qui…
Ed è di quell’anno, ricordo, l’altro post di Linnio “Eus, tu, viator, veni hoc” .
Comunque ‘Alivella” di Totò rende bene la vacuità di tutto ciò che stà sopra il sepolcro, in ogni senso.
Purtroppo ci sono sempre più marchesi del Grillo che ti guardano, in vita, e ti fanno capire senza nessuna remora: mi dispiace, ma io sò io e voi non siete un c…..
Solo ciò che è sotto il sepolcro rende un pò di giustizia, la putrescenza e la terra che si riprende quel che rimane di noi.
I due epitaffi della poesia di Totò:
“Qui dorme in pace il nobile marchese
signore di Rovigo e di Belluno
ardimentoso eroe di mille imprese
morto l’11 maggio del’31”
“Esposito Gennaro – netturbino”
tutti stanno sulla collina, senza lapidi, ma il loro migliore epitaffio è certo questo:
http://www.youtube.com/watch?v=ngoL4H9byCM
grazie di questo bellissimo post.
Ho trovato l’articolo interessante perché sottolinea la filosofia di ciascuno davanti alla morte. La frase “lapidaire” riassume in un lampo l’ultima saggezza, l’ultimo sguardo. Ma non ci credo. Nella sua intelligenza, la frase non basta a evocare la carne dell’ anima.
In somma, la brevità della frase è un accenno troppo composto.
Credo più nel ricordo affetto, la conversazione che ciascuno coltiva con i suoi morti ( sogni, ricordi, pittura, letteratura).
Forse l’epitafa è l’ultimo orgoglio o l’espressione della voluntà di afferrare il tempo in eternità.
Qui giace Aretin, poeta tosco.
Parlo’ mal di tutti fuorché di Cristo
scusandosi col dir: non lo conosco
Qualche precisazione da pedante riguardo al legionario romano. Si chiamava Lucius Nomerius Vittorinus Marsicus, e l’epigrafe latina è questa: CIL 6.23003. Tabella marmorea in museo Capitolino inter lapides Sartianos (a Roma). La
lapide, quando fu classificata da Bormann nel 1886, non esisteva già più.
Quella ipotizzata “guarnigione di stanza a Reggio”, riportata anche da Remo Bodei in vari suoi testi e interviste, è un’informazione errata, probabilmente nata da una svista: un “regio” (aggettivo) riferito al presidio, non alla città, che rimane, appunto, Roma. Per chi fosse interessato, questo testo fornisce qualche notizia in più: ” La collezione epigrafica dei Musei Capitolini- Inediti – revisioni – contributi al riordino”, a cura di Silvio Panciera, Edizioni Quasar.