Lettera aperta alla comunità maceratese (a tutela di quanto si è lasciato fuori)
[ricevo e pubblico la lettera di Giorgiomaria Cornelio, giovane autore che da due anni vive a Dublino, ma ha vissuto i precedenti 19 a Macerata. E’ un appello complesso, che stasera mi pare tanto più prezioso. Dopo aver vissuto il panico e lo choc di una città sotto assedio ieri mattina, la furia e i fattoidi dei social, la solidarietà irresponsabile di alcuni, e poi le parole semplificatorie e roboanti di vari commentatori politico-televisivi, e ancora la rabbia e l’incredulità a ripensare alla messa in scena dell’attentatore, la foto fattagli in caserma che gira tra i social in stile rivendicazione jidahista, dopo questa massa di pulsioni incontrollate, bisogna subito tornare a pensare, e profondamente, e a rinsaldare una tradizione antifascista e una vocazione all’apertura che qui è ancora ferma, compatta, anche tra i più giovani. rm]
Cari compagni,
la violenza imperdonabile è un sigillo di trascuratezza: consiste, cioè, nel misconoscere con ostinazione il carattere di una città. Nel pretendere, scioccamente, che si faccia parte di una comunità poiché si è italiani, indigeni, figli dei padri. Casa è, piuttosto, il luogo eletto a dimora del proprio nomadismo, del proprio rivolgimento, della propria testimonianza di passo: abitare non solo un paese, ma un’aria che si progetta come indizio di comunità. Macerata abita, da troppo tempo, soltanto la fodera della propria geografia, dimenticando la sua vocazione sotterranea, le sue arborescenze tutte sparse per gli anfratti, le sue presenze e i suoi “roveti ardenti” d’inarrivabile poesia. Per viverla, questa Macerata, occorrerebbe inventarsi (una volta ancora) di essere stranieri nella lettura dei suoi luoghi per restaurare una smemoratezza che è, nello stesso momento, un obbligo a ricordare, a sporgersi un tratto su un istmo di memoria che sempre allude a un oblio d’acqua. Si tratta di farsi custodi di un appello, di appellarsi a quanto per l’immediato ci è sconosciuto, ad una promessa di non appartenenza catacombale. L’unica storia possibile, ora, è la storia dei fiati lasciati fuori, delle testimonianze rimaste inascoltate che pure costituiscono un progetto a venire, e che per questo vanno custodite: una città è quanto sempre veniamo facendo, non quanto è dato per fatto. Un poeta maceratese, Remo Pagnanelli, scrisse:
«Forse, se ascolti bene, c’è l’eco di qualcosa che è accaduto prima e che, non per imitazione, lo ripeto, è innominabile. Altro non esiste e se doveva esserci è restato nel cielo delle infinite possibilità. Cercale anche per me.»
I fatti di questi giorni sono gli indizi di una violenta approssimazione: l’ostinarsi a rivendicare un’identità che sola garantirebbe la qualifica di “veri cittadini”. Ma costituire una comunità vuol dire sfollare la definizione dei suoi dati certi e smentire la naturalità del “primo uomo”.
L’urto sismico costringe a ridefinire la propria geografia nella stessa maniera in cui una scossa sociale dovrebbe essere intesa come radicale occasione per ritrattare i propri modelli: farsi stranieri in casa propria è, oggi, una necessità ineludibile. Un piano di edificazione è possibile laddove si è disposti ad abolire le qualifiche e le specifiche fissate come immutabili, e laddove si è disposti a cercare e a custodire quanto trabocca dalla propria cronistoria cittadina.
Non è più tempo, oramai, di liturgie della distruzione.
Giorgiomaria Cornelio
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quella è una lettera aperta alla comunità maceratese o a un centinaio di eletti professori universitari e gente di quel livello? No, perchè io sono laureato in lettere e per capirla mi sono dovuto fare la parafrasi come si faceva a scuola con la Divina Commedia. Ma qusta dovrebbe essere prosa del 21 secolo rivolta a tutti, e non poesia di 7 secoli fa con quattro livelli di lettura. Se si vogliono fare appelli alle comunità, occorre usare il dizionario di base (e la sintassi di base, ovvero zero subordinate, o una al massimo), altrimenti la comunità te la perdi alla prima virgola.
Giovanni,
comprendo il tuo appunto. Ho scritto altrove, in risposta ad un commento affine: Questa lettera è una lettera scritta a tutela di quanto si è lasciato fuori (fuori dalle ciance, dalle pagine di storia locale e nazionale), della Macerata dei miei primi 19 anni, che è (anche) questa: quella sotterranea dei passaggi di parola alla periferia del senso, dei passaggi ignorati e spesso ostacolati anche dagli eletti professori universitari. Nonna Ivana, con la terza elementare, è per me esempio di accordo tra essere e pensiero: misura esatta. Qui c’è bisogno non tanto di dire , ma di essere manifestazione, ognuno come può, ognuno custodendo i propri fiati inascoltati contro la violenza fascista della naturalità esclusiva.
(non è tempo, mi pare, di fare la conta delle battaglie: io pure ne ho fatte, fin da bambino, per non dire di Macerata quello che solo appare oggi: necropoli).
Giovanni, per farla contenta glielo dico semplicemente: che palle. Sono anni che tutti invocano la semplicità, e ormai non si parla di altro che per slogan. Un ragazzo di 22 anni scrive da lontano ai suoi concittadini, a una città tremendamente ferita, chiedendo di diventare tutti un po’ stranieri, e l’unica cosa che lei sa fare è criticarne la prosa troppo ardita? Comunque, non tema, di letture sul tema ne troverà tanti su Nazione Indiana in questi giorni, ci sarà modo anche di raccontare molto linearmente di come una minoranza neofascista può armare un uomo e può gettare non una cittadina ma un intero paese nel caos.
Giovanni,
comprendo il tuo appunto. Ho scritto altrove, in risposta ad un commento affine: Questa lettera è una lettera scritta a tutela di quanto si è lasciato fuori (fuori dalle ciance, dalle pagine di storia locale e nazionale), della Macerata dei miei primi 19 anni, che è (anche) questa: quella sotterranea dei passaggi di parola alla periferia del senso, dei passaggi ignorati e spesso ostacolati anche dagli eletti professori universitari. Nonna Ivana, con la terza elementare, è per me esempio di accordo tra essere e pensiero: misura esatta. Qui c’è bisogno non tanto di dire , ma di essere manifestazione, ognuno come può, ognuno custodendo i propri fiati inascoltati contro la violenza fascista della naturalità esclusiva.
(non è tempo, mi pare, di fare la conta delle battaglie: io pure ne ho fatte, fin da bambino, per non dire di Macerata quello che solo appare oggi: necropoli).
Non credo che Giovanni – io di sicuro no – preferisca gli slogan di Salvini o i servizi del TG4 ad un pensiero articolato. Personalmente diffido di chi crede di avere spiegazioni semplici a problemi terribilmente complicati – e le migrazioni sono questioni complicatissime -, ma mi permetto io di gridare “che palle” a leggere questa roba. Ma nonna Ivana, così citiamo anche la risposta di Giorgiomaria, pensa di difendere i diritti degli oppressi con i “passaggi di parola alla periferia del senso”?
Certamente, poichè nonna Ivana è esempio di accordo tra essere e pensiero, sempre disposta ad indecidere la comprensione delle cose. Farsi stranieri in casa propria non vuol dire altro che trovare una misura estranea ad un fascismo dato come norma e come grammatica quotidiana.
“e laddove si è disposti a cercare e a custodire quanto trabocca dalla propria cronistoria cittadina.” Immagino i militanti di Casa Pound e Forza Nuova che, dopo aver letto queste righe, corrono a farsi rimuovere le svastiche e i fasci tatuati su crani e bicipiti.
Imbarazzante.
È l’aggettivo più gentile che posso scrivere dopo aver letto questa esibizione del gergo di Giorgiomaria Cornelio.
E l’imbarazzo non riguarda solo chi ha scritto queste righe patetiche e irritanti, ma riguarda Nazione Indiana e la sua assenza di senso del ridicolo.
Alessandro,
Questa lettera non farà magari correre i militanti di Forza Nuova a rimuovere i tatuaggi nazisti (servirebbero ben altre strategie). Pure, essa è testimonianza di un carattere di Macerata che più che mai bisogna tutelare, e che sopratutto mi appartiene, perchè questo è stato il mio andare tra le sue vie. Forse qualche riga di Remo Pagnanelli non farebbe male neanche a lei.
L’inutile salva sempre se stesso.
Ci voleva proprio la disputa sul registro linguistico! Come pure la stizza per la mancanza di una retorica adeguata a Forza Nuova! Chi ne è capace, vada pure a persuadere i sostenitori del neofascista stragista, o magari anche lui. (Nel frattempo proprio quelli di Forza Nuova sono già venuti a fare un giro in paese per dichiarare solidarietà, sostegno di cui sentivamo il bisogno come di quello, che so, di Al-Baghdadi). Qua la necessità era un’altra: ricordarsi che c’è una città – forse più nascosta dell’altra, che è smaccata, ignorante, bigotta e razzista come tante altre province d’Italia – attraversata al cuore dal molteplice e dalla viandanza. Bisogna dirlo, anche in modi complicati, anche in modi idiosincratici. Lasciamo parlare anche i profondi, diamine, che non siano sommersi da questa marea nera.
In questo paese dove impera l’elogio dell’ignoranza, dove abbiamo gli universitari della vita e/o strada che danno lezioni e sentenze, un paese dove lo scrittore che vende di più è Fabio Volo, viva Giorgio che scrive come un poeta, ha sentimenti eletti e riesce a distinguersi dalla massa per classe, cultura e naturalezza. Servirebbero molti più Giorgio in questo paese. Io ti apprezzo.
“viva Giorgio che scrive come un poeta, ha sentimenti eletti e riesce a distinguersi dalla massa per classe, cultura e naturalezza.”
Distinguersi dalla massa in una lettera aperta alla comunità è un ossimoro. Il punto NON è che non parli come Fabio Volo, è che se intitoli un testo “lettera aperta alla comunità” NON puoi parlare un linguaggio elitario. E’ una contraddizione in termini.
La comunità è quanto veniamo facendo, quanto veniamo inventando, Giovanni.
Il punto è l’intolleranza, e non per forza e non sempre marchiata dalla stigmate di fascismo. Il punto è l’intolleranza. Intolleranza vestita invece da opinione, slogan, credo politico, commento in un blog letterario. Siamo così sicuri di poter e dover dire sempre la nostra? Siamo così sicuri sia necessario? E necessario a chi? Agli altri o a noi stessi? Cos’è criticare l’altro, per giunta l’ultimo arrivato, sulla forma e non sulla sostanza? Non è forse una banale forma di intolleranza anche questa modalità di critica?
Almeno due volte ci avrei pensato prima commentare come si è commentato.
“Ma costituire una comunità (letteraria) vuol dire sfollare la definizione dei suoi dati certi e smentire la naturalità del “primo uomo (letterato)”. Ho molto apprezzato, Giorgiomaria. Grazie per questo afflato che in primo luogo prova a ridare spessore a una narrazione cittadina appiattita dal pourparler mediatico.
Grazie a te per l’ascolto e la cura.
“Intolleranza vestita invece da opinione”, sarebbe a dire che chi esprime una opinione diversa da quella del Signor Chiappanuvoli è intollerante. Cioè per non essee intollerante bisgna star zitto quando parlano o scrivono gli intellettuali politicamente supercorretti che per definizione hanno sempre ragione. Chapeau,
Gli intellettuali super-corretti? Signor Pietro, io ho 21 anni, e sopratutto m’interessano l’indisciplina (quando esatta per l’immediato) e il gioco nomade. Il buonsenso e la dialettica greve di tolleranza/intolleranza la lascio a lei.